Paul Celan, la pietà della parola

Paul Celan e Gisèle Lestrange

La guerra e la verità della poesia
Considerazioni in margine a una poesia di Paul Celan

di Marco Marangoni

C’è una questione che emerge in ogni guerra e tanto più in queste nostre, moderne e infine in questa ultima, così drammatica, in Ucraina: la perdita delle vite è preceduta e accompagnata della perdita della parola e della verità.

La lingua naturalmente nata per comunicare, per raggiungere l’altro, perde, in guerra, il suo senso, anzi viene contraddetta.

E’ in grado ancora, in guerra, la parola (segnatamente la parola “guerra”) di ospitare l’altro? O invece lo rifiuta?

A regolare i rapporti di belligeranza c’è, prima di tutto, questo rifiuto, questa messa al bando del dialogo. C’è la violenza. Che ne è allora di parole che dicono per non dire, per fingere di dire, avendo di mira la distruzione di ogni vis unitiva che la parola esprime? C’è ancora spazio sim-bolico, spazio linguistico, in una guerra? O siamo piuttosto alla mistificazione della funzione ospitale della parola, al grottesco più dia-bolico?

Ecco che cosa dice la chiacchiera che giustifica una guerra: l’anti-parola, l’anti-poesia; se la poesia è la parola che per definizione cerca di svincolarsi su un sentiero di verità, di trasparenza, di dialogo.

Questo sanno i poeti che della rovina della verità si disperano, ma nella distretta dei loro versi, scuri, ancora sperano?

La poesia alza la posta dei criteri, tra relativamente giusto e ingiusto, polarizzata da un cammino dialogico, inoscurabile, resistente, combattente sul terreno del linguaggio-realtà, per tenere in vita un respiro, nonostante tutto. Giocando la partita magari estrema, tra “Ormai-non più” e “Pur sempre”. Poesia contro antipoesia, ospitalità contro violenza: finchè la “guerra” non sia svergognata.

Questo sanno i poeti?

Nonostante tutto, anche e soprattutto in una guerra, la poesia di certo resta un “cambio di respiro” e intrattenendo un dialogo insperato con le vittime, patisce la loro perdita, si interroga sul loro destino, e le intrattiene in una attenzione, in un dialogo, per quanto tramato questo di una inevitabile oscurità.

L’ultima ospitalità è dunque la pietà della parola? La poesia è, può anche questo? La poesia non si impone, ma si espone, è stato detto. La poesia come un certo cammino.

Leggiamo qui di seguito questa poesia di Paul Celan, nato a Czernowitz, nella Bucovina settentrionale, che oggi fa parte dell’Ucraina: “ una contrada – come ebbe a dire il poeta stesso – di uomini e libri” (Allocuzione, Premio letterario di Brema,1958).

La poesia è tratta dalla raccolta Atemkristall ( 21 testi) pubblicata nel settembre del 1965 ( poi nel ’67 ripubblicata in Atemewende, Suhrkamp, Frankfurt/M), in una edizione di lusso (ottantacinque esemplari), presso l’editore Brunidor di Parigi, con otto incisioni della moglie del poeta Gisèle Celan-Lestrange.

Secondo Giuseppe Bevilacqua, Atemkristall sarebbe “l’opera lirica di Celan più compatta, più essenziale; e può essere considerata il vero culmine del suo operare” (Eros-Nostos-Thanatos, saggio introduttivo a Paul Celan, Poesie, Mondadori, Milano 1998, XCII) .

Proponiamo la poesia in una duplice versione: più concettuale di Franco Camera e più liricamente intensa di Giuseppe Bevilacqua. Continua a leggere