Giovanna Sicari, eternamente nel cerchio

Giovanna Sicari, Credits ph. Dino Ignani

NOTA DI LETTURA DI MONICA ACITO

Non tutte le donne amate dai poeti si nascondono tra le righe.
Alcune di loro sono fatte solo di inchiostro, altre tremano insieme alla carta.
Altre ancora riposano, dolcemente, tra un verso e l’altro, in attesa che una mano le sfiori per richiamarle alla vita.

Giovanna Sicari non è stata semplicemente la donna di Milo De Angelis, uno dei poeti viventi più importanti della nostra tradizione letteraria: questa veste non le si addice e sta stretta al suo ricordo, che è vivo e selvaggio, come certi frutti di mare che si trovano solo nella sua Puglia.

Giovanna Sicari non è stata mai un attributo o un complemento d’arredo; non è mai stata solo una semplice musa, ma è stata Calliope in persona.

Nata a Taranto nel 1954, in un sud arcaico che profumava del sale dello Ionio, Giovanna Sicari si trasferisce a Roma da piccola, nel quartiere Monteverde.
Il fondale marino della Puglia, prematuramente abbandonato, scorrerà continuamente sotto la pelle della poetessa, pronto a sgorgare, rompere argini e creare crepe nella parola.

Il litorale ionico, salutato a otto anni, rimarrà rannicchiato per sempre in uno stadio prenatale della sua memoria, dove si annidano soltanto i ricordi rimossi e l’acqua del battesimo.

Il mare e l’abisso del sud ritornano nei versi di Sicari con una prepotenza quasi rabbiosa, che ricorda la fusione pànica di alcune liriche di “Alcyone” (1903) di D’Annunzio, in particolare “Meriggio”.

D’Annunzio compie una metamorfosi con il paesaggio marino, dissolvendosi nel suo “mare etrusco” e disperdendo nell’acqua, i suoi connotati

E sento che il mio vólto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;

(Gabriele D’Annunzio, Meriggio, Alcyone, 1903)

Allo stesso, modo, Sicari, lascia che il mare e il mito della sua infanzia le modellino i fianchi; compie un vero e proprio matrimonio con i luoghi che hanno segnato la sua storia.

Sicari è poetessa e sposa:

Non toccarmi con forza
nel lago del sogno della di lui promessa terra desolata
sono promessa sposa nel fondale marino di un bordello:
immancabile è la vertigine,
lo stile appreso è il giusto spavento.

(Giovanna Sicari, “Poesie 1984-2003”, a cura di R. Deidier, Roma, Empirìa, 2006)

Sicari, però, compie un passaggio in più: riesce a trasportare i luoghi marini della sua prima infanzia nel quartiere di Monteverde a Roma, che diventa l’altare ufficiale della sua storia personale, il cerchio da cui partire, per poi girare in tondo e morire.

Monteverde, Monteverde, Monteverde: Sicari ripeteva il nome del suo quartiere come se fosse stata una formula sciamanica o un rito apotropaico.
Mugolava, si passava Monteverde tra la lingua e il palato, nello stesso modo in cui Cesare Pavese sussurrava, tra i denti, le poesie dedicate alle sue campagne delle Langhe piemontesi.

Proprio così lei pronunciava il nome del suo quartiere, come un “talismano contro infelicità e timore”.

A Roma si iscrive a Lettere, vive l’epoca della contestazione giovanile militante e impara la natura “politica” della parola poetica. Continua a leggere

Essere polvere, Chandra Livia Candiani

 

Chandra Livia Candiani, Credits Salvatore Mayarro

NOTA CRITICA DI FABRIZIO FANTONI

La domanda della sete

La voce è il bosco del volto
tutte le mirabili cose
dell’universo sono nate
dalla voce. La voce
le ha chiamate una a una
senza pensarle le ha chiamate
fuori dalle tenebre e le cose
una a una si sono presentate
sorridendo, non sapendo
che sarebbero presto
rimaste gettate e sole.
La voce conduce, lega
e libera, grida verso l’alto
bisbiglia nella notte
e rispondono i sogni.
Sarà la voce a chiamarmi fuori
dalla tana del corpo,
con quale audacia
il mio personale frammento di voce
risponderà: “Eccomi, sto arrivando”?

E’ nel solco tracciato da questi penetranti versi, che occorre scavare per addentrarci nella lettura dell’ultima raccolta poetica di Chandra Livia Candiani intitolata La domanda della sete, 2016-2020 (Einaudi, 2020). Il libro si presenta, fin dalle prime pagine, come un lungo cammino di meditazione sul senso dell’esistere, che prende le mosse da una riflessione sul corpo, sulle varie parti che lo compongono – piedi, mani, sangue, cuore… – viste, ognuna, come lo strumento attraverso il quale si realizza la nostra percezione dello stare al mondo, del nostro esserci, ma anche del nostro attraversare la vita in tutti i modi possibili “Non domandarti mai dove vai / solo fallo bene”.

A indicare la strada di questo percorso di meditazione è la poesia. La prima sensazione che La domanda della sete offre al lettore è di trovarsi di fronte, non già ad una semplice restituzione in versi di un’esperienza emotiva o esistenziale ma all’estrinsecazione di un più intimo e denso rapporto con la poesia: una sorta di antico patto o sodalizio che impone di affidarsi completamente all’autorità di una parola che emerge da una consapevole sospensione del pensiero e porta a galla i doni di un mondo interiore profondissimo, dando forma ad un nuovo modo di esistere. In questa raccolta, la voce del poeta chiama, dà un nome alle cose, “la voce conduce, lega / e libera, grida verso l’alto”, la voce impone di affrontare il nascosto che è in ognuno di noi ed intima: “Sei l’unica me che ho/ torna a casa”.

La tematica dello smarrirsi e del ritrovarsi, del voltarsi indietro e del tornare ad una dimensione più vera del vivere è centrale nella poesia di Chandra Livia Candiani e presuppone, quale condizione necessaria, l’attraversamento da parte della poesia stessa dell’ ”accaduto”: quel danno originario che è alle nostre spalle e a cui non sappiamo dare il nome ma sappiamo che è lì, presente, come un fardello pesante che immobilizza e confina entro trincee, che isola e smarrisce. Continua a leggere

La terra remota di Umberto Piersanti

Umberto Piersanti credits ph. Dino Ignani

DI FABRIZIO FANTONI

 

 

“A quale terra antica
mi riporti,
a quale ora
fuori dei millenni,
acceso ciclamino
d’un giorno
d’acqua?”.

In questi versi, tratti dall’ultimo libro di Umberto Piersanti intitolato Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo, 2020), è racchiusa la domanda che l’autore pone alla Poesia: di condurlo in quella terra remota che è il passato. E la poesia risponde a questo invito, oltrepassa il muro che separa l’uomo dalle sue memorie e rievoca con progressive ed improvvise illuminazioni volti, odori, situazioni di una fanciullezza vissuta nella pienezza del corpo, a contatto con la natura incontaminata delle Cesane – terra di origine dell’autore – in una continua ed irrimediabile spensieratezza.

“Terra di memorie
l’età che s’inoltra,
di volti che s’affollano
e vicende
d’innanzi agli occhi
e tremano nel sangue,
l’infanzia è la stagione
più tenace
e ogni altra
offusca
e quasi oscura”.

L’incanto della poesia di Umberto Piersanti risiede nella sua capacità di rendere viva quella intimità mentale che l’essere umano sperimenta nei primi anni di vita, quando tutto ciò che lo circonda sembra a portata di mano, creato per lui, e si pensa che rimarrà lì per sempre, che nulla e nessuno potrà toglierci la spensieratezza di ogni giorno.

L’esperienza della guerra attraversa la poesia dell’autore, ma nemmeno tali orrori riescono ad incrinare quel sentimento di vaghezza che il bambino prova nel suo crescere a contatto con le forze vitali della natura: vita e morte, bene e male si intrecciano ed acquistano, nei ricordi dell’autore, la dimensione di una fiaba, come nella bellissima poesia “La fonte dei due gelsi”, dove viene evocata una leggendaria fonte sulla quale crescono due gelsi, uno che fa le more bianche, l’altro che le fa nere che, a contatto con il sangue di un ragazzo ucciso durante la guerra, si dissolve e mai più ricompare.

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Giancarlo Pontiggia, “Voci, fiamme, salti nel buio”

Giancarlo Pontiggia, credits ph Dino Ignani

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

Dopo “Il moto delle cose” Giancarlo Pontiggia torna a sorprendere il lettore con un’opera di rara intensità emotiva: “ Voci, fiamme, salti nel buio”, (Stampa 2009).

L’opera, divisa in due poemetti, – “Il camion e la notte” ed “Animula”- evoca un viaggio onirico che prende le mosse “in un vecchio cortile lastricato di beole grigie”.

E’ in questo spazio di quotidiana semplicità che ha inizio lo scivolare lieve e dolce tra le cose del mondo, quel “ perdersi in quei meandri favolosi/ sogni slanci chimere / tutto ciò che affonda nella vita”, che ti trasmette la gioia voluttuosa di perdersi in un oceano, la vertigine suprema di non essere più nessuno. Ci si ritrova così a contatto con la dimensione più autentica e vera della vita, che si squaderna davanti al lettore in tutte le sue forme, nel suo continuo farsi e disfarsi, nei suoi cambiamenti e nelle sue persistenze, mostrando “quanta notte è ovunque, quanto nero / tra le cose del mondo”. Questa lenta discesa all’origine del tutto è sottolineata dall’andamento della lingua che, da una pacata narratività dei primi componimenti, diviene – in particolare nel secondo componimento intitolato ”Animula”- sempre più magmatica: una moltitudine di materiale linguistico che prende direzioni inaspettate, raggrumandosi in forme inattese che si sfaldano per assumere nuova consistenza.

Il lettore si sente coinvolto dal martellìo costante della lingua e si trova a vorticare tra le parti che compongono il mondo, partecipando “all’inerzia delle cose”.

Con questi componimenti Giancarlo Pontiggia ci porta nella “notte, improvvisa, / con il suo mantello di nuvole scure…” in cui ha sede la poesia o, meglio, la sua origine.

La notte di cui parla Pontiggia altro non è che una dimensione spirituale in cui si ritrova il poeta nella più completa solitudine, in attesa che la parola si depositi.

Scrive Cristina Campo: “ come la manna di Sant’Andrea nella cavità dell’ampolla, il destino si forma nel vuoto in virtù delle stesse leggi complementari che presiedono al nascere della poesia: l’astensione e l’accumulo. La parola che dovrà prendere corpo in quella cavità non è nostra. A noi non spetta che attendere nel paziente deserto, nutrendoci di miele e locuste, la lentissima e istantanea precipitazione. Che è breve e non ripetibile”.

L’esperienza del sorgere della poesia ha qualcosa di simile ad una tensione mistica. Continua a leggere

Sinisgalli, il poeta della luce

Leonardo Sinisgalli

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

La pubblicazione, dell’intera opera poetica di Leonardo Sinisgalli – “TUTTE LE POESIE” a cura di Franco Vitelli, Mondadori 2020- offre l’occasione per svolgere alcune riflessioni sui primi componimenti poetici dell’autore.

Era il 1936 quando, presso l’editore Scheiwiller, uscì quello che possiamo considerare il libro di esordio di Leonardo Sinisgalli intitolato “18 poesie”.

Poesie intense e sorprendenti che Giuseppe Ungaretti definì “spirituali, gentili, bellissime uscite dal segreto della sensazione […] per alzarsi al volo dell’unica realtà poetica quella del sentimento”.

Nucleo tematico della raccolta è il sentimento di nostalgia del poeta che si trova a vivere lontano dalla terra dove ha trascorso la fanciullezza, vista come un’età felice e irrimediabilmente perduta.

Chiuso nel suo esilio, al poeta non resta che cercare rifugio nella sua “storia più remota” per ritrovare se stesso nel ricordo dell’infanzia inquieta che riaffiora “luminosa a mani lisce”.

Sinisgalli è l’iniziatore di una lunga tradizione di poeti meridionali – da Scotellaro a Trufelli, da Parrella a Stolfi- che avendo conosciuto l’esperienza dello sradicamento riportano nei loro versi il ricordo di paradisi lontani “quando bimbi si dormiva sulle aie o sull’orlo di pozzo odorosi d’erbe e di lune”.

Nei versi di Sinisgalli il sentimento della nostalgia si rapprende nella simbologia della “luce”, che il poeta declina in vari modi: è la luce “gridata a perdifiato” della spensieratezza, è la luce calda del meridione che si contrappone al grigiore di una quotidianità spesa in una nebbiosa città di pianura, è,infine, la luce che da forma all’insopprimibile “vocazione ad esistere” del poeta, la “brama di cercar[si] in ogni luogo”.

La poesia di Sinisgalli è, come scrive Zanzotto, “profondamente connaturata alla bellezza e al dolore del Sud”; il poeta non ignora la forte decadenza di una terra che dallo splendore della Magna Grecia sprofonda in una progressiva povertà,ma al contempo, riconosce in questa landa arcaica e violenta il luogo in cui dimora la poesia.
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Il dialogo fra Olimpia e Empedocle

Luigia Sorrentino

Intorno a Olimpia, tragedia del passaggio di Luigia Sorrentino

di Lorenzo Chiuchiù

Ho visto Empedocle ai giochi d’Olimpia,
in gara sopra un cocchio.

F. Hölderlin

Empedocle

Ho impiegato anni a costruire il ponte
ho affondato le sue radici nell’acqua
senza il timore di profanarla.

Olimpia

Tu esisti qui
io sono in questa pietra
la forma terrena, vicino a te – 

I quattro movimenti di Olimpia, tragedia del passaggio rimandano agli elementi di Empedocle: l’antro, il lago, Iperione e Empedocle sono rispettivamente la terra, l’acqua, l’aria (Iperione è figlio di Urano, la sua genesi è legata al cielo) e il fuoco (fuoco dell’Etna dove il sapiente si getta).

Nucleo drammatico e redde rationem, il quarto movimento, che retroillumina i precedenti, è il dialogo fra Olimpia e Empedocle dove si risale alla colpa di Empedocle. Perché Olimpia, certo, è anche la morte ma è morte espiatoria. E Luigia Sorrentino immagina la colpa di Empedocle, il contenuto della sua hybris: Empedocle avrebbe tentato di costruire il ponte tra Occidente e Oriente. Colpa è forse più aver tentato che aver fallito, vedendolo rovinare. Anche di Parmenide e di Platone si sospetta del debito che avrebbero contratto con l’Oriente: l’essere inconcusso e il sentiero delle illusioni che i mortali chiamano mondo, l’incorruttibilità dell’idea el’impermanenza della realtà, il tempo come dispersione e come immagine mobile dell’eterno.

Eterogenesi dei fini: la congiunzione fra Oriente e Occidente, la sapienza che ne scaturisce, revoca in dubbio la possibilità stessa del ponte, l’idea di ogni ponte: l’Oriente mostra all’Occidente sbigottito che all’essere compete solo un luogo segreto e inaccessibile, che l’immortale, la sostanza dei mondi, è inattingibile agli umani. Il ponte di Empedocle è il suo proprio crollo: e questa è la colpa del sapiente, credere che l’eterno e l’immortale possano darsi tangibilmente nell’individuo, che possano, come per l’Empedocle di Hölderlin, «conciliarsi intimamente diventando unità».

È Olimpia a mostrare che di quelle realtà non si dà conciliazione, ma ritmo:«Questo fu Olimpia per sempre: l’ombra e il traguardo, il supremo esporsi e il più profondo ritrarsi, il pendolo perfetto» (Roberto Calasso).

Empedocle è la logica applicata agli elementi del mondo; Olimpia il senso del loro ritmo. Sembra che le tragedie fossero accompagnate da melodie costruite sul modo frigio – un modo minore e oscuro eseguito su ritmi ternari (il blues, sebbene si fondi su un modo differente, è l’analogo più vicino). In questo senso musicale Olimpia è il controcanto di Empedocle, indica un medesimo sfondo ma inserendolo in un ritmoed è una differenza capitale: Empedocle crede nell’unità e il suo destino è renderla presente: eternarsi o mostrarne l’impossibilità, Dio o suicida. La conclusione di Olimpia, tragedia del passaggio vuol essere invece il ritorno ad un altro tipo di sapienza: Olimpia sa – ed è una sapienza irriflessa e animale – che la physis è il suo proprio rimo e che i mortali sono cadenze, accelerazioni e inflessioni; né dèi suicidi, non fiamme straziate in cerca dell’impossibile unità, gli uomini sono successioni ritmiche del to Zoon, del Vivente. Continua a leggere

“Olimpia, tragedia del passaggio”

 

PREMESSA

di Luigia Sorrentino

 

Olimpia, Tragedia del passaggio (in scena al Napoli Teatro Festival Italia al Giardino Romantico di Palazzo Reale il 16 luglio 2020, h.22.30) trova la sua ragione più profonda nella distanza dell’uomo contemporaneo dal suo frammento divino.

*

Questo primo testo scritto per il teatro, che riprende alcune sezioni di Olimpia (Interlinea 2013) si presenta con un altro titolo e un nuovo personaggio, Empedocle.

*

Il tema centrale di Olimpia, tragedia del passaggio è il transito fra nascita e morte, un passaggio senza peso, privi di qualsiasi sostegno materiale: «Sempre di più, il morire. Fluttuando nella sostanza emotiva che preserva e cura, svanisce la memoria di ciò che siamo. La transizione nella morte da vivi, provoca spaesamento. In un grumo di forze distese, avviene lo smantellamento, lo spostamento, l’inversione. Ritorniamo arcaici, al servizio di ciò che siamo già stati.» (v. in Olimpia, “La discendenza” pag. 79, Interlinea, 2013-2019).

*

Voltarsi indietro significa quindi, entrare in dialogo – nella contemporaneità – con l’elemento poetico universalmente umano che porta a toccare la divinità, il canto dell’infinito radicato nell’umano, che ha origine in antiche tradizioni preelleniche, oscure, ctonie. Il transito ci conduce, pertanto, all’origine del linguaggio, alla meraviglia di un mondo che rinasce in forma di parola. Continua a leggere

Giulia Napoleone, “Le fragilità dentro e fuori di me”

In questi mesi di pandemia io ho apparentemente fatto la stessa vita degli ultimi dieci anni, cioè dal mio rientro dalla Siria.

Niente di diverso. Chiusa tra casa, studio e giardino, ho vissuto tempi di completo isolamento, lavorando per molte ore, punto su punto, riga su riga, tra musica e poesia.

Ho alternato in questi anni lunghi periodi di isolamento e lavoro a viaggi anche frequenti, brevi o lunghi che fossero, sempre con accurate e precise preparazioni. Questo insieme mi ha consentito un giusto equilibrio di vita, di rapporti, partecipazioni, incontri con “l’altro da me”.

Il viaggio non è per me solo spostamento, non è lasciare un luogo per arrivare ad un altro.

Disegno di Giulia Napoleone

Per me viaggiare è una condizione, una necessità vitale che mi permette il raggiungimento di quell’equilibrio di cui sono alla costante ricerca.

Equilibrio tra geometria e natura, ordine e caos, realtà e sogno, concentrazione assoluta e mondo esterno.

Essere privata dalla possibilità di viaggiare, di questa risorsa essenziale mi ha quindi creato in questi mesi un grande disagio.

Ho continuato a lavorare, spesso al limite delle mie energie, ma quello che è profondamente cambiato è lo spirito con cui ho affrontato le mie giornate di lavoro. Giorni trascorsi con profonda tristezza per le notizie, le immagini, le incertezze, la perdita di tanti amici.

Disegno di Giulia Napoleone

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Gian Mario Villalta, “Nel lembo del tempo”

Gian Mario Villalta credits ph Dino Ignani

È l’ora, soddisfatte le ombre,
e con il vento
volato via lo sguardo
dalle sedie sul prato,
dal pensiero della fatica che è stata la sera.

Stai su un lembo del tempo
non è più la terra
dove sei nato,

porti il fiato sul vetro
e la luce attraverso ti fa di cera.
Dove hai le mani, tu vedi

stasera
il viso che chiudi nei palmi
in attesa di un grido, la sete

di animale notturno.

*

L’ombra della voce si assottiglia.

Giorno dopo giorno l’incertezza
raschia i margini a ogni parola.

Tu sai quanto distante è sempre stato
per me il presente, per desiderio matto
dell’adesso, per timore che il prendere
tutto, tutto in una volta, mi perdesse.

Il dopo giorno sfasa il sincrono
degli occhi e delle labbra.

*

fermi i colori fuori, tutti i pensieri
smentiti dall’altoparlante

il cielo vuoto porta via i giorni dove eravamo

e gli alberi c’erano sempre stati, sempre stata
la primavera, non ti chiedevi se ancora, per quanto,
se sarà mai, se mai era stato vero

devo dirti che ho paura e non so come
perché là fuori c’è il tempo, là fuori, e qui mancano istanti
alle ore

*

“L’inferno sono gli altri”
J. P. Sartre

Solo nell’auto tra i campi (uscito a comprare cibo)
ho fatto un giro largo
per le stradelle: nessuno. Un deserto fiorito
di case belle, lussuose di erbe e di acqua veloce.
Solo io ancora vivo: che inferno
sarebbe? Io, prigioniero di tanto bendidio.

La parola ancora, percepibile
al tatto, torna al mittente
a occhi chiusi

(gli altri sono anche l’inferno, sì, sono
anche tutto, però).

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Roberto Esposito, “Il fragile equilibrio fra comunità e immunità”

Roberto Esposito

IL DOPPIO VOLTO DELL’IMMUNITA’

DI ROBERTO ESPOSITO

Bisogna stare attenti a non ridurre il significato del concetto di immunità a un’esperienza recente, di carattere medico o giuridico, volta a chiuderci entro confini difensivi nei confronti dell’altro. Ciò non è sbagliato, ma va inserito in un orizzonte più ampio, adottando uno sguardo di lungo periodo.

Da questa prospettiva, per così dire genealogica, l’immunità, o l’immunizzazione è un paradigma attraverso il quale è possibile rileggere l’intera storia moderna. Se l’esigenza di autoprotezione della vita caratterizza tutta la storia umana, rendendola possibile, è nella modernità che essa viene percepita come un problema fondamentale, e dunque come compito strategico.

Privati delle protezioni naturali di carattere teologico che avevano caratterizzato la stagione premoderna, gli uomini sentono il bisogno di costruire dei dispositivi immunitari di tipo artificiale per proteggersi dai mali, dai conflitti e anche dalle novità che li minacciano, il primo dei quali è lo Stato moderno.

Quanto accade oggi non è che l’ultimo passaggio, sempre più accelerato e quasi ossessivo, di questo processo. Quello cui assistiamo, insomma, è uno straordinario mutamento di scala di un processo risalente nel tempo. Per capire il fenomeno in tutto il suo rilievo, storico, filosofico, antropologico, non dobbiamo smarrire la complessità del meccanismo di immunizzazione, evitando ogni semplificazione polemica o retorica.

Esso è un processo ambivalente, che produce effetti contraddittori. L’immunizzazione è allo stesso tempo necessaria e rischiosa, protegge dai rischi e ne genera a sua volta altri. È necessaria perché nessun corpo individuale o collettivo potrebbe sopravvivere a lungo senza un sistema immunitario che lo protegga da conflitti insostenibili – per esempio senza il sistema immunitario del diritto una società esploderebbe. Ma è rischioso perché, oltre una certa soglia, l’eccesso di protezione rischia di bloccare l’altra esigenza umana fondamentale che è quella della comunità, cioè della relazione tra gli uomini.

Il problema che abbiamo anche oggi di fronte non è quello, semplicistico, di contrapporre comunità e immunità, ma articolarle in una forma sostenibile che non sacrifichi l’una a favore dell’altra. Certo, oggi, forse mai come oggi nel corso di tutta la storia, assistiamo ad una crescita abnorme dell’esigenza immunitaria. Essa è diventata il perno intorno al quale ruota tutta la nostra esperienza reale e simbolica, il punto d’incrocio di tutti i linguaggi – biologici, giuridici, politici, economici. Riguarda insieme il corpo individuale e il corpo collettivo, il corpo sociale e il corpo informatico, tutti in difesa contro i virus di vario genere che li attaccano o sembrano attaccarli.

In questo modo l’equilibrio tra communitas e immunitas sembra spezzarsi a favore di quest’ultima. Il limite appare superato, con la conseguenza di ridurre al minimo non solo la vita in comune, ma perfino la libertà individuale. Il rischio ultimo cui le nostre società immunizzate vanno incontro è quello che si sperimenta durante le malattie autoimmuni, quando il sistema immunitario è talmente forte da rivolgersi contro lo stesso corpo che dovrebbe proteggere, distruggendolo.

Si è visto che questo – un eccesso di difesa da parte degli anticorpi – è quanto accade anche nel covid 19, con l’esito di infiammare i polmoni, come scrive nel suo ultimo libro sull’immunità – Il fuoco interiore – l’immunologo Mantovani. Qui si determina il classico controeffetto delle procedure immunitarie quando sono spinte aldilà della loro funzione normale. Continua a leggere

L’ordine del mondo



Nel tempo del coronavirus
di Luigia Sorrentino

 

 

La pandemia da coronavirus della quale si è cominciato a parlare in Italia dal 22 febbraio 2020 è l’epidemia mondiale chiamata COVID-19 e provocata dal virus SARS-CoV-2.

Di questo virus noi, persone comuni, sappiamo davvero ben poco.
Ci hanno detto che si era diffuso già molti mesi prima nel mercato del pesce di Wuhan, in Cina, per poi propagarsi in Giappone, poi in Italia, e via via, velocemente in tutto il mondo, causando migliaia e poi milioni di morti.
Successivamente abbiamo saputo che il virus, manifestatosi con febbre alta, tosse, e con una strana polmonite interstiziale, circolava in Italia già dall’ ottobre 2019.

Il governo italiano colto alla sprovvista ha preso decisioni drastiche: nel tentativo di arginare l’emergenza sanitaria e la diffusione del virus ha costretto l’intera popolazione a restare in isolamento per mesi, fermando, di fatto, l’intero Paese.

La necessità di contenimento imposte dalla pandemia hanno sollevato numerose proteste sul piano geopolitico e ideologico, volte a rivendicare i diritti umani che sembravano essere stati messi in discussione. Anche se nella maggioranza dei casi, le reazioni più condivise sono state di accettazione eppure spesso alla base vi era un fondo di amarezza per quello che sembrava essere, oltre che una misura di tutela sanitaria, anche un attentato alla libertà individuale e collettiva. Continua a leggere

Quante parole non ci sono più

Tributo a Mario Benedetti
di Luigia Sorrentino

«Povera umana gloria
quali parole abbiamo ancora per noi?»

da Umana gloria, MARIO BENEDETTI

 

E’ già passato un mese. Il 27 marzo 2020 è morto l’amico e poeta Mario Benedetti. Eravamo in piena epidemia,  chiusi nelle case, per difenderci dal nemico invisibile.

Subito dopo la notizia della scomparsa di Mario, su mia iniziativa, con la collaborazione di Fabrizio Fantoni, a partire dal 27 marzo 2020, abbiamo invitato diversi poeti famosi, giovani poeti e critici militanti, a inviare al blog, ricordi, testimonianze o articoli per rendere Tributo a Mario Benedetti.

La mia intenzione era quella di innescare una militanza poetica sulla figura e sulla poesia di Mario Benedetti poeta italiano, morto con il covid-19, in un tempo in cui tutto il pianeta si è fermato proprio a causa del diffondersi dell’epidemia.

L’auspicio, quindi,  era di fermare l’attenzione dei nostri lettori, pubblicando uno o due post al giorno per ricordare per 31 giorni (un mese)  la poesia di uno dei maggiori poeti del nostro tempo. Certo è che di lui non sentivamo più parlare dal settembre 2014, e cioè dal giorno in cui Mario fu colpito da arresto cardiaco con ipossia cerebrale che aveva compromesso, in gran parte, le sue capacità cognitive.

Mi è sembrato doveroso, pertanto,  offrire il  tributo  del blog poesia a un  importante poeta contemporaneo, uno dei migliori della sua generazione, noto e apprezzato da molti, fino a sei anni fa. Purtroppo  di Mario Benedetti non se ne parlava più da tempo.  Era caduto nel silenzio assordante dell’isolamento e della malattia.

Eppure Mario era vivo, ancor vivo, e amato dagli amici di sempre che non hanno mai smesso di fargli visita nella residenza di Piadena, vicino Cremona, nella quale Mario, in precarie condizioni di salute, era ricoverato e assistito.

Fra le tante persone che abbiamo invitato a scrivere di Mario, o su Mario, come detto prima, poeti noti, giovani poeti e critici militanti. Alcuni di essi conoscevano bene la poesia di Benedetti, altri meno, altri ancora, avevano letto solo qualche suo libro, molti non l’avevano mai incontrato di persona, o solo di sfuggita.

Comprendendo nell’elenco me stessa, sono 35 i poeti e i critici che hanno deciso di partecipare all’iniziativa, che si snoda, giorno dopo giorno, a partire dal 27 marzo, come un libro. Uno fra loro ha tenuto a precisare: “Commemorare la scomparsa di un poeta è più facile per chi lo ha conosciuto bene e di persona, mentre per valutarne l’opera non è detto che ciò sia necessariamente un vantaggio.” Continua a leggere

Il sogno di vivere di Mario Benedetti

L’ultima foto di Mario Benedetti postata sul suo profilo di facebook, nell’estate 2014

di Fabrizio Fantoni

Sta solo fermo nella tosse.
Un po’ prende le mani e le mette sul comodino
per bere il bicchiere di acqua comprata,
come tanti prati guardati senza dire niente,
tante cose fatte in tutti i giorni.
Intorno ha una cassettiera con lo specchio,
due sedie scure, un armadio, l’incandescenza minuscola di una stufa.
Dei centrini, la stampa di una natività con il rametto di ulivo,
un taccuino, dei pantaloni, delle cose sue.
Davanti il cielo che è venuto insieme a lui,
gli alberi che sono venuti insieme a lui. Forse una ghiaia di giochi
e dei morti, che sono silenzio, un solo grande silenzio, un silenzio di tutto.
A volte l’acqua del Cornappo era una saliva più molle,
un respiro che scivolava sui sassi.
A volte tutto era l’uccellino del freddo disegnato sul libro di lettura
vicino a una poesia scritta in grande da imparare a memoria.
A volte niente, venire di qua a prendere il pezzo di cioccolato
e la tosse, quella maniera della luce di far tremare le cose,
gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male.

La prima impressione che offre questa poesia Per mio padre, tratta da Umana gloria (Mondadori, 2004) è di sfogliare un vecchio album di fotografie, lasciato abbandonato da qualche parte , e poi ritrovato.

I paesaggi, le case, gli interni delle stanze dove si consuma l’intimità familiare, gli oggetti della vita quotidiana, si dispiegano sulla pagina  come su una scena, convocati dal poeta in una dimensione fuori del tempo e del reale e si fanno, nello spazio della poesia, “fiaba” intesa come dimensione della bellezza sul punto di scomparire, della grazia per un attimo intravista e poi persa, proprio come le apparizioni trascoloranti che popolano le storie.

Si racconta che il faraone Micerino, essendo condannato dagli dèi a vivere una vita breve, decidesse di illuminare con migliaia di fiaccole i suoi palazzi e i suoi giardini in modo da trasformare le notti in giorno ed avere la percezione di vivere più a lungo.

Questa è la metafora più bella del poeta perché, del resto, cosa fa il poeta se non cercare di trattenere, quanto più possibile, quel poco che gli è dato di vivere?

Mario Benedetti, di certo, va in questa direzione,  ponendosi, tuttavia, ad una “distanza”dalle cose – la distanza propria del sopravvissuto, di chi può narrare ciò che è stato prima del naufragio- che gli permette di  imprimere all’oggetto della sua rievocazione un carattere simbolico che si fa specchio di un paesaggio metafisico interiore in cui l’essere umano appare costantemente sul punto di dissolversi:

“solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi” Continua a leggere

“E stare soli è più grande”

di Giovanni Ibello

 

Si è scritto tanto in queste settimane su Mario Benedetti. Devo dire che ho molto apprezzato la eterogeneità degli interventi proposti su questo spazio ed è bello che il blog “Poesia, di Luigia Sorrentino” su Rai News abbia instaurato un dialogo così fecondo sulla parola di questo autore. Mario Benedetti sapeva individuare con esattezza il confine tra biografia e slancio universale della parola poetica. A mio avviso la sofferenza fu per il poeta non tanto una personalissima trincea esistenziale, come invece è stato scritto nei giorni passati, bensì un prezioso cifrario che gli ha consentito di sondare e decodificare l’umano, sia nelle sue espressioni più elevate che in quelle più misere: la commozione (“E piange la parola che riesce a dire”), il disarmo, la solitudine, lo smarrimento, la metastatica condizione dei fragili, il peso delle cose, “il peso degli oggetti… il loro significare peso e perdita” (come peraltro scriveva Amelia Rosselli in Documento, Garzanti, 1976).

Ha perfettamente ragione Antonio Riccardi quando scrive (in introduzione al volume Benedetti, Tutte le poesie, Garzanti, 2017)  di un poeta “fedele alle cose, soprattutto le più comuni e dimesse”. La poesia di Mario Benedetti, certamente umile e antiretorica, si pone dunque come un atto di conoscenza essenziale della vita, dello smarrimento (come archetipo dell’esistenza) e della morte. Non si può giammai parlare di mero diarismo (a tal proposito è magistrale l’emistìchio “Si diventa altri occhi per morire dovunque”, da Tersa Morte, Mondadori, 2013). Il poeta non fa mai esplicito riferimento alle sue vicende private, ma ci mostra un’umanità desolata (“adesso che piangere è pioggia, / e stare soli è più grande”) e lo fa adottando una sintassi franta e faticosa. Va da sé che in Benedetti la forma esprime anche una co-sostanza del pensiero poetico. Con la sua testimonianza in versi, Benedetti ci confessa che “il poeta da semplice creatura che vive nel mondo diventa colui che crea e rinnova perpetuamente il mondo stesso” (questo l’auspicio di Adonis in La musica della balena azzurra. La cultura araba, l’Islam, l’Occidente, Guanda, 2005). Benché si tratti di un modo di “stare nelle cose della vita” pienamente consapevoli della propria caducità, è curioso che la parola di Benedetti sembra quasi celebrare un’assenza, stringere intime alleanze con un vuoto di parole (che “non sono per chi non è più”) e di interlocutori. Continua a leggere

La testimonianza poetica di Benedetti

Si deve morire, e non sembra vero
Pitture nere su carta
, MARIO BENEDETTI


IL RICORDO DI MAURIZIO CUCCHI 

Avevo conosciuto i suoi versi, prima della persona, e ne avevo subito apprezzato il valore di una attenta, voluta ricerca di normalità autentica. Una parola, la sua, capace di registrare il sentimento quotidiano dell’esistere, la sua umile bellezza, di cui sapeva cogliere il senso tra esperienza diretta e presenze trasmesse nel tempo da una realtà locale, partendo da quella delle sue origini friulane, a cui non poteva non essere legato. Siamo poi diventati amici, abbiamo passato ore molto vive insieme, abbiamo lavorato insieme, anche, nel segno di una fiducia credo davvero reciproca e solida.

La cattiveria del destino aveva posto fine alla sua opera già molto prima, purtroppo, che alla sua stessa vita. E parlo di un’opera poetica che si era utilmente mossa nella necessità di un progetto interno che lo aveva portato da un dire d’ampio respiro, aperto nel suo svolgersi a un passo dalla prosa, a una scrittura resa decisamente scarna e a suo modo impervia. Fino a una sintesi in Tersa morte, di cui avremmo voluto poter conoscere gli ulteriori sviluppi. Continua a leggere

Benedetti, straniero alla propria morte

MARIO BENEDETTI A RITRATTI DI POESIA, 2011 CREDITS PH DINO IGNANI

Ecfrasis
di Antonella Anedda

“Ho freddo ma come se non fossi io”. In questi versi c’è il mondo di Mario Benedetti, morto il 27 marzo 2020 a sessantaquattro anni.

Chi ha ascoltato le sue letture ricorda come fossero il rendiconto di una distanza all’interno della quale però succedeva qualcosa di sorprendente: Benedetti scavava con il suo linguaggio uno spazio di indifferenza dove inaspettatamente si accendeva una promessa.

Può sembrare un paradosso, ma dire come se non fossi io ci allontana da quella prossimità che avrebbe impedito di scriverlo davvero. Si guarda se stessi, si constata la presenza del gelo e insieme si scandaglia quello che siamo di fronte alla percezione. Dire “come se non fossi io” significa aver attraversato lunghe distese, essere saliti, caduti, risaliti. Freddo, fossati, torrenti, case color ocra, pitture nere come quelle dell’amato Goya, incubi e strappi luminosi.

Mario Benedetti a Nimis in Friuli sul bordo della Slovenia, il paese della madre. Il confine è il sigillo di un’identità che può essere spostato facilmente, è la prova della storia che agisce sulla geografia. Perché se la “storia è fievole” la storia è anche un fiele che corrode. Il confine mostra a tutti noi cosa possiamo diventare e cosa possiamo smettere di essere. Tenuta e smarrimento, coerenza e contraddizione.

La lingua, come il paesaggio (Cividale con la sua arte è a pochi passi) è colta e periferica, attraversata da scosse, sedimentata in fossili, acque di torrente. Fa corpo con quello che guarda, non può prescindere dal dialetto, ma, come hanno riflettuto i suoi amici e poeti Stefano dal Bianco e Gian Mario Villata, invece di usarlo Benedetti se ne lascia “investire”, lo patisce per poi trasmutarlo nell’ italiano estraneo, straniero e straniato di chi è vissuto ascoltando una lingua diversa. Dal dialetto si coagula un quotidiano fatto di suoni fitti di consonanti, fatica, sprofondamenti, ma in grado di farsi colpire da folate di altri linguaggi (il francese prima di tutti) e pensieri, da altri spazi aperti al vento, alle ginestre, alle maree come la Bretagna, con quella materia che aveva già accolto la poesia di Paul Celan. Continua a leggere

Addio a Mario Benedetti (1955-2020)

Mario Benedetti, Credits ph. Dino Ignani

«Povera umana gloria/ quali parole abbiamo ancora per noi?»
(da Umana gloria M. BENEDETTI)

Mario è morto il 27 marzo 2020. Viveva dal 21 marzo 2018 in una residenza a Piadena, in provincia di Cremona. Nel 2014 era stato colpito da un arresto cardiaco con ipossia cerebrale, ma si era ripreso e stava bene, anche se non ha più scritto nulla. E’ morto nell’infuriare di questa epidemia terribile che è il COVID- 19.

Mario Benedetti verrà temporaneamente tumulato nella tomba di famiglia di Donata Feroldi, l’amica di una vita, a Piadena, perché lui aveva espresso il desiderio di essere sepolto acconto al padre a Nimis, dove aveva vissuto,  in Friuli. Ma le circostanze emergenziali in cui tutti ci troviamo, non consentono di farlo subito.

Lunedì 30 marzo ci sarà, in tarda mattinata, una piccola cerimonia funebre al cimitero a Piadena.  Date le circostanze, sarà un semplice saluto, al quale parteciperanno tre o quattro persone.

Da Umana Gloria

È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.
Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.

Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,

il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.

Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono.

*

Che cos’è la solitudine.

Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.

Ho freddo, ma come se non fossi io.

Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.

Che cos’è la solitudine.

La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.

L’ho letto su un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.

*

Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo,
che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.

*

Come dire che due ragazzi camminano
sulla breve salita
e la notte cammina
in quel breve salire,
e in questo poco tempo noi siamo vivi,
erba, fiume laggiù
che mormori a tutto il vuoto e a me
l’eco del salire dei corpi?

*

Non sapevo se le mie parole erano le stesse
per tutti, la mia notte
se era la stessa nessuno lo diceva.
Valli, ogni volta che venivo,
erba ripetevo, adesso è ancora questa erba,
e alberi, toccarli, dire alberi.
Viale che non guardo,
rimasto come lo sapevo ma neppure un viale.
E cammino anche più in là di me
adesso che piangere è pioggia,
e stare soli è più grande.

Mario Benedetti, da Tutte le poesie (Garzanti, 2018)

___

Dall’Introduzione all’intervista di Luigia Sorrentino a Mario Benedetti (RAI Radio Uno, 2012)

“Mario Benedetti ha pubblicato numerose raccolte di poesie, traduzioni, saggi critici e prose poetiche. Ha collaborato a vari giornali e riviste letterarie ed è una delle voci più significative della nostra poesia più recente. Nei suoi versi vi è tutta l’incertezza e la provvisorietà dell’essere umano.”

Così raccontava di se stesso nell’intervista radiofonica (n.d.r. “Per il verso giusto” – I poeti su Radio Uno) – realizzata nel 2012 da Luigia Sorrentino: “Sono nato malato… anche da bambino… avevo sempre qualcosa.

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Luigia Sorrentino, da “Inizio e Fine”

Luigia Sorrentino

I

non credeva che le onde
parlassero vicino al canneto
le note più lievi vennero da lì
in un pomeriggio di polvere e vento
l’ultimo giorno di agosto

legava a un filo l’odore della terra
sottraendola alla perdita

la misura più breve guastava
il cuore del tempo

II

per tutta l’estate gli alberi piansero
sangue vischioso
l’occulto si era disciolto sulla corteccia
bruna

venne a renderci omaggio
l’opacità delle cose ultime

l’ultima stagione ci lasciò
in un’angoscia secca
eravamo caduti nell’ordine
della fine

III

la luce opaca preparava
un lago inespresso

raccolta negli occhi
la terra che nessuno possiede
attendeva

pretendeva, dall’inizio alla fine
ogni cosa che vive, il suo nome Continua a leggere

Primavera hitleriana, di Montale

Eugenio Montale

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

Vale la pena di rileggere, in questi tempi di grandi urlatori e di confusione generale, la poesia “Primavera hitleriana” di Eugenio Montale, inserita nella raccolta “La bufera e altro”.
Il testo – uno dei più rilevanti di Montale – prende le mosse dalla visita di Hitler a Firenze nella primavera del 1938 e denuncia, come nessun altro, l’indifferenza dell’uomo di fronte alla graduale cancellazione dei valori di libertà, dignità personale e identità culturale di minoranze etniche, schiacciate dai totalitarismi trionfanti che, di lì a poco, avrebbe portato l’intera Europa alla distruzione.

A Firenze tutto, anche la natura – la folta nuvola bianca delle “falene impazzite” e il regredire ”dell’estate imminente” al freddo notturno della ”stagione morta” – sembra presagire alla sofferenza e all’orrore portato dal “messo infernale” accolto da un “alalà” di scherani.
Il giudizio morale emerge con un verso iconico e dirompente: “e più nessuno è incolpevole”.
In questo verso è racchiuso tutto il dramma del Novecento.
Ognuno di noi è responsabile – con le proprie azioni, omissioni, con il proprio tacere, la propria indifferenza e superficialità- degli orrori compiuti dai totalitarismi in questo secolo.

La lettura ad alta voce di “PRIMAVERA HITLERIANA” di Eugenio Montale è di LUIGIA SORRENTINO

La musica utilizzata è composta da John Williams ed è tratta dalla dalla colonna sonora del film “Schindler’s List”, di Steven Spielberg (1993). Le parti di violino sono suonate dal violinista israeliano-americano e direttore d’orchestra Itzhak Perlman.

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I finalisti e i vincitori del Premio Poesia Città di Fiumicino 2019

A Fiumicino, sabato 26 ottobre, alle 18.30, nella sala convegni dell’Hotel Best Western Rome Airport, (via Portuense, 2465) si svolgerà la serata finale del “Premio Poesia Città di Fiumicino 2019” con le letture dei poeti, la proclamazione del vincitore o della vincitrice per l’Opera di Poesia e la consegna dei numerosi premi e riconoscimenti.

Nel corso della serata la Giuria Tecnica, composta da Milo De Angelis, Fabrizio Fantoni, Luigia Sorrentino e Emanuele Trevi, designerà il vincitore della Quinta Edizione del Premio Poesia Città di Fiumicino 2019 per l’ “OPERA DI POESIA”.

Per la sezione “PREMIO PER L’OPERA DI POESIA”, finalisti Continua a leggere

Umberto Saba, “Il Borgo”

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

Ne Il Borgo – in assoluto una delle più belle liriche del Novecento – Umberto Saba tratteggia un ritratto esistenziale del suo essere poeta. Nucleo tematico dell’intero componimento è “la vita” che diviene l’oggetto privilegiato dell’introspezione poetica e la fonte da cui prende le mosse l’ispirazione “vita onde nacque il mio spirito dolce/ e vile”.

Nella prima parte del testo l’itinerario d’esperienza percorso dall’autore per conoscere la realtà ha origine da una contemplazione della vita, dove ancora manca la capacità di un’intima e vera adesione sentimentale alle cose del mondo. Il poeta ha vent’anni e, nelle strade del borgo, patisce la solitudine e la condanna della diversità dall’uomo comune “soffersi il desiderio dolce/e vano /d’immettere la mia dentro la calda /vita di tutti, /d’essere come tutti/ gli uomini di tutti/i giorni”. Tale desiderio accompagna l’intera giovinezza del poeta che vorrebbe godere l’alta gioia “d’essere questo soltanto: fra gli uomini/un uomo”.

Nella seconda parte della lirica troviamo il poeta giunto alle soglie di una esacerbata e disillusa maturità (“e morte/m’aspetta”) che ancora vorrebbe, nostalgicamente, “la fede avere/di tutti” nel credere che la vita non sia solo sventura come egli invece, nella sua acuta intelligenza del reale, sa: ma la certezza di non poter guarire dal proprio doloroso stato è ormai irreversibilmente acquisita “non ebbi io mai sì grande/gioia, né averla dalla vita spero”.

La catarsi salvifica, vietata al poeta, di realizzare il passaggio aduna condizione esistenziale più liberatoria, viene trasferita su un ipotetico alter ego per il quale è ancora aperto, forse, “lo spiraglio”: “Un altro/rivivrà la mia vita,/che in un travaglio estremo/di giovinezza, avrà per egli chiesto,/sperato,/d’immettere la sua dentro la vita/di tutti,/d’essere come tutti/gli appariranno gli uomini di un giorno/d’allora”. Continua a leggere

Una “crepuscolare inquietudine”

Giovanni Pascoli


LA RICERCA DELLA PERDUTA UNITA’ IN PASCOLI

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

“Il gelsomino notturno” di Giovanni Pascoli – poesia inserita nella raccolta “Canti di Castelvecchio” (1903) – è un esempio significativo della poesia simbolista di Pascoli dominata da un senso di “crepuscolare inquietudine”: la corrispondenza tra vita e morte identificata dall’autore fra gli elementi della Natura.  Ecco che una poesia come “Il gelsomino notturno” rimanda, attraverso immagini naturalistiche,  al mistero del concepimento, ma anche alla perduta unità fra umano e natura: “i petali un poco gualciti“, “l’urna molle e segreta”, la “felicità nuova”, che simbolicamente alludono al mistero della donna percepita dall’autore come Natura in perenne metamorfosi.
Compito del poeta è – come scrive Baudelaire – saper cogliere “echi che a lungo e da lontano / tendono a una profonda, tenebrosa unità.”
Analogamente Pascoli esprime l’idea di unità umana e profonda nei compiti che affida al poeta nel suo famoso testo intitolato “Il fanciullino” in cui si legge: “I segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili.
Egli è quello che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; Continua a leggere

Ungaretti, l’autorità della poesia

02/10/1957
Nella foto: il poeta Giuseppe Ungaretti a una conferenza
@ArchiviFarabola [258605]

IL MISTERO DELL’ESISTERE

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

La poesia “Il porto sepolto” di Giuseppe Ungaretti, è tra le più importanti del Novecento. Composta nel 1916, mette in evidenza le profonde innovazioni stilistiche che Ungaretti apportò alla poesia italiana a lui contemporanea.

Il testo rivela una straordinaria novità formale rispetto alle correnti poetiche dell’epoca distaccandosi sia della magniloquenza dannunziana sia, dalle ironica “calata di tono” della tradizione crepuscolare.

La parola poetica, restituita di tutti i suoi valori antichi e primogeneii diviene lo strumento per giungere al cuore dell’esistere. Ogni elemento di questo testo rimanda a una dimensione mitica o simbolica: il poeta (nuovo Orfeo) deve tentare un viaggio negli abissi dell’essere e della coscienza, verso ciò che è stato dimenticato e di cui si è perduta ogni notizia. Lo strumento per giungervi è la parola poetica che deve portare alla luce e diffondere il mistero che dimora nel simbolico “porto sepolto”.
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Premio Poesia Città di Fiumicino

L’Associazione Culturale “CORTE MICINA”, con l’alto patrocinio del Comune di Fiumicino, del Ministero dei Beni Culturali, della Regione Lazio e di Città Metropolitana di Roma Capitale, bandisce la 5a edizione del “Premio Poesia Città di Fiumicino.

Il Premio è riservato a libri di poesia in lingua italiana di autori viventi editi nel biennio

1 giugno 2017 – 31 luglio 2019

La sempre crescente richiesta di partecipazione di poeti al Premio è a conferma dell’alto profilo di credibilità ed autorevolezza assunto dalla manifestazione negli ambienti culturali italiani e nel mondo delle Case editrici, grazie all’eccellenza dei componenti la Giuria Tecnica (Milo De Angelis, Fabrizio Fantoni, Luigia Sorrentino, Emanuele Trevi) – nomi tra i più significativi della cultura italiana.

Il Premio si articola nelle seguenti sezioni:

  • “Premio Poesia Città di Fiumicino” – riservato a libri di Poesia in lingua italiana di autori viventi pubblicati in un periodo compreso nel biennio 1 giugno 2017 – 31 luglio 2019 (vedi art. 2 del bando);
  • “Premio Opera Prima” – riservato alle “opere prime” di autori italiani viventi pubblicate nel biennio 1 giugno 2017 – 31 luglio 2019 (vedi art. 3 del bando);
  • “Premio Poesia Inedita”volto a valorizzare giovani – di età non superiore ai 35 anni – autori di una raccolta inedita di poesia in lingua italiana (vedi art. 4 del bando);
  •  “Premio alla Traduzione”riservato ai traduttori in lingua italiana di opere di poesia di autori stranieri, viventi e non viventi (vedi art. 5 del bando);
  • “Premio alla Carriera” dedicato all’alto valore culturale della produzione poetica di un noto autore italiano (vedi art. 6 del bando);
  • “Premio Fotografa una poesia” – concorso dedicato agli amanti della fotografia capaci di rappresentare con immagini fotografiche il valore poetico di una poesia scelta (vedi art. 7 del bando).

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Il ritorno di “Poesia e destino”

Un libro, POESIA E DESTINO, dopo una lunga assenza, torna nelle librerie italiane con l’assoluta voglia di esserci.

L’autore, Milo De Angelis, ripropone nel 2019 integralmente il volume stampato con Cappelli nel 1982 senza alcun ripensamento. Queste pagine,  spiega Milo De Angelis nella nota introduttiva, “da una parte possiedono qualcosa che mi è rimasto dentro [ …] e dall’altra qualcosa che ho perduto per sempre.

 

POESIA E DESTINO
Nota introduttiva di Milo De Angelis

 

Perché ristampare queste mie vecchie pagine? Perché da una parte possiedono qualcosa che mi è rimasto dentro – intatto, quasi intoccabile dal tempo – e dall’altra qualcosa che ho perduto per sempre. Molti temi di Poesia e destino sono quelli che mi scuotono ancora oggi: la tragedia, l’eroismo, l’adolescenza, il mito, il gesto atletico. Ma il tono è un altro. Il tono è furente, perentorio, imperativo, dà sempre l’impressione di un ultimatum che io pongo a me stesso e a chi mi legge. E’ come se da lì a poco dovesse scaturire una sentenza senza appello, l’ultimo grado di un processo dove si gioca la condanna o la salvezza. E questo tono guerresco circola nel sangue di una sintassi verticale, scoscesa, rapidissima, piena di strappi e impennate, la stessa di Millimetri, per intenderci, che è stato scritto nei medesimi anni. Ora non potrei nemmeno immaginare quella corsa sulle macchine volanti della parola. Me ne sono accorto trascrivendo il libro in un file per necessità editoriali. A volte ero pienamente d’accordo con me stesso, felice di essere rimasto fedele alle grandi passioni giovanili. Ma molto più spesso non capivo, letteralmente, il nesso troppo segreto tra due termini o due affermazioni. Dovevo leggere e rileggere, farmi aiutare dall’insieme della pagina. Continua a leggere

Alla Casa delle Letterature “Tempo riflesso” di Corrado Benigni

Pietre vive

Volevamo uscire dal silenzio

ma non eravamo mai entrati.

Pietre vive le parole,

unica traccia di quello che abbiamo cercato.

Agli alberi abbiamo chiesto in prestito la voce,

ai sassi il volto per dare forma al visibile.

Dall’acqua abbiamo imparato la pazienza dell’attesa,

dal ghiaccio che si muove seguendo la corrente.

Perché nel movimento impercettibile della polvere

è scritta la meccanica dell’universo,

la conta del tempo che non torna.

 

Corrado Benigni /Credits ph. Dino Ignani

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Il primo blog di poesia della Rai

William Kentridge Tevere eterno

William Kentridge, fiume Tevere  Triumphs and Laments, 20 aprile 2016 – credits Ph. Fabrizio Fantoni, ombra supplicante Luigia Sorrentino

 

L’IDENTITA’ DELLA POESIA

DI Luigia Sorrentino

 

La mia esperienza di blogger è cominciata nel settembre 2007. Intendevo creare in rete, sul sito di Rai News 24, un luogo di confine nel quale custodire, difendere e  proteggere, l’identità dei poeti e della poesia.   Volevo, insomma, determinare un luogo ove fosse riconosciuta l’identità dei reietti, sempre respinti e costretti a vagare nella solitudine e nell’isolamento. Desideravo un luogo di sguardi. Volevo depositare il seme di una presenza, mettere radici su quel confine e lasciare la traccia di volti emersi dal magma della parola, in tutta la loro verità.

Il primo blog di poesia sul sito della Rai, è diventato in breve tempo, un luogo di forza sul quale si è fermato lo sguardo di coloro che, come me, volevano stupirsi, meravigliarsi. Finalmente i volti dei poeti emergevano in tutta la loro potenza espressiva, in uno scatto autobiografico e fotografico. Grazie, devo dire, anche, alla collaborazione del fotografo e poeta, Dino Ignani, alcuni di quei volti, sono stati, via via, sempre più riconoscibili. Un grazie enorme anche a Viviana Nicodemo, attrice, regista e  fotografa straordinaria: ci ha donato scatti e intuizioni indimenticabili. Grazie a poeti come Antonella Anedda, Silvia Bre, Franco Buffoni, Nanni Cagnone, Alessandro Ceni, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Vivian Lamarque, Franco Loi, Mariangela Gualtieri, Valerio Magrelli, Umberto Piersanti, Davide Rondoni, Patrizia Valduga, Gian Mario Villalta, per citare solo alcuni dei più importanti poeti italiani contemporanei che ci hanno offerto i loro contributi e talvolta, anche testi inediti e anteprime editoriali. Grazie al loro prezioso contributo il blog si è accresciuto e affermato come luogo privilegiato della grande poesia italiana.

Nel 2007 lavoravo a Rai News 24 e avevo realizzato  per i programmi di approfondimento culturale interviste televisive (oltre che con i poeti italiani già citati) con alcuni dei maggiori poeti  noti a livello internazionale  fra i quali, il poeta siriano Adonis, il grande poeta francese Yves Bonnefoy, l’inglese Tony Harrison, le polacche Julia Hartwig e Ewa Lipska, i Premi Nobel Seamus Heaney, Derek Walcott e Orhan Pamuk, il Premio Pulitzer Mark Strand e il poeta candidato al Nobel, Adam Zagaiewski e molti altri.

ORHAN PAMUK

Nel settembre 2006, quindi un anno prima di iniziare l’esperienza di blogger, avevo avuto l’ occasione di incontrare a Napoli per un’intervista per RaiNews24, lo scrittore turco Orhan Pamuk pochi giorni prima che l’Accademia di Svezia gli conferisse il Premio Nobel per la Letteratura.

Orhan Pamuk, che in Italia aveva pubblicato romanzi come Il mio nome è rosso, Neve e Istanbul, mi aveva profondamente colpito perché al centro della sua opera di scrittore,  aveva messo il tema dell’identità, un argomento poco riflettuto e quasi per niente esplicitato nella letteratura contemporanea in quegli anni. Per me fu illuminante scoprire in quel preciso momento storico, che a porsi domande così importanti sulla propria individualità, su quella della propria nazione in relazione a altre culture e minoranze etniche, non fosse un poeta laureato, ma uno scrittore. La riflessione e l’osservazione dell’opera di uno scrittore nato e vissuto in Turchia che si è battuto per il riconoscimento dei dei diritti umani, dei crimini contro l’umanità, mettendoci “la faccia”, sapendo perfettamente quali erano i rischi che correva, è stata per me una lezione fondamentale. Pamuk mi ha fatto comprendere che anche la poesia e i poeti dovevano andare in quella direzione  rimettendo in discussione il proprio ruolo e la propria posizione nella storia di questi anni.

Fin da adolescente, avendo vissuto a Napoli e nella provincia, ho sempre sentito di avere qualcosa in comune con il popolo turco. Basti pensare che ancora oggi, alcune parole della lingua napoletana sono identiche a quelle turche: ad esempio,  “avash” in napoletano, in turco pronunciato “javash”,  hanno lo stesso significato: “abbassa”, “non correre”, “fermati”. E’ il “tono”, l’autorità con cui la parola viene pronunciata che fa assumere alla stessa parola diversi significati, ma il senso è lo stesso.

Ho ancora negli occhi la prima volta che vidi Istanbul. Il meraviglioso Palazzo Dolmabahçe, il primo palazzo in stile europeo di Istanbul, situato nella parte occidentale della città a ridosso del Bosforo, ex residenza di Ataturk, e poi le stradine di Sultanahmet, l’università,  il venditore di acqua, i minareti, Santa Sophia, la moschea blu, la voce del muezzin, il mercato coperto, l’odore del pesce fritto e servito sulla carta, la confusione a piazza Taksim e l’affabilità delle persone, mi avevano dato la netta sensazione di non essere poi tanto lontana da  Napoli. E tutte le volte che ero tornata lì, nel tempo, e mi ero  fermata di notte sul Bosforo a guardare il paesaggio, nel brulicare delle luci davanti a me, avevo  avvertito sulla mia pelle una certa familiarità con quel luogo. I contrasti, le contraddizioni, i sentimenti di discordia tra fratelli descritti  da Pamuk nel suo romanzo autobiografico Istanbul, li conoscevo; facevano parte anche della mia cultura e erano realtà incandescenti almeno quanto lo erano per Pamuk.

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E’ stato un grande sogno vivere…

Mario Benedetti

È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.
Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.
Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,
il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.
Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono. Continua a leggere

Qual è la funzione della poesia oggi?

Franco Fortini

FRANCO FORTINI E BERTOLT BRECHT

commento DI FABRIZIO FANTONI

Vi propongo oggi la lettura di due poesie, una di Franco Fortini e l’altra, famosissima, di Bertolt Brecht scritte a vent’anni di distanza l’una dall’altra, in due momenti storici differenti eppure, legate fra di loro, da una potente riflessione sul valore della poesia quale testimonianza.

Scrivere, dice Fortini, è necessario anche se apparentemente sembra inutile: il dibattito nella comunità è ormai sopito; oppressore e oppresso vivono l’uno accanto all’altro; addirittura, scrive, “l’odio è cortese” e non si sa più di chi sia la colpa.

Eppure, compito del poeta è vigilare e testimoniare su quello che accade dentro e fuori gli uomini, per dare loro consapevolezza, per aiutarli a comprendere dove si trovano in quel preciso momento e verso cosa stanno andando.

Fortini, avverte il lettore: “La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.” Quindi, il vero mutamento che compie la poesia, sembra dirci, è dentro l’uomo, non fuori di esso.

Invito i lettori del blog a scrivere commenti su qual è la funzione della poesia oggi.

Traducendo Brecht
Franco Fortini

Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela guardando.
Ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida niente
gli uomini e le donne
che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli del nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

dalla raccolta Una volta per sempre, Einaudi, 1978

Bertolt Brecht

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Non sprecare il tuo amore

Adrienne Rich

For the dead

I dreamed I called you on the telephone
to say: Be kinder to yourself
but you were sick and would not answer

The waste of my love goes on this way
trying to save you from yourself

I have always wondered about the left-over
energy, the way water goes rushing down a hill
long after the rains have stopped

or the fire you want to go to bed from
but cannot leave, burning-down but not burnt-down
the red coals more extreme, more curious
in their flashing and dying
than you wish they were
sitting long after midnight

Per i morti

Ho sognato di chiamarti al telefono
per dirti: Sii più dolce con te stesso
ma eri malato, non mi hai risposto

Lo spreco del mio amore va per la sua strada
cercando di salvarti da te stesso

Ho sempre pensato ai residui
di energia, a come l’acqua scorra giù da un colle
dopo l’arrestarsi delle piogge

o del fuoco da cui vorresti prendere commiato,
vorresti andare a letto
eppure non puoi lasciarlo,
è sempre lì, pronto a spegnersi ma non si spegne mai
i carboni sempre più vividi, sempre più strani
prima sfolgorano poi s’acquetano
più di quanto tu voglia restare
seduto lì a mezzanotte inoltrata.

Traduzione di Giovanni Ibello Continua a leggere

Amore e Tradimento

Kate Clanchy

Kate Clancky

Men

I like the simple sort, the soft white-collared ones,
smelling of wash that someone else has done,
of apples, hard new wood. I like the thin-skinned,
outdoor, crinkled kind, the athletes, big-limbed,
who stoop to hear, the moneyed men, the unironic
leisured sort who balk at jokes and have to blink,
the men with houses, kids in cars, who own
the earth and love it, know themselves at home
here, and so don’t know they’re born, or why
born is hard, but snatch life smack from the sky,
a cricket ball caught clean that fills the hand.
I put them all at sea. They peer at my dark land
as if through sun on dazzling waves, and laugh.

Franco Buffoni

Franco Buffoni

Uomini

Odorano di bucato quelli che mi piacciono
– Ma di bucati fatti da altre –
Sanno di mela e legno nuovo duro,
Portano il colletto floscio, slacciato.
E’ il genere sportivo d’ossa solide il mio,
Atleti d’aria aperta e pelle fresca
Che protendono il tronco per sentirci meglio,
Un po’ arruffati, con scarso sense of humour,
Non colgono i giochi di parole
Ma hanno i soldi le case le automobili
Coi bambini dentro,
E posseggono e amano la terra.
Lì si sentono a casa e a loro agio
Non sanno d’essere stati partoriti
Né come sia difficile far nascere
Perché colgono la vita
Come venuta giù dritta dal cielo,
Una palla da cricket presa bene
Che ti riempie la mano.
Li manderei tutti per mare, là dove
Tra onde abbaglianti di luce intravedono
La mia striscia di terra nera e ridono. Continua a leggere

Seamus Heaney, “Traversare l’inverno”

Seamus Heaney © Tutti i diritti riservati / photo by Luigia Sorrentino, Roma, Casa delle Letterature, 7 maggio 2013

ANTEPRIMA EDITORIALE

Dopo Janet Frame è il turno di Seamus Heaney, poeta irlandese, premio Nobel per la letteratura nel 1995. Curato e tradotto da Marco Sonzogni, in Traversare l’inverno Heaney ci consegna un’opera perfettamente riassunta dalla motivazione del Premio Nobel assegnatogli nel 1995: “un lavoro di lirica bellezza ed etica profondità che esalta i miracoli quotidiani quanto il vivente passato”.

SERENADES

The Irish nightingale
is a sedge-warbler,
a little bird with a big voice
kicking up a racket all night.

Not what you’d expect
from the musical nation.
I haven’t even heard one —
nor an owl, for that matter.

My serenades have been
the broken voice of a crow
in a draught or a dream,
the wheeze of bats

or the ack-ack
of the tramp corncrake
lost in a no man’s land
between combines and chemicals.

So fill the bottles, love,
leave them inside their cots.
And if they do wake us, well,
so would the sedge-warbler.

SERENATE

L’usignolo irlandese
è il forapaglie,
un uccellino dalla voce forte
che fa un gran chiasso tutta la notte.

Non ciò che ti aspetteresti
dalla nazione musicale.
Non l’ho neanche mai sentito —
e un gufo nemmeno, se è per quello.

Le mie serenate sono state
la voce spezzata di un corvo
in un vento leggero o in un sogno,
il sibilo dei pipistrelli

o la mitragliata
del re di quaglie vagabondo
perso in una terra di nessuno
fra trebbiatrici e sostanze chimiche.

Perciò riempi i biberon, amore,
lasciali dentro le loro culle,
e se ci svegliano, be’,
farebbe altrettanto il forasiepi. Continua a leggere

Bellintani, il poeta che scelse di rimanere nell’ombra

Umberto Bellintani nel 1940

Per un bambino che non conosce più i passeri

Urlavan lungi dei cani (o eran gufi?).
Urlavan lungi dei cani e c’eran gufi;
e come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri del cimitero
quando il ragazzino si trovò
solo solo nella notte.

E allora egli aveva un urlo strozzato nella gola,
ché un fruscio d’erbe lo soffocava come un serpente
e la luna veramente era cupa tra le fronde degli alberi.
Come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri e i fianchi degli argini,

e fu allora che il bambino perse l’uso della parola,
e perse la vista comune delle viole e dei giocattoli
e il senso naturale delle cose.

Così ora tentenna il capo e nei suoi occhi è una nuvola,
ma pare un angelo divino contemplante
profonde luci assorte in se stesso.

Povera madre che lo sorvegli lungo i sentieri del tuo orto
e ora lacrimi al suo riso ebete sugli asparagi,
io non so dirti s’è sfortuna a lui toccata
o s’è migliore la sua sorte, più benigna
che al fanciullo intento a suddividere
in bianchi e neri i dadi del suo gioco. Continua a leggere

Contatti poetici

Eugenio Montale

 

 

MONTALE E KAVAFIS

Commento di Fabrizio Fantoni

 

 “A una prima occhiata Kavafis sembra autore di poemi conviviali come ne scrissero Pascoli e Rilke: poemetti d’intonazione neoclassica, e sia pure con sentimento moderno. Ma le somiglianze si fermano all’esteriorità perché Kavafis è un vero alessandrino nello spirito e nella carne, del tutto alieno da quei ripensamenti umanistici che sono sempre alle radici di ogni classicismo autentico”.
 
In queste parole, tratte da un articolo di Eugenio Montale apparso sul Corriere della sera nel 1955 è possibile rintracciare le ragioni che spinsero il grande poeta italiano – premio Nobel nel 1975 – ad interessarsi, in modo sempre più crescente, dell’opera di  Kavafis.
 
Costantino Kavafis è, per Montale, un autore in grado di coniugare il passato con il presente, un vero “alessandrino” capace di rinnovare la letteratura greca sottraendola a “quei ripensamenti umanistici che sono sempre alle radici di ogni classicismo autentico”.

In questa  prospettiva la poesia di Kavafis si fa specchio del modo con cui Montale guarda alla Grecia contemporanea, considerandola non tanto come patria di un’antica e perduta cultura ma come una civiltà in continua evoluzione che ricopre un ruolo essenziale nello sviluppo culturale europeo.

Costantino Kavafis

In un famoso testo dedicato alla Grecia dal titolo “Sulla via sacra”, contenuto nella raccolta di racconti di viaggio  “Fuori di casa” edita nel 1969, Montale afferma: ” è un errore venire qui con l’animo di chi entra in un museo. Bisognerebbe diradare la cortina affascinante, e talvolta paurosa, delle immagini che si vedono, delle forme che si toccano, per entrare nel vivo di questa Grecia d’oggi, per conoscere gli uomini, per apprendere com’essi vivano, che cosa possano ancora darci e che cosa possiamo apprendere da loro. Per conoscere, insomma, se c’è una Grecia viva accanto alla terra dei morti che si può studiare e amare stando chiusi in una biblioteca”.  Continua a leggere

L’armonia ritrovata ne “I fiumi”

02/10/1957
Nella foto: il poeta Giuseppe Ungaretti a una conferenza
@ArchiviFarabola [258605]

LA POTENZA DELL’ARCHETIPO NELLA POESIA DI UNGARETTI

commento di Fabrizio Fantoni

Sono evidenti nella lirica “I fiumi” due opposizioni fondamentali nell’immaginario di Giuseppe Ungaretti: quella fra il deserto e l’oasi – fra l’aridità e l’acqua, fra la morte e la vita- e quella fra il buio e la luce. Al centro è il tema dell’armonia ritrovata nel fiume da cui si sviluppa l’itinerario memoriale alla ricerca di un’identità storica smarrita nella condizione alienata del soldato.

L’ACQUA, ARMONIA PERDUTA

L’elemento che veicola il viaggio di ritorno ad una perduta armonia è, appunto, l’acqua.

È stato Macrì ad aver individuato nella poesia di Ungaretti la “ potenza di archetipico” dell’acqua nelle sue specificazioni figurale del mare – barca – bara così inglobante da ricondurre a sé anche gli aspetti che parrebbero più crepuscolari come “l’abbandono” di Malinconia che non è, come spiega Macrì, “malinconia – abbandono post romantica né languore o consunzione decadentistici e crepuscolari, ma senso originario dell’acqua – madre”.

 

IL RITORNO AL NIDO

Viaggio sacrale, dunque, che ha come meta il ritorno al “nido”.

Di questa sacrale integrità la poesia “i Fiumi” offrono subito il corrispettivo simbolico dell’urna, alvo parentale e insieme custodia sacra, “reliquia” immersa nel principio vitale dell’acqua: “stamani mi sono disteso / in un’urna di acqua/ e come una reliquia /ho riposato”.

E’ il ritorno fiducioso al riposo nel grembo materno l’immersione purificatrice nell’alveo del fiume da cui ha inizio il viaggio di ritorno alle origini. Continua a leggere

La ville d’Olympie/La città d’Olimpia

Luigia Sorrentino / Credits photo Fabrizio Fantoni

ANTICIPAZIONE EDITORIALE

A giugno 2019 sarà pubblicato in Francia dalla casa editrice Al Manar di Alain GoriusOLYMPIA di Luigia Sorrentino, Prefazione Milo De Angelis, Postfazione Mario Benedetti, con disegni di Giulia Napoleone. Traduzione in francese di Angèle Paoli.

Proponiamo qui sotto la lettura ad alta voce di Luigia Sorrentino della sezione
IL GIARDINO tratta da Olimpia (Interlinea, prima edizione 2013, ristampa 2019), con la composizione musicale Spiegel im Spiegel, di Arvo Pärt, i testi in lingua francese con testo italiano a fronte e uno stralcio della postfazione di Mario Benedetti.

LUIGIA SORRENTINO LEGGE IL GIARDINO


POSTFACE
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Maurizio Cucchi, la potenza della lingua

Con il patrocinio di Corte Micina, Associazione Culturale –

 

I poeti dello Specchio

Presentazione a Roma, alla Casa delle Letterature, di SINDROME DEL DISTACCO E TREGUA, (Mondadori 2019),  del nuovo libro di poesie di uno dei massimi poeti contemporanei, Maurizio Cucchi.

La poesia di Maurizio Cucchi

Sindrome del distacco e tregua è un’opera essenziale, in cui convogliano tutte le tematiche della poesia di Cucchi: la ricerca dell’identità, la necessità del rapporto diretto con la quotidianità, la tematica del viaggio inteso come percorso di conoscenza,  il superamento dei generi letterari, poesia-prosa.

Il linguaggio

Chiunque conosca la poesia di Maurizio Cucchi sa quanto sia fondamentale per questo autore, l’uso della lingua. In questa raccolta, in particolare, la voce del poeta è ustionata e, al tempo stesso, fierissima e acuta. E’ una la lingua potente, che deflagra al contatto abrasivo con la materia, spietata e irriducibile, e oppone resistenza alla biografia, alla faglia interiore e perpetua della perdita.

(Luigia Sorrentino)

VEDI QUI CONVERSAZIONE CON MAURIZIO CUCCHI

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Ritratti di Poesia al Tempio di Adriano

Torna l’appuntamento annuale al Tempio di Adriano. Alla rassegna dedicata alla poesia, partecipano poeti provenienti da tutto il mondo

Oggi, 15 febbraio al Tempio di Adriano si svolge la tredicesima edizione della giornata dedicata alla poesia internazionale. Una maratona di 10 ore, dalla mattina alla sera, animata da incontri, confronti, letture, idee, versi e voci, con la partecipazione di importanti autori, italiani e stranieri, e di giovani promesse. Il tutto nel segno della poesia e del suo rapporto con le altre espressioni del genio umano (musica, scienza, medicina). In particolare, quest’anno il percorso della rassegna porta all’attenzione del pubblico alcune significative iniziative di valore culturale e sociale legate alla poesia. L’iniziativa, promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, è nata nel 2006 per volontà del Prof. Avv. Emmanuele Francesco Maria Emanuele, Presidente della Fondazione, ed è diventata un appuntamento imperdibile per tutti coloro che amano il genere letterario poetico.

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L’energia della parola

La solitudine dei reietti

di Fabrizio Fantoni

Con Il comune salario Fabrizio Bernini ci consegna un’opera compatta, densa e vibrante che si caratterizza, sin dai primi componimenti, per il forte legame con l’esperienza, con la concretezza dei dati della quotidianità che l’autore indaga con sguardo acuto, capace di cogliere ciò che si cela dietro le molteplici sfaccettature del reale.

È una ricognizione del presente quella che svolge il poeta – moderno flaneur- nei suoi vagabondaggi per le strade della città, in cui osserva il mondo intorno a lui concentrando l’attenzione su dettagli di un reale apparentemente inerti o indifferenti che, nel testo, vengono sottratti all’opacità grazie ad un dettato poetico nelle cui pieghe si cela un sempre più teso interrogarsi metafisico.

Seguendo queste coordinate, l’autore struttura il libro con una solida architettura incentrata sulle figure di tre personaggi di invenzione: il figlio del padrone, il disoccupato e lo studente attivo nel sociale.

Per ognuno di essi ricostruisce le dinamiche e i rituali di vita coagulandoli in un susseguirsi di rapidi componimenti che evocano aspetti di un “comune ambiente umano e storico”.

Queste esistenze si fanno ritratto del mondo e dell’esistenza dell’uomo contemporaneo, intorpidita sotto la coltre di un assordante ed inutile chiacchiericcio in cui tutto, Il dolore e la bellezza, il sentimento e la passione, il silenzio e la riflessione divengono pulviscolo nell’apatia di una vita che si trascina nei giorni. Continua a leggere