“Figùa de pórvoa”, finalista al Premio San Vito 2020


 SPECIALE PREMIO SAN VITO 2020

– Figure di polvere, Amilcare Grassi (Manni Editore, 2019)

di Alberto Rollo

Ho la fortuna di conoscere i luoghi e la musica dei luoghi, vale a dire la cadenza salina e oleosa del dialetto in cui Amilcare Grassi è nato, come uomo e come poeta. Cosa che mi consente, non di accedere ai suoi versi senza mediazione, ma certamente di godere una confidente prossimità. Nascere dentro quella sonorità ha coinciso per Grassi con un’urgenza di raccoglimento che ha finito per tradursi in una esperienza poetica duratura, segnata da quelle che a Franco Fortini piaceva chiamare “insistenze”.
Dicevo “raccoglimento”. Non a caso. I versi di Amilcare Grassi vanno alla ricerca di un tempo dentro il tempo, di un tempo che non smette mai di essere tale: si tratta apparentemente di memoria ma di fatto emergono visioni che sono emergenze, nel duplice senso della parola. Ci sono góse, voci, ci sono sospìi, sospiri, che vengono giù dai canali, e poi un venìe su dai canaòn, un venir su dai canali, di uno sguazzàe de gósa fresca, di uno sguazzare di voce fresca. Venir giù, venir su. La percezione della voce è dentro un accadere che mescola passato e presente, vivi e morti, l’evidenza dell’emozione e la sua identità di pòrvoa, leggera, fragile, transeunte. Dice: “e tùti, morti e vìi / i s’amùce ndi penséi / pòrvoa de stéla nda nòta / c’ar mondo m’è tocà venìe”: tutti “si ammucchiano nei pensieri”. Le figure di polvere del titolo e la polvere di stelle sono premesse e sostanza di canto, di un canto che, con un’immagine fra le più incisive di questa raccolta, affratella file di gatti morti e di umani, come in un coro di sublime terrestre animalità (“Fìa de gàti morti e de cristiàn / tùti a cantàe”). L’insistere di Grassi sulle forme del passaggio mondano, sullo struggimento che accende questo passaggio, sui nodi che legano i gesti dell’esistere miracolati di saggezza in una sola formidabile sequenza è parte decisiva della sua preziosa materia poetica. Vi attinge, Grassi, con generosa insistenza sino cogliere con sintesi memorabile lo sguardo del poeta – il guardare di traverso che è dei cani – su “qualcosa nell’andare via” che “i n’è mai pèrso / i spiàta nde e paòle / ch’er se làsse métee n fìa”, quel qualcosa che non è mai perso e si nasconde nelle parole che si lasciano mettere in fila. Sono in fila umani e animali a cantare, sono in fila vivi e morti, sono in fila le parole, squisite figure di polvere del permanere (e della salvezza).

Gh’è cor màe
là n fondo ar fiùmo
e l’è là c’abiàn d’andàe
stéki e fòge che se stàca
c’a corénte er pòrta zù
a ne siàn come ki péssi
c’arlinsù i vàn a figiàe.

C’è quel mare / là in fondo al fiume / ed è là che abbiamo da andare / stecchi e foglie che si staccano / che la corrente porta giù / noi non siamo come quei pesci / che all’insù vanno a figliare. Continua a leggere