L’umile scrittura di Mario Benedetti

Mario Benedetti, poeta italiano, foto di proprietà dell’autore

di Giancarlo Pontiggia

Ho qui davanti a me La casa, il libretto con il quale Mario Benedetti, appena trentenne, esordiva nel 1985 per le edizioni «Polena» di Emy Rabuffetti.

Non versi, ma una lunga prosa divisa in sei parti e trentun capitoli: non versi, eppure già versi, perché la poesia di Mario non è tanto una poesia che va verso la prosa, quanto una poesia che sbalza fuori dalla prosa, tra i buchi, gli strappi, le ferite, i rari baluginii di una scrittura esilissima che deve per forza farsi poesia, per non morire del poco e del niente al quale si è offerta.

Una scrittura umile, porosa, proprio come le cose, le strade, le stanze di cui è pervasa, che non vengono però descritte, e neanche evocate: sono materia che fluttua in vortici freddi, scuri, quasi annichiliti, come se venissero da lontano, da una terra che non è più nostra, da una sorta di ade raggrumato: ombre, non corpi. Anche per questo il poeta sente il bisogno di reduplicazioni, quasi avvertisse l’esigenza di trattenere un oggetto, un nome, una parola, prima che si inabissino nel nulla, nello «Sprigionato nulla» di Pitture nere su carta: «Dove dicono che sia il cielo, dove dicono che sia il cielo» (V). Così come, più di vent’anni dopo: «Un sabato, un sabato, un sabato, / anni». Un grido di inappartenenza che si slancia in coaguli ripetuti, dove lo stesso nome sembra in realtà volgersi al suo vuoto, al niente in cui si versa.

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