Leopardi nella letteratura italiana contemporanea

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Rappresentare la tortuosa personalità di Giacomo Leopardi non è cosa agevole ma può rivelarsi anche un’irrinunciabile tentazione. Esiste infatti un’intera letteratura — ovviamente contemporanea — che si è occupata di tratteggiare i vortici psicologici del conte recanatese, quasi fosse l’emblema di un percorso esistenziale che in un certo senso ci rappresenta. Per la precisione: quattro romanzi (Io venìa pien d’angoscia a rimirarti di Michele Mari, Il bruno dei crepuscoli di Giampaolo Rugarli, L’Ospite della Vita di Vladimiro Bottone, Il signor figlio di Alessandro Zaccuri), sei racconti (Leggenda Argentea di Giacomo Leopardi poeta e martire di Giovanni Papini, All’insegna dello Starita grande di Alberto Savinio, Le polpette al pomodoro di Umberto Saba, Capo Recanati di Giovanni Mosca, Dialogo di un poeta e di un medico di Primo Levi, Sogno di Giacomo Leopardi, poeta e lunatico di Antonio Tabucchi), cinque pièces (Questo matrimonio si deve fare! di Vitaliano Brancati, Ad Angelo, mai di Achille Campanile, Partitura di Enzo Moscato, Giacomo, il prepotente di Giuseppe Manfridi, L’infinito di Tiziano Scarpa), due testi per bambini (Giacomo Leopardo di Roberto Pavanello, Giacomo il signor bambino di Paolo Di Paolo).

Questa vasta riproposizione di Leopardi in tutte le salse è stata censita e studiata da Marco Dondero, professore di Letteratura italiana all’Università di Macerata, il quale ha anche interpretato il self-writing del Leopardi scenico nei Canti (con particolare attenzione per Il primo amore, Sopra il monumento di Dante, Al conte Carlo Pepoli, Scherzo, Il risorgimento, A Silvia, Le ricordanze, Palinodia al marchese Gino Capponi). «Nella Parte prima — scrive Dondero — esamino l’autorappresentazione di Leopardi in qualità di “personaggio-poeta”, cioè analizzo i passi dei Canti (e di alcune altre opere) in cui Leopardi raffigura sé stesso come scrittore, o più in generale si riferisce alla propria attività di letterato […]. Nella Parte seconda, più ampia, studio invece la presenza del “Leopardi personaggio” nella letteratura italiana del Novecento e del Duemila, soffermandomi su quelle opere squisitamente creative in cui il poeta è rappresentato come una figura puramente di finzione, slegata dalle reali contingenze storiche». Continua a leggere

Thomas Pynchon, “Contro il giorno”

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

Thomas Pynchon. È un nome, solo un nome. Flatus vocis. Vive a New York ma nessuno lo ferma per strada perché nessuno può dire esattamente che viso abbia. Siamo in possesso di una manciata di fotografie della sua giovinezza. Capelli leccati, naso piccolo e stretto, dentoni, blusa da marinaio. Intelligenza vispa. Nel 2018 sono uscite su un rotocalco americano un altro paio di istantanee di lui anziano, con il bastone, chioma nivea e floridissima. Il figlio Jackson al suo fianco. Qualcuno dice che nel film con Joaquin Phoenix Inherent Vice, tratto dall’omonimo romanzo pynchoniano, ci sia un cameo con lo scrittore. La notizia non è confermata, ma è certo che abbia prestato la sua voce in una puntata dei Simpson. Recitava sé stesso con un sacchetto marrone in testa e un punto interrogativo stampato.

Thomas Pynchon ha ottantatré anni e — secondo alcuni — è tifoso della Juventus (?!). Non ha mai concesso un’intervista in vita sua (è un record assoluto perché un altro grande sfuggente della letteratura americana, Cormac McCarthy, qualche strappo alla regola lo ha fatto). Paragonato a Salinger per ovvi motivi e candidato al Nobel da decenni, ha esordito a ventisei anni con V., testo letteralmente inafferrabile, e ha proseguito con un libro cult del postmodernismo e del realismo isterico, L’incanto del lotto 49.

Le trame dei romanzi di Pynchon — sia ben chiaro — sono intricatissime, labirintiche. I dettagli nascondono il tutto e il tutto si riversa borgesianamente dentro ogni singolo dettaglio.

I nomi dei personaggi sono quasi sempre parlanti: si pensi a Oedipa, protagonista dell’Incanto, o Herbert Stencil (“stampino”) che gira il mondo alla ricerca di qualcuno o qualcosa che si chiami V. Queste tipologie di opere Calvino le definisce «romanzi enciclopedici moderni», nei quali avviene in sostanza «un’analisi dello sfacelo, una coscienza del collasso, una testimonianza della frammentazione, una critica radicale del concetto di verità».

Episodi storici poco noti o completamente sconosciuti, cultura elevatissima e pop dei più triti, amore per la fisica e le scienze naturali, crudi tecnicismi e momenti lirici si mescolano in reticoli cristallini e tetraedrici, in forme allotropiche e deformanti al limite della piena comprensibilità. Tutto questo cosa ha a che fare con la poesia? Continua a leggere

Apri gli occhi e resisti

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Non è operazione semplice l’approntare una monografia — di sicuro rigore scientifico — su un autore vivente. Il curatore e critico, in questo senso davvero militante, scommette con assoluta certezza sulla solidità della voce poetica o letteraria presa in esame. Intuisce, sa già che essa è, per così dire, un classico e gioca d’anticipo, batte vie interpretative inedite, osa su un campo non del tutto solcato, servendosi per altro di una bibliografia (giocoforza) ancora incompleta. Un’operazione coraggiosa, eppure necessaria se riguarda una poetessa del calibro di Antonella Anedda, la cui opera in versi e in prosa è rivisitata con stupefacente chiarezza interpretativa da Riccardo Donati nel volume Apri gli occhi e resisti, composto di dieci capitoli che affrontano l’intero universo aneddiano entrando nel solco di alcuni essenziali prolegomeni di poetica.

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La nettezza della lirica di Anedda parte infatti da un lévinasiano «spazio per l’autentico» che invita all’apertura, a «farsi “pellegrini del linguaggio”» rinnovando «l’idea romantica del poeta come wanderer ma soprattutto quella, medievale e dantesca, dell’homo viator». La visione delle cose, in particolare degli oggetti, rasenta la purità dello sguardo.

Di qui la povertà (anche epistemologica, e dunque à la Jaccottet, vero e proprio maître de poésie), la pietas, il resistere — donde il richiamo al titolo e ai versi «di chi apre gli occhi e resiste» —, di qui la vocazione appunto all’autenticità, all’Eigentlichkeit che pervade le linee della poetessa romana. «A cosa mira, quando parla, questa voce? — prosegue Donati — Certamente non a sedurre né a consolare, producendo, come fa la letteratura dozzinale, identificazione emotiva. Non perché sia algida e distaccata, tutt’altro, ma perché le emozioni che porta sulla pagina si sottraggono al vacuo circuito tautologico di confermare sé stesse, configurandosi semmai come tappe — ancora l’immagine del pellegrino che avanza con passo purgatoriale — di un arduo percorso di incremento cognitivo ed etico». Siamo dinnanzi a una poesia fortemente contraddistinta, come quella di Seamus Heaney ad esempio, da un impulso di conoscenza ed ethos, comprensione e integrità. Continua a leggere

Poesie assetate d’aria

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Quanto mai attuale risuona oggi l’interrogativo di Hölderlin, «perché i poeti in tempo di povertà?». La risposta suona identica a quella di allora, e ce la ricorda Heidegger: «Il linguaggio è la casa dell’essere» e la poesia è il recinto di terra dove si innalza questa casa: nei tempi di povertà i poeti ci riportano al fondamento dell’essere. È allora un’iniziativa lodevole dare la parola alle impressioni di chi modella la lingua di giorno in giorno, come fosse un manufatto prezioso e fragile, sempre sul filo dell’estinzione, e quindi un “oggetto” (almeno secondo Pessoa e Caproni) da trattare con estrema delicatezza.

L’idea di un’antologia di liriche ai tempi del Covid-19, Dal sottovuoto. Poesie assettate d’aria (a cura di Matteo Bianchi, Samuele Editore), sfida la possibilità di confrontarsi con l’effettuale, con l’hic et nunc, richiamando un ampio gruppo di poeti a redigere il diario dell’emergenza: tema di assoluta verticalità poetica — la vera poesia è sempre in emergenza —, il rapporto tra versi e libertà conferisce alla scrittura la nobilissima preoccupazione per le individualità minacciate non soltanto dal nemico invisibile, ma anche dalla prigione interiore, dallo spleen, dallo scacco esistenziale, dalle recrudescenze del solipsismo globalizzato, dal lutto. Come sottolinea il curatore, questa antologia «mette nero su bianco la volontà di confrontarsi sul tema dell’isolamento, di una quarantena tanto improvvisa quanto obbligata. L’idea è scaturita dalle sparute riflessioni trapelate sul web, ovvero dalla necessità sommersa di molti intellettuali di liberare un vuoto interiore che una volta confinato rimbombava con maggiore violenza». Continua a leggere

Il restyling di Crocetti Editore

Nicola Crocetti

Crocetti-Feltrinelli

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Da quando Crocetti Editore è entrato nel Gruppo Feltrinelli — la notizia Ansa è del 29 maggio 2020 — sono usciti otto libri (ma il catalogo è in aggiornamento) e due numeri della storica rivista «Poesia», divenuta bimestrale in brossura e con considerevole restyling grafico e strutturale. Nelle copertine della nuova serie di «Poesia» figurano Edna St. Vincent Millay e Carol Ann Duffy, sferzanti autrici anglofone che sembrano aprire davvero nel migliore dei modi le ultime incursioni nella lirica contemporanea (e non solo). La devozione di Nicola Crocetti per le voci femminili è completata da tre volumi di solidissime quote rosa: Adrienne Rich con Cartografie del silenzio, Alejandra Pizarnik con La figlia dell’insonnia e Mariangela Gualtieri con Antenata. L’americana originaria di Baltimora è stata una delle massime interpreti della letteratura politica femminista: ben presto lasciò le secche del modernismo di maniera per addentrarsi nel tema identitario di un complesso e fluttuante io lirico. Cartografie del silenzio è un’antologia di poesie scelte lungo l’asse 1951-1995 che «usa con estrema precisione gli strumenti grafici della scrittura, dislocando parole per suggerire intonazioni, esitazioni, intuizioni: il controllo del flusso», commenta nell’introduzione Massimo Bacigalupo. Tra le opere più rappresentative della Rich figura An Atlas of the Difficult World, che riporta la soggettività al noi in forma di «murale»: tra quest’ultimo e la «mappa» promessa «non c’è una grande differenza/ e la questione è da dove lo guardiamo».

Biografia altrettanto forte per l’argentina Pizarnik, poetessa cult nei paesi ispanofoni. Così la descrive Enrique Molina: «Creatura affascinata e affascinante, vittima e maga, ardeva sul rogo e, nello stesso tempo, con quella crudeltà propria della poesia, appiccava il fuoco al mondo circostante, lo faceva ardere con una fosforescenza tenera e cupa, che illuminava con un sorriso da fantasma il suo volto di bambina». Tra poème en prose e schegge basaltiche di versi la Pizarnik si muove con Nerval e Blake in un mondo onirico, visionario, contraddistinto da un’inesausta ricerca dell’innocenza perduta e dall’insorgere di voci multiple, come in questa intensa poesia scritta per Cristina Campo, Anillos de cenizas: «Stanno le mie voci al canto/ perché non cantino loro,/ i grigiamente imbavagliati nell’alba,/ i camuffati da uccello desolato nella pioggia.// C’è, nell’attesa,/ una voce di lillà che si spezza./ E c’è, quando si fa giorno,/ una scissione del sole in piccoli soli neri».

La materializzazione fisica della voce è invece al centro della poetica di Mariangela Gualtieri che esordisce nel 1992 proprio con Antenata: la phoné è espressa visivamente dall’utilizzo — diffuso in tutta la silloge — del maiuscoletto che sembra dare corpo alle parole nell’evidenza di una pronuncia più nitida, capace di modificare persino il timbro declamatorio (la Gualtieri è anche autrice di testi drammaturgici e ha fondato con Cesare Ronconi nel 1983 il Teatro Valdoca). Il motivo dominante è la presenza del sacro nell’immagine quotidiana, quasi in ogni gesto consueto e, in particolare, nella divinità dell’umano («tutte le gocce/ sulla sua faccia portano/ il consolo del fresco»).

Infaticabile traduttore della poesia neogreca, Crocetti ripropone anche un’antologia delle liriche di Ghiorgos Seferis, il quale — come ricorda Nicola Gardini — sembra attuare «la voce di tante voci», mettendo cioè in campo forze poetiche uguali e contrarie, assorbite da vaste letture nascoste in un faux exprès e dalla spiccata sensibilità di chi deve fare a cazzotti con le proprie origini. L’aspetto polifonico e altresì trasmutante della sua poesia è modulato sui simbolisti e modernisti di cui fu, non a caso, ottimo traduttore: Eliot, Pound e Auden su tutti. Da quest’ultimo pare accogliere il gusto per l’understatement e il disarticolare le cadenze ritmiche fino a produrre suggestioni differenti e distorcenti, in nessun modo legate fra loro: «Ma gli esorcismi, i beni, l’oratoria/ a che servono se sono lontani i vivi?». La mancanza di un continuum si riverbera finanche nei nodi espressivi dell’autore smirneo: non un lirico puro — benché abbia conosciuto a fondo Mallarmé e Valéry —, ma un istrione che passa rapidamente dal pensiero diaristico all’haiku, dalla secca boutade a versi tentacolari. Tra le tematiche più frequenti la statua, il marmo, il tratto devastatore e solvente del mare (non siamo distanti dagli Ossi di seppia, anche se con filtri antinomicamente evangelici): «Ancora poco/ e vedremo i mandorli fiorire/ i marmi splendere al sole/ il mare frangersi in onde;// ancora poco,/ solleviamoci ancora un po’ più su». Le storture e il senso non parificato della poesia di Seferis dipendono naturalmente dalla condizione esistenziale e politica in cui versa lo scrittore. Eppure, il canto dell’allodola riesce a salire in linea verticale e qui il poeta sa bene dove crivellare i suoi rimandi. Omero, Erodoto, Sofocle: l’invidiabile pedigree che, non senza contraccolpo, rinfocola l’amor patrio. Continua a leggere

Le poesie giovanili di Paolo Volponi

Paolo Volponi

Il giovane Volponi

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Forse la poesia è tutta un riecheggiare, un ritorno improvviso di connessioni, svasature di senso, brandelli di cose scritte e rivissute. Una recensione occupata a leggere e a commentare le Poesie giovanili di Paolo Volponi, a oggi inedite e riesumate in tre diversi fascicoli da un cassetto della sua casa urbinate, può avere l’occorrenza — con lieve inarcarsi di ciglia e diffusa bonomia — di lasciare per un attimo gli albori (Il ramarro e compagnia) e partire dalla fine, dall’ultima silloge pubblicata in vita da Volponi stesso: Nel silenzio campale (Manni, 1990). Apocalittico ma anche un po’ integrato, lo scrittore che da poco aveva mandato alle stampe Le mosche del capitale (si noti l’insistenza del suffisso -ale), con la sua ultima incursione nella lirica sembra restituire a mo’ di testamento un parlar aspro, un’ispirazione petrosa che è forse la linea carsica su cui si muove la sua intera vena poetica. Dagli inizi, appunto. O ancora prima: dall’Urvolponi di queste liriche frante e onestissime, che «nel primo fascicolo esaminato, il più robusto — le 90 carte — approdano al Ramarro» mentre per gli «altri due, più esili ma anche meno eterogenei, denominati Immagini e Altre, la raccolta di riferimento è L’antica moneta», commenta Ritrovato nella corposa introduzione. «Non mancano, ovviamente, casi di smembramento e di ricombinazione di gruppi di versi che rimbalzano da un fascicolo all’altro, a riprova del fatto che ci troviamo idealmente di fronte a quaderni di lavoro, all’interno di un laboratorio in cui il poeta sperimenta, testa, saggia e non cestina».

Siamo nel pieno degli anni Quaranta, Volponi frequenta l’Università della città natale con gli umori di un intellettuale in formazione lontano dai classicismi (c’è qui forse una consonanza con il Bianciardi studente a Pisa), ruvido, pizzicato dal surrealismo e dai lirici spagnoli, vergine nell’approccio all’opera e non ancora sfrigolato dalle sirene di un ermetismo residuale. I testi «verso Il ramarro» sembrano in aperto dissidio con l’esito finale della silloge del ’48: crudi, d’humor nero («Hai riso,/ ed io avrei sputato/ dentro la tua gola/ aperta»), in certo modo orrorifici («Come se il sangue/ annoiato/ godesse d’uscire») e dal sapore biblico («Io rido/ dietro pascendo/ la mia maledizione»), profondamente corporali («Diventi misurato squadrato,/ da non trovare appoggio/ nelle anche rotonde/ dei corpi delle donne»). Le sequenze sono nitide, affilate e già nascondono in germe i migliori esiti della lirica volponiana («Aspettavo i tuoi occhi/ comparire dal mattone», «Tra la testa e la pietra,/ tra gli specchi e le spade,/ ancora lungo/ è il discorso»). Le poesie «verso L’antica moneta» — estratte da un manipolo di 59 carte in tutto, come spiega Serenelli nella puntuale Nota al testo, seguita dall’apparato critico che ricrea la facies grafica dei manoscritti e dattiloscritti — pèrdono il tono scheggiato delle prime prove per acquisire maggiore doppiezza e impeto narrativo. Continua a leggere

Alberto Fraccacreta, “L’essere nel mondo”

Alberto Fraccacreta

Jaccottet nel suo studio mentre scrive Et, néanmoins

DI ALBERTO FRACCACRETA

Paroles à la limite de l’ouïe, à personne attribuables,
reçues dans la conque de l’oreille comme la rosée par une feuille.

Philippe Jaccottet, Et néanmoins

Pensa al martin pescatore del gesuita Hopkins.
L’arancio e l’azzurro come la polpa di una vetrata
della cattedrale a lui preclusa.
Riflette su come sia sfolgorante quell’esserino
accovacciato nel fiume di alcuni anni fa,
senza accorgersi che anche il suo volto lo stia diventando.
Stia distendendo le grinze, sia stirato. Sua moglie dipinge nell’atelier.
Lui rivolge l’attenzione a un frutteto di mele cotogne
che cambiò la percezione delle cose.
Ha cassato un titolo, poi ha scritto
con la pazienza e la deferenza del botanico
dei boschetti sacri sulle Alpi e di un minuscolo pettirosso
che da poco lo ha raggiunto in giardino. Si ferma Philippe. Ha un cedimento.
(La Drôme è d’animo grigioperlaceo, Alvernia rimane in silenzio.)
Ascolta parole che nessuno mai in alcun tempo sentì.
La sua penna cauterizza l’aria.

‘Tutte cose da niente, infime. Esca l’io dalla poesia’,
sembra balbettare, mentre affetta un fico
che deterge lo scrittoio e lascia un alone.
‘Entri la docilità della viola, l’umiltà
della carota selvatica, l’assenza del soggetto,
l’accoglienza della non dimenticanza di sé.’
Sorride, e la sua bocca è un grappolo di ribes.
Le nubi dell’Alta Provenza tendono l’orecchio. Il Rodano si volta.
‘Entri un soggetto capiente, che fa largo come un canneto.
Un io non io presente a sé stesso.
Entri la drappeggiatura turchina di convolvoli nel mio spazio. L’infimo. L’insulso.
Io resto.’ Philippe si alza adagio dalla scrivania
e ora cammina circospetto,
perché qualcosa sembra aver capito,
una nuova consapevolezza si erge oltre le opinioni di Starobinski
e pare condurlo nel mormorio indistinto
di un io povero,
di un centro della terra, un aratro dove non si cede
al limite del botro, non si scivola più per attrito
ma si vive la pratica di una fresca purezza
nel nido dell’anemone di Grignan. ‘Ma soprattutto, ripete,
entri l’umiltà della carota selvatica.’ Continua a leggere

Una poesia inedita di Charles Simic

Charles Simic

Something Evil Is Out There

That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.

Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe

Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,

With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.

C’è qualcosa di malefico là fuori

Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non sentiamo niente —
ancora più terrificante che sentire qualcosa.

Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere

ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,

con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.

Traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, da  “Avvicinati e ascolta” in uscita questo inverno per le Edizioni Tlon.

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Ungaretti, “Blake visioni”

02/10/1957
Nella foto: il poeta Giuseppe Ungaretti a una conferenza
@ArchiviFarabola [258605]

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Il 2 giugno di quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla scomparsa di Giuseppe Ungaretti: una data che inevitabilmente fa pensare all’eredità lasciata dal massimo esponente del cosiddetto “ermetismo” (benché l’etichetta non renda giustizia della complessità della poesia ungarettiana). In illo tempore la sfida Ungaretti-Montale era senz’altro più sentita. Nella storia degli studi assistiamo oggi a una netta vittoria del secondo, appartenente al partito che fortemente lo sostenne a sfavore del cattolico Ungaretti (non si dimentichino le parole di Leone Piccioni: «Ebbe contro il partito dei laici, che gli contrappose sempre Eugenio Montale. Non gli è mai stata perdonata la vicinanza con il mondo cattolico e il sostegno che quel mondo dava alla sua opera»).

Eppure, sebbene in maniera diversa e secondo differenti sfumature liriche, entrambi sono stati altissima espressione di un’inquietudine religiosa che li ha visti sfiorarsi nell’agone, toccare il vertice della loro arte a distanza di circa un decennio: Ungaretti con Il Dolore nel 1947 e Montale con La bufera e altro nel 1956. Due capolavori come punti di luce infinitamente lontani nella siderale distanza degli astri letterari, eppure percorsi entrambi da una sete di assoluto e di disvelamento del sacro nell’esperire la sofferenza individuale e universale. Quella che nel poeta più anziano è parola nuda, poésie pure, confessione e in senso lato «vita d’un uomo», nel più giovane è impalcatura metaforica, poésie metaphysique, misticismo e costruzione di un personaggio. Da un lato c’è il Cristo di Mio fiume anche tu («Cristo, pensoso palpito,/ Astro incarnato nell’umane tenebre,/ Fratello che t’immoli/ Perennemente per riedificare/ Umanamente l’uomo,/ Santo, Santo che soffri,/ Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,/ Santo, Santo che soffri/ Per liberare dalla morte i morti/ E sorreggere noi infelici vivi,/ D’un pianto solo mio non piango più,/ Ecco, Ti chiamo, Santo,/ Santo, Santo che soffri»); dall’altro la Cristofora «iddia che non s’incarna» della Primavera hitleriana e di Iride («Perché l’opera tua (che della Sua/ è una forma) fiorisse in altre luci/ Iri del Canaan ti dileguasti/ in quel nimbo di vischi e pungitopi/ che il tuo cuore conduce/ nella notte del mondo, oltre il miraggio/ dei fiori del deserto, tuoi germani»). Due stili e due modi d’approccio alla poesia inconciliabili fra loro, benché ci sia una prossimità nelle tematiche e nell’uguale reazione al descensus ad inferos della guerra e dei disfacimenti della storia. Continua a leggere

Andrea Gareffi, “L’opus contra naturam di Montale”

Eugenio Montale

DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Chi ha detto che Eugenio Montale era un nichilista? Una vecchia tradizione di studi, avvitata sulla scettica vena diaristica di Satura (1971) e delle ultime sillogi, lo dipinse per decenni come simbolo di inflessibile negazione. Eppure Eusebio, in molte poesie e nei rivelatori (e talora depistanti) autocommenti, non ha mai nascosto una sua personale, benché velleitaria e problematica, ricerca di trascendenza. Dopo che Paolo De Caro, nell’intricato ciclo cliziano, ha scoperto legami testuali con l’eresiarca ebreo Jakob Frank, la parabola interpretativa di alcuni passaggi fondamentali dell’Opera in versi ha cominciato decisamente a correggersi. L’elegante saggio di Andrea Gareffi dal titolo junghiano L’opus contra naturam di Montale, pubblicato nella collana «Mosaic» di Loffredo diretta da Elisabetta Marino e Fabio Pierangeli, fa luce e giustizia su un aspetto ancora poco conosciuto della poetica montaliana che si pone come rivoluzione copernicana negli studi del maggiore poeta del nostro Novecento. È l’intero impianto compositivo della lirica di Montale ad appartenere a una kafkiana teologia individuale o a una tensione mistica individuata da Gareffi nell’ampio spettro del lavorio psicologico e delle conquiste della coscienza. Non una vera e propria confessione religiosa (benché siano innegabili i punti di contatto con il cristianesimo), ma una sorta di «metafisica immanente», orientata verso un’«eternità d’istante» à la Kierkegaard, che mantiene nitida la distinzione di anima e animus ed è in rapporto di prossimità con il verum ipsum factum di Vico. Ma lo studioso si spinge oltre: la spiritualità montaliana, in continua genesi e in perpetuo rinnovamento, è forse mediata anche dalla prospettiva gnostica e asiatica di Bobi Bazlen: si può parlare allora di un Montale orientale o addirittura taoista? Sarebbe troppo, ma qualcosa c’è. Continua a leggere

Vittorio Sereni (1913 – 1983)

Vittorio Sereni

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

A sette anni di distanza dalla pubblicazione sulla carta arancione degli «Oscar», le poesie e alcune prose scelte di Vittorio Sereni — con l’identica e puntuale curatela di Giulia Raboni — si ripresentano oggi nell’assetto raffinato degli «Oscar moderni Baobab», a sottolineare l’eccezionalità dell’aderenza lirica dell’autore luinese al panorama letterario italiano. Non soltanto un classico dunque, ma qualcosa di più: un poeta insradicabile dal paesaggio caducifoglie nella valle della letteratura contemporanea tra frutti ovoidali e semi reniformi. Poeta percorso da brucianti attese e da una reale quanto distillata urgenza comunicativa — sono quattro le sillogi edite, Frontiera (1941-1942), Diario d’Algeria (1947; 1965), Gli strumenti umani (1965; 1975) e Stella variabile (1981) —, Sereni è esattamente quello che ha dipinto Pier Vincenzo Mengaldo: personalità silenziosa ed estremamente consapevole in cui «l’uomo e il poeta facevano tutt’uno».

Noto per la sua «avara vena» («o quand’era in pantofole la sua stitichezza»), il luinese — almeno nella prima parte della sua carriera potentemente influenzato da Montale e dalle Occasioni — ha acquisito sempre di più un timbro riconoscibile di necessarietà compositiva da un lato (la cui «finitezza formale» è pari solo a Leopardi e Mallarmé) e di preponderante esercizio dell’incertezza dall’altro. Poeta del crogiuolo del dubbio non soltanto metafisico ma anche semplicemente pratico (nei riguardi del futuro, nelle incombenze della guerra o nell’umiltà della non partecipazione a troppo rigide posizioni), amante indiscusso del participio presente — e quindi legato all’asciuttezza dello stile nominale —, Sereni dà forse la prova più audace e tenace nell’intero Novecento di un io lirico definito proprio dai confini della sua indefinitezza: io quasi mai cangiante, per nulla istrionico e nemmeno iconoclasta (come il terzo Montale); altresì un io fedele alla propria povertà epistemologica, intriso d’improvvisi e transeunti lampi nella rivelazione del mondo esteriore, sempre elegante e generoso, eppure eroso dal senso di colpa della «vergogna della poesia». Peculiarità invero amabile di un «carattere evidentemente predisposto alla discussione di sé», come sottolinea Giulia Raboni, ci insegna il riserbo, il continuo ripensamento interiore dei propri fantasmi e la sublime arte (ascetica) di un perfezionamento soggettuale, sempre condotto in forme negative e antifrastiche («Ma ero/ io il trapassante, ero io,/ perplesso non propriamente amaro», In salita), e attraversato da lunghe discese infere (Un posto di vacanza). Scorrendo i titoli delle quattro sillogi sereniane si comprende questo progressivo indice di autoanalisi che va dalla frontiera dell’io alle puntute memorie diaristiche, dalla personalizzazione vivificante degli strumenti (oggetti di un’umanità desunta dal proprio imprevedibile passaggio epifanico) al barbugliare della stella variabile, emblema di un lucore apparente e mutabile nel tempo. Il cuore della poetica di Sereni — non esente da walseriane sirene uditive (Vaucluse, Luino-Luvinum) e martellanti iterazioni — risiede davvero in tale dislivello di conoscenza della caducità («non dire che la vita è carbonizzazione o divorzio», Lavori in corso) e flebile speranza d’altrove. Continua a leggere

Forrest Gander e l’ecopoesia

Forrest Gander

Forrest Gander, nato in California nel 1956, ha ricevuto il Premio Pulitzer per la poesia nel 2019 con la silloge Be With (New Directions 2018), dedicata alla recente scomparsa della moglie, [n.d.r. la poeta Carolyn D. Wright]. Traduttore, saggista e professore emerito di Letterature comparate alla Brown University, Gander è tra i massimi esponenti della cosiddetta ecopoetry, una delle più recenti frontiere della ricerca poetica legata ai problemi ecologici e ambientali, e contraddistinta da una solida teoresi filosofica e da un forte impegno politico. Il saggio che qui si presenta in anteprima per il lettore italiano è tratto dal libro Redstart: An Ecological Poetics, a cura di Forrest Gander e John Kinsella, Iowa University Press. Oggi, in serata, saranno annunciati i vincitori dei Pulitzer Prizes 2020.

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Introduzione all’ecopoesia

di Forrest Gander

 

Il termine ecopoesia ha assunto una vasta gamma di connotazioni. Tra queste: un insieme variabile di strategie tecniche e concettuali per la scrittura durante un periodo di crisi ecologica. Tali strategie (che assomigliano molto alle innovative strategie poetiche sostenute negli ultimi cento anni) spesso affermano di aver dato inizio:

 

  1. a una disarticolazione dell’agire egocentrato;
  2. a una posizione di autoriflessività (in modo che, ad esempio, si dice che la poesia abbia origine non all’interno del sé ma all’interno del paesaggio cui appartiene);
  3. a un rifiuto, come scrive il poeta australiano Stuart Cooke, di qualsiasi tentativo di «radunare il mondo in una sorta di unità e permanenza» a favore di un «incontro» segnato da «fluttuazioni entropiche». I testi ecopoetici sono talvolta descritti come «testi aperti»;
  4. a una rigorosa attenzione nei confronti del pattern;
  5. a un riorientamento dell’oggettività verso l’intersoggettività.

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La materia povera di Mario Benedetti

 

Venerdì Santo

 

Il cielo sta su nel pensiero di piangere.

Sulla strada
gli uomini sono andati metà muro, metà fiume.
Sto qui molto lontano dai templi,
dalle processioni tra i lumini,
molto lontano dai romanzi
dove c’era la luce dei visi.

Sto con gli ultimi anni di un uomo a cui voglio bene,
vorrei perdonargli di morire, cosa fare.
A sapere bene forse potrei dire:
anche per noi una visione intera
con uno specchio sopra, con un cielo.
Mi tengo al suo sguardo perduto
così particolare, così solo,
senza romanzi, con il campo che non è un mondo.

Non so andare avanti.

Ogni tanto
i contadini di Anna Karenina falciano Masckin Verch.
Ogni tanto sogno bambini bellissimi
nell’acqua effervescente di una strada.
E io li vedo di schiena,
qualcuno ci vede,
io sono di schiena nei colori.

Mario Benedetti, Venerdì Santo, in Umana gloria, Mondadori 2004

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Questa poesia appartiene alla silloge forse più significativa di Mario Benedetti, Umana gloria, incentrata sul valore e sul senso di una morandiana «materia povera», capace di riportare la civiltà — mitizzata nei riti agresti e in un’inquieta ricerca interiore — a un’essenzialità del vivere che, per il generale tono carsico, accomuna il poeta friulano a Pier Paolo Pasolini e, anche, Scipio Slataper. Continua a leggere

Adam Zagajewski, “Prova a cantare il mondo storpiato”

Adam Zagajewski

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Lirica originariamente concepita per descrivere la desolazione della provincia di Leopoli — città in cui Zagajewski è nato ma che ha rivisto soltanto dopo molti anni, durante un viaggio con suo padre —, ottenne un ampio riscontro di critica e di pubblico in America, l’indomani dell’attentato alle Twin Towers. Tradotta da Clare Cavanagh, uscì sul «New Yorker» pochi giorni dopo l’11 settembre. Secondo Valentina Parisi, Prova a cantare il mondo storpiato è «un punto di snodo tra la sua mitologia personale legata all’immagine remota di Leopoli […] e una disponibilità sempre crescente a misurarsi col mondo contemporaneo». In Zagajewski, infatti, i continui richiami alle dolcezze del ricordo si mescolano ai duri avvertimenti del presente, lasciando intravedere il valore implicitamente civile (in senso metafisico, dunque) della letteratura, quale emblema di una resistenza interiore, individuale contro il potere disgregatore delle cose. In queste settimane di emergenza, la poesia suona nuovamente come un invito alla speranza rivolto alternativamente a sé stessi e agli altri attraverso un “tu metaforico”: cantare il mondo storpiato significa non dimenticarsi degli attimi di estasi vissuti nei tempi di pienezza («Ricorda di giugno le lunghe giornate/ e le fragole, le gocce di vin rosé»). Anche nella sofferenza, quando le foglie roteano «sulle cicatrici della terra» e il tordo perde la sua «penna grigia», anche quando i profughi non sanno dove andare e i carnefici cantano vittoria, proprio in quegli istanti — nel momento in cui «tutto pare incarbonirsi», direbbe Montale — è ancora possibile ripensare al grande canto, all’amabilità dell’esistenza, alla «luce delicata» che si perde e «ritorna». La realtà mutilata è segno in negativo di una bellezza perduta alla quale siamo chiamati e destinati. Ancora una volta, anche nel dolore.

LEGGI QUI L’INTERVISTA A ADAM ZAGAJEWSKI REALIZZATA DA LUIGIA SORRENTINO IN OCCASIONE DEL CONFERIMENTO AL POETA DEL PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA CIVILE CITTA’ DI VERCELLI (OTTOBRE 2019)

Spróbuj opiewać okaleczony świat

Spróbuj opiewać okaleczony świat.
Pamiętaj o długich dniach czerwca
i o poziomkach, kroplach wina rosé.
O pokrzywach, które metodycznie zarastały
opuszczone domostwa wygnanych.
Musisz opiewać okaleczony świat.
Patrzyłeś na eleganckie jachty i okręty;
jeden z nich miał przed sobą długą podróż,
na inny czekała tylko słona nicość.
Widziałeś uchodźców, którzy szli donikąd,
słyszałeś oprawców, którzy radośnie śpiewali.
Powinieneś opiewać okaleczony świat.
Pamiętaj o chwilach, kiedy byliście razem
w białym pokoju i firanka poruszyła się.
Wróć myślą do koncertu, kiedy wybuchła muzyka.
Jesienią zbierałeś żołędzie w parku
a liście wirowały nad bliznami ziemi.
Opiewaj okaleczony świat
i szare piórko, zgubione przez drozda,
i delikatne światło, które błądzi i znika

Prova a cantare il mondo storpiato

Prova a cantare il mondo storpiato.
Ricorda di giugno le lunghe giornate
e le fragole, le gocce di vin rosé,
e le ortiche implacabili a coprire
le dimore lasciate dagli esuli.
Devi cantare questo mondo storpiato.
Hai visto navi e yacht eleganti
Alcuni dinanzi avevano un lungo viaggio,
ad attendere altri era solo il nulla salmastro.
Hai visto i profughi andare da nessuna parte,
hai sentito cantare di gioia i carnefici.
Dovresti cantare il mondo storpiato.
Ricorda quegli attimi in cui eravate insieme
e la tenda si mosse nella stanza bianca.
Torna col pensiero al concerto, quando esplose la musica.
D’autunno raccoglievi ghiande nel parco
e le foglie roteavano sulle cicatrici della terra.
Canta il mondo storpiato
e la penna grigia perduta dal tordo,
e la luce delicata che erra, svanisce
e ritorna.

(Traduzione di Valentina Parisi, in Adam Zagajewski, Prova a cantare il mondo storpiato, Interlinea 2019) Continua a leggere

Luigia Sorrentino, da “Inizio e Fine”

Luigia Sorrentino

I

non credeva che le onde
parlassero vicino al canneto
le note più lievi vennero da lì
in un pomeriggio di polvere e vento
l’ultimo giorno di agosto

legava a un filo l’odore della terra
sottraendola alla perdita

la misura più breve guastava
il cuore del tempo

II

per tutta l’estate gli alberi piansero
sangue vischioso
l’occulto si era disciolto sulla corteccia
bruna

venne a renderci omaggio
l’opacità delle cose ultime

l’ultima stagione ci lasciò
in un’angoscia secca
eravamo caduti nell’ordine
della fine

III

la luce opaca preparava
un lago inespresso

raccolta negli occhi
la terra che nessuno possiede
attendeva

pretendeva, dall’inizio alla fine
ogni cosa che vive, il suo nome Continua a leggere

Lo spazio nella poesia di Hugo Mujica

Hugo Mujica

Hugo Mujica, Barro desnudo – Fango nudo, traduzione di Roberta Buffi, LietoColle

 

III

 

Anochece            bajamar,

algún graznido, restos que el mar abandona

en la arena

y esta soledad de ser

solo a medias.
Es la hora                de la melancolía,

la de la ausencia de lo que nunca estuvo                       y sentimos más propio:                                        lo que todavía de nosotros

no dimos a luz                                                                  en la vida.

 

III

Tramonta           bassa marea,

qualche gracchìo, resti che il mare abbandona

sulla sabbia          e questa solitudine

d’essere soltanto a metà.

È l’ora              della malinconia,

dell’assenza di ciò che non è mai stato

e che sentiamo più nostro:

ciò che di noi stessi ancora

non abbiamo dato alla luce

nella vita. Continua a leggere

Seamus Heaney, “Esposizione”

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Esposizione è la sesta parte della sequenza lirica Scuola di canto, ultima costola di quell’immenso organismo poetico che è North (1975) di Seamus Heaney. Se in tutta la prima parte della silloge il poeta si rivolge al passato e agli antenati sepolti nelle torbiere, mantenendo viva la cosiddetta poetica dello scavo (digging) presente sin dalla sua prima raccolta, Morte di un naturalista, nella seconda parte — il cui andamento prosastico cozza con la cristallina liricità dell’iniziale dettame — Heaney lascia intravedere le profonde contraddizioni storiche e sociali che percorrono l’Irlanda: paese tagliato in due e lacerato da conflitti intestini (i Troubles), racchiude sin dalle sue origini il destino di terra solcata, dominata.

LUIGIA SORRENTINO LEGGE “ESPOSIZIONE” di SEAMUS HEANEY, Traduzione italiana di Roberto Mussapi, in Poesie, a cura di Marco Sonzogni, Mondadori, Milano 2016

La lirica finale dell’opera si inserisce nel quadro della violenta guerra civile irlandese (che sarà ulteriormente approfondito in Station Island), focalizzando l’attenzione sull’io lirico, «émigré interno» — nel ’72 Heaney si era trasferito con la famiglia dall’Ulster a Wicklow, nel ’76 si stabilirà a Dublino —, colpito dal senso di colpa di essere «sfuggito al massacro» di Derry (il Bloody Sunday), «un ribelle sbandato», capellone e «pensoso», che tuttavia non ha smesso di inseguire il «portento di una volta nella vita», il vero incontro con la bellezza capace di risvegliare «adamantini assoluti». Continua a leggere

L’occulta “Bufera” di Eugenio Montale

Eugenio Montale, La bufera e altro, edizione commentata da Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai

NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

Il libro forse più oscuro, stratificato, notoriamente più discusso di Eugenio Montale. Sin dal titolo: la bufera, cioè «la guerra, in ispecie quella guerra dopo quella dittatura; ma è anche guerra cosmica, di sempre e di tutti», come sottolineò il poeta stesso in una lettera a Silvio Guarnieri. E che valore epistemico si può conferire invece ad altro? Riempitivo, esornativo? O sostanziale? L’Altro? Si attendeva da molto tempo — benché nel 2012 sia uscito un bellissimo commento a cura di Marica Romolini — un’esegesi mondadoriana dell’opus magnum di Montale, unica silloge dell’autore genovese a non essere stata ancora censita criticamente (assieme agli Altri versi, usciti però direttamente nell’Opera in versi del 1980 e non come testo autonomo): finalmente la lacuna è colmata, La bufera e altro (edizione commentata da Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai, con scritti di Guido Mazzoni, Gianfranco Contini e Franco Fortini, «Lo Specchio» Mondadori, pp. 544, € 24) è disponibile, l’«Everest dell’interpretazione» scalabile. Continua a leggere

Santa Teresa d’Avila, “Muero porque no muero”

NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

La tradizione a cui fanno riferimento i testi poetici di s. Teresa d’Avila (1515-1582) è senz’altro quella trobadorica: com’è segnalato nella notizia biobibliografica che segue i quindici testi selezionati e magnificamente tradotti dal curatore (Muoio perché non muoio, traduzione di Emilio Coco, Raffaelli editore, pp. 76, € 12), «tutto succedeva, scrive María de San José, ridendo e componendo “romances” e “coplas”». Il romance, in particolare, la forma poetica più tipica della tradizione spagnola, è sorto con i cantares de gesta e con i giullari, equivalenti iberici dei trovatori. La copla, cobla in occitano, è invece la strofa basica della poesia medievale. Le liriche sicuramente attribuibili a s. Teresa sono almeno una trentina (altre potrebbero essere state scritte da consorelle come María de San José), e la prima pubblicazione apparve nella miscellanea Escritos de Santa Teresa, con il commento di Vicente de la Fuente, nel 1862. Un’edizione singola delle Poesías uscì nel 1957.
Quelli di Teresa sono, in sostanza, testi d’amore. Ma di un amor mysticus, il cui destinatario è il «dolce Cacciatore», il Dio totalmente inaccessibile e absconditus che comunque «ferisce di dolcezza» — per utilizzare un’espressione di Jaufré Rudel, sicuro modello stilistico e tematico di questi versi — l’animo della poetessa. Ecco perché Teresa sente di partecipare a un’antinomia sostanziale dell’esistenza, e tutto l’apparato sintattico messo in campo ne testimonia la contraddizione e la razo: essendo l’Amato al di là della morte ma essendo Egli l’autore e la fonte della vita, in valore del passo evangelico di Mt 16,25 «chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà», la santa spagnola muore per il suo non morire. In altri termini: desidera perdere la vita per poterla guadagnare. Ma tale atteggiamento ossimorico non si ferma soltanto alla dicotomia suprema, bensì riguarda gli aspetti più minuti del quotidiano: «Sia nel pianto la mia gioia,/ soprassalto il mio riposo,/ la mia quiete dolorosa,/ e bonaccia la mia angoscia.// Tra le burrasche il mio amore,/ mio regalo la ferita,/ nella morte la mia vita,/ nel disprezzo il mio favore.// Mio tesoro l’indigenza/ il lottare il mio trionfo,/ mio riposo il lavorare,/ la tristezza il mio contento» (Aspirazioni). Con ardite antitesi petrarchesche, Teresa vuole rammentare a sé stessa e al lettore i paradigmi essenziali della vera vita: «Solo Dio basta». Questa è l’Efficacia della pazienza, questo è il duro richiamo a un esserci più marcato in profondità, solcato da un’inscalfibile consapevolezza. E quale poeta ai giorni nostri saprebbe tracciare un iter poetico più efficace del Cammino della croce? Quale poeta potrebbe oggi sperticarsi nelle Lodi alla croce o meravigliarsi della Bellezza di Dio con tale energia narrativa e fervore lirico?
Le poesie di s. Teresa — percorse da un’irriducibile venatura metafisica, che le rende attuali a ogni latitudine geografica e storica — sono uno scrigno di sapienza e di abnegazione, dedizione assoluta. Qualità, queste, assai utili per una società distratta come la nostra, che tuttavia potrebbe iniziare ad aprire gli occhi dinanzi a un simile bacino d’interiorità così ricco ed elevato.

Santa Teresa d’Avila, Muoio perché non muoio, traduzione di Emilio Coco, Raffaelli editore Continua a leggere

La giovane poesia Europea, Jan Wagner

Jan Wagner

Wagner, la poesia si fa «minuscola»
Di Alberto Fraccacreta

La nuova poesia europea sembra avere una sempre maggiore attenzione per i dettagli. Se il mondo è caoticamente frammentario e flash ordinari popolano le nostre giornate, il poeta ha il compito di riportare alla pagina oggetti bizzarri e parole desuete, dare spazio al marginale e all’infimo, saper estrarre da esso un microcosmo di elucubrazioni e transazioni psicologiche, se non metafisiche. Questo, almeno, pare il compito che si è prefisso uno dei più interessanti poeti europei nati negli anni Settanta, Jan Wagner, critico e traduttore, amburghese residente a Berlino, vincitore del massimo premio letterario tedesco – il Büchner – nel 2017. Dentro le sue liriche è possibile imbattersi nella «castalda/ che domina già nel nome», nell’amento del salice, in focene, asini siciliani, koala come «pulciosi budda» con «quel viso/ sereno di un taccagno o di un ciclista», prugnoli, zanzare («come se d’un tratto tutte le lettere/ si fossero staccate dal giornale/ e stessero come sciame nell’aria»), tovagliolini, more di gelso, palline da tennis, carline, recinzioni, tazze, api, barili dell’acqua piovana ovviamente e addirittura Lazzaro, «dapprima cieco come una patata» poi «d’un tratto, in fila per il pane», con «quella piuma di voce ronzante,// come se qualcosa in lui si fosse lacerato». Una poesia dunque, quella di Wagner, legata alle cose, concreta e leggera, con l’ironia tipica di Hans Magnus Enzensberger e la passione argomentativa e iterativa di Philip Larkin, ma foriera di un graffio spirituale che lascia il lettore in uno stato di pensosa acquiescenza.

È stata recentemente pubblicata da Einaudi la sua silloge Variazioni sul barile dell’acqua piovana (traduzione di Federico Italiano, pagine 176, euro 14). Cosa ci può dire in merito al libro?

È la mia sesta raccolta di poesie, pubblicata in Germania da Hanser Berlin nel 2014. Il titolo – nell’originale di quelle parole composte tedesche incredibilmente lunghe, Regentonnenvariationen – suggerisce due cose che mi sono sembrate importanti per la maggior parte delle poesie incluse: una certa musicalità (accennata dal termine “Variationen”) e un interesse per i piccoli oggetti apparentemente banali – che, in verità, sono argomenti preziosi se ti capita di scrivere testi poetici. Un bicchiere d’acqua non è soltanto un bicchiere d’acqua se un autore come Iosif Brodskij lo utilizza in una sua lirica ma conterrà tutto, questioni di morte, perdita, vita dopo la morte, come se sottolineasse l’idea di un passaggio. Prima e dopo aver scritto Regentonnenvariationen, ero quindi interessato a bustine di tè, funghi prataioli ripieni, motoseghe – nonché personaggi storici come Colombo o scienziati dimenticati da tempo: i cosiddetti grandi argomenti contano e tutte le fuggitive cose diurne non si escludono a vicenda nella poesia, mi sembra, ma possono illuminarsi a vicenda. Regentonnenvariationen, come suggerisce il titolo, si interessa anche dei tesori nascosti del mondo naturale, e quindi troverai poesie su erbacce e animaletti, o anche quelle sul Canaletto e sui barbieri morti. Continua a leggere

Luca Nicoletti, “Il paese nascosto”

Luca Nicoletti

Nota di lettura di Alberto Fraccacreta

Da sempre il carattere più autentico della poesia è la meraviglia, l’incontro taumatico con la realtà. Che i poeti cerchino, infatti, l’«innocenza essenziale» lo ha sottolineato a più riprese Derek Walcott. Questo è senz’altro uno dei fili conduttori dell’ultima silloge di Luca Nicoletti, Il paese nascosto (prefazione di Giancarlo Pontiggia, peQuod, pp. 101, € 15). Ci sono almeno due linee tematiche che ne confermano la tendenza: l’incontro decisivo con la madre e lo svelarsi, lento e crepuscolare, di quel “paese nascosto” popolato da persone, cose e animali («La lucertola che si disseta/ aspetta senza paura/ le gocce che lascio cadere/ sulla piccola foglia»), capaci di formare una sottocutanea e sottintesa comunità, una tribù poetica legata ungarettianamente alla memoria (con accenni mituali che fanno pensare anche a Giuseppe Conte). Paese nel quale si dipana appunto il “meraviglioso” heaniano, partendo proprio dallo sguardo assorto del rettile: «Torna a bere, mi guarda/ il suo occhio m’incontra,/ sembra dirmi/ la sua meraviglia». Il gioco d’occhi e lo scambio irriflesso di stupore guidano la poesia di Nicoletti lungo «un passaggio alato», dov’è possibile risolvere «il nome, e l’assonanza/ nella metrica dei campi» (San Clemente prelude), tersa immagine di una letteratura tattile.

La silloge è divisa in due parti principali, composte a loro volta di cinque (nessuno crede, fuori campo, itinerari intermodali, sull’orlo dell’estate, notiziario del mio io) e quattro sezioni (esile mito, il juste milieu, Parco della Resistenza, Le traversate di Petit), a certificare una sorta di voluta slabbratura tra il dettame inziale e le conclusioni “provvisorie”: come se mancasse un pezzo, un tassello. Si può, tuttavia, immediatamente notare l’attenzione al luogo con valenza “odigitrica”, cioè di via — in senso sacro — che viene indicata dalla stessa tensione lirica. Come sottolinea Giancarlo Pontiggia nella Prefazione, «i versi di San Clemente prelude definiscono non solo un territorio e un paesaggio di familiare e ancestrale verità, ma anche il moto stesso dell’ispirazione poetica: una “via” che “emerge dal profondo”, e i cui caratteri sono già inscritti nei propri declivi». Se nella prima sezione la presenza della Romagna e i miti fondativi campestri circondano, o meglio serrano il pensiero del soggetto («parole delle cose di noi/ rimaste lontano, in un tempo diventato spazio/ disseminato di momenti/ trasformato in luoghi»), in fuori campo appare, come si diceva, il passaggio della madre del poeta: passaggio intermittente, crepitante di luce, eppure slancio etico, esemplarità della persona in vita («se penso/ a quel modo, a quel saper essere umana/ già sulla soglia del mondo,/ guardando così/ il suo vecchio mondo»).

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Seamus Heaney, “Sweeney smarrito”

Seamus Heaney

NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

Impossibile dar conto della bellezza mistica che si prova nel leggere, o meglio nell’auscultare, Sweeney smarrito (a cura di Marco Sonzogni, Archinto, pp. 252, € 16), traduzione italiana della traduzione (inglese) di Seamus Heaney del poema medievale Buile Suibhne, che narra la pazzia e la trasformazione in uccello del re di Dal-Arie «a compimento della maledizione di Ronan il santo». Se è vero quel che dice Walser («ormai sono solo un orecchio, un orecchio indicibilmente commosso»), qui siamo di fronte a una sfilza di nomi, descrizioni e immagini lussureggianti. L’udito ne esce polverizzato. Lo stesso Heaney nella sua Introduzione all’opera ci avverte: «Per trovare una poesia con una così struggente sensibilità per le bellezze e i rigori del mondo naturale dobbiamo andare a Re Lear e alle folli parole di Edgar travestito da povero Tom — esso stesso interessante parallelo della condizione di Sweeney. […] È stata la nudità e la durevolezza della scrittura di Buile Suibhne, il duplice registro di godimento e penitenza, che mi hanno tentato a cimentarmi con la traduzione».
Pubblicate nel Regno Unito tra il 1983 e il 1984 (Faber & Faber), anno d’uscita di quella pietra miliare della lirica heaniana che è Station Island, finalmente le gesta del re Sweeney (alter-ego del poeta, come si può facilmente arguire dall’assonanza), già noto al pubblico italiano attraverso il romanzo di Flann O’Brien, Una pinta d’inchiostro irlandese (traduzione di Rodolfo Wilcock, Adelphi 1993), sono disponibili nella loro arcaica estaticità. Sweeney Astray — questo il titolo originale, che fa da pendant al residuale Sweeney Redivivus di Station Island — è la riscrittura in prosimetro di una leggenda gaelica (ma il personaggio principale è realmente esistito) che circolava tra VIII e il IX secolo. L’antefatto è riassunto nelle prime pagine del testo: «Un giorno, quando Sweeney regnava su Dal-Arie, Ronan vi giunse per fondare una chiesa chiamata Killaney. Da dove si trovava Sweeney udì il tintinnio della campana di Ronan intento a tracciare il perimetro del sito, e chiese alla sua gente cosa fosse quel suono. — È Ronan Finn, figlio di Bearach, dissero. Sta fondando una chiesa sulla tua terra e quello che senti è il suono della sua campana. Eorann, sua moglie figlia di Conn di Ciannacht, provò a trattenerlo e s’aggrappò all’orlo del suo mantello cremisi, ma il fermaglio d’argento che aveva sulla spalla si ruppe e schizzando via attraversò la stanza. Lei riuscì ad afferrare il mantello, ma Sweeney era già fuggito, nudo come un verme, e in men che non si dica piombò su Ronan». Continua a leggere

Luca Nicoletti

Luca Nicoletti

 

Due poesie inedite di Luca Nicoletti

Restane fuori. Resta fuori
da questa rissa di ricordi
non prendere le parti
di un mancato sussulto o
di un eccesso del cuore
senza nemmeno sapere
se quegli anni sono morti
e se chi parla lo fa per indurti
in un banale errore.
La memoria, si sa, nasconde
ciò che vuole. E quando arriva
o è un lampo o si traveste,
non porta sempre il sole.

*

Tra un mese spariranno tutti
i pensieri e le persone
passate sul palco di questa lunga estate,
rifiorita nei germogli imprevisti e tardivi,
l’estate trovata nei refoli
nel vento caldo degli anni giovani,
che quasi si nasconde adesso

ancora un mese e spariranno
lasciando la scena ai fantasmi
delle notti e dei giorni, dei giorni
che pure non finivano mai.
Spariranno, nei mesi dell’inverno
e io con loro. Continua a leggere