Milo De Angelis, “De Rerum Natura”

Giovedì 16 giugno, ore 19:30 Alla Casa della Poesia di Milano presentazione di Lucrezio a cura di Milo De Angelis.

Il De rerum natura, uno dei capolavori della letteratura latina, è opera ricchissima di temi ed episodi, che vengono affrontati con la violenza espressiva tipica di questo autore misterioso, Tito Caro Lucrezio, di cui si è persa ogni notizia biografica. Tutti noi ricordiamo per memoria scolastica le formidabili scene in cui la natura su manifesta in tutta la sua catastrofica potenza: voragini, incendi, uragani, terremoti, forza immense che sovrastano l’uomo e lo schiacciano, povera canna al vento.

Ma il De rerum natura è anche un trattato sulla vita degli animali, delle piante e del cosmo intero ed è un libro in cui l’uomo viene scrutato in ogni suo aspetto: fisiologico, psichico, morale, con affondi mirabili nelle zone più buie e drammatiche della sua vita interiore, come vediamo nelle pagine del quarto libro dedicate all’amore, tra le più crudeli che siano mai state scritte su questo tema grandioso.

Letture di Viviana Nicodemo

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Milo De Angelis, “Ritorno”

Pubblichiamo in esclusiva un estratto da : Ritorno, di Milo De Angelis, pubblicato con Vallecchi (Firenze) nel 2022.

Inconfondibile la voce del poeta che affronta il questo fondamentale volume il tema del ritorno come atto conoscitivo (discesa agli inferi) e di mutamento del sé.

OMERO

IX SECOLO A.C.

 

Partiamo dunque da Omero, leggendo il celebre episodio di Argo, nel diciassettesimo canto, che ho cercato di tradurre e di restituire alla tensione sentimentale che lo percorre, persino elegiaca, insolita in Omero.

Ulisse sta per varcare la soglia della reggia. Nessuno l’ha riconosciuto, finora, E anche più tardi le creature umane faranno fatica a riconoscerlo, chiederanno una prova, una garanzia, un segno, una vecchia cicatrice.

Argo no. Argo lo riconosce immediatamente. Ma non riesce a mostrarlo. È talmente grande la sua emozione da creare una paralisi, un blocco, un’assoluta incapacità di camminare e andargli incontro.

Riesce solo a muovere la coda e resta fermo lì, in quel mucchio di letame, pieno di pulci e dimenticato da tutti. Argo è attraversato da una dolcezza infinita e da un infinito dolore.

Muore così, all’ingresso della reggia, nel momento stesso in cui Ulisse varca la soglia, e la sua morte conduce alla rinascita del padrone.

Sono due nell’Odissea, le sentinelle del ritorno, come ha scritto la grande grecista Maria Grazia Ciani, e nessuna delle due è creatura umana.

Sono due: un povero cane dimenticato da tutti e un arco.

Il cane resta muto e esalando l’ultimo respiro restituisce il respiro a Ulisse.

L’arco, oggetto inanimato, si rianima tra le mani del legittimo proprietario e sembra quasi riconoscerlo, come uno strumento musicale che riconosce la mano antica e tanto amata (“toccò con la mano destra la corda, dice Omero, ed essa emise un suono bellissimo, come la voce di una rondine“).

Ecco dunque che il tema del ritorno si connette qui a un altro grande tema che percorre tutta la letteratura occidentale, ossia il tema del riconoscimento, (anagnòrisis) un tema che troviamo tante volte nella tragedia greca (Oreste e Ifigenia, Elena e Menelao), e poi in Dante e Shakespeare, nel Conte di Montecristo, nel Fu Mattia Pascal.

La bellezza di tale anagnòrisis e la sua forza amorosa sprigionata nel mondo mi spingono a pensare che ci sia un segreto legame tra il riconoscimento e la riconoscenza: dobbiamo essere grati a ciò che ci consente, una volta riconosciuto, di percorrere passo dopo passo i sentieri del nostro destino.

(Milo De Angelis)

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Crocetti ristampa “I luoghi persi” di Umberto Piersanti

Umberto Piersanti

Nota critica di Alberto Fraccacreta

 

 

La poesia di Umberto Piersanti raggiunge uno snodo fondamentale del suo percorso con il trittico einaudiano che da I luoghi persi (1994) arriva a Nel tempo che precede (2002) e a L’albero delle nebbie (2008).

Tre libri unitarî, sospesi sul filo di «cronaca e memoria», sapidamente conchiusi nel «tempo differente» del mito che risospinge il canto melodioso in allegorie tassiane, cioè in ambientazioni pastorali locate nella foresta delle Cesane, eletto a locus amoenus topico, a pochi chilometri da Urbino.

I luoghi persi, che è appunto il primo capitolo della costituzione e sistemazione più matura del mondo di Piersanti, ritorna oggi per Crocetti (introduzione di Roberto Galaverni, pp. 108, euro 12,00), con alcuni inediti – dodici per la precisione – approntati dall’autore tra il febbraio e il dicembre 2021.

A quasi trent’anni di distanza dalla prima uscita, a differenza di molte sedicenti avanguardie, la silloge non ha perso nulla del suo smalto, tutto giocato su un vitalismo botanico, su un’edoné gentile e biaccata «sotto le querce gialle e il pungitopo».

E le nuove liriche riescono miracolosamente a essere in chiave, segno che l’azione elegiaca del poeta urbinate si mantiene su registri analoghi anche a distanza di decenni (radicalizzando, anzi, la portata di un messaggio di fondo che potremmo definire “parnassiano”).

Come osserva Galaverni con molta adesione nel testo prefatorio, «questa poesia da una parte racconta dell’aspirazione del poeta verso una specie di patria edenica, di paradiso terrestre, di luogo protettivo e, detto nel senso più pieno, materno; un luogo – la parola come si vede è fondamentale – di percezioni piene, di estasi sensibili, d’integrità e di perfezione, lì dove non ci sono più angosce e paure e solitudine, dove non c’è il tempo che scorre, che consuma, che porta via i bei momenti, gli amori, le persone e le cose che importano, e noi con loro». Nulla di più condivisibile.

L’integrità, la pienezza dell’esserci e la strenua volontà di accaparrarsi uno scampolo di paradiso terrestre sono il senso della ricerca del luogo perduto: località dell’infanzia, suprema tensione dell’umano a un gesto “totale”, all’incarnazione femminile della giovinezza sveviana; eppure ecco il «tempo» che «muta», la «vicenda» che «cambia» nel divenire e nell’incessante metamorfosi delle stagioni.

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Vittorio Grotti, “Libertà”

Vittorio Grotti

Libertà edito da Campanotto è il titolo del libro di poesie di Vittorio Grotti (1939-1981) l’artista della Versilia – pittore, grafico e poeta – scomparso quarantun anni fa. A dare corpo al libro nel 2021, in piena era covid, la figlia Esther Grotti che ha sempre attinto da quelle poesie una coinvolgente forza vitale.

Vittorio Grotti torna nel presente a parlarci con rabbia, della guerra, della crisi scialba in cui già negli anni in cui egli visse si dibatteva la società “già consumata”, comunque tesa a cancellarsi brutamente e bruttamente da qualsiasi angolino della storia. Il suo è furore autentico che  va a sciogliersi in una carezza sul capo innocente della figlia Esther : – se un poeta vive il mondo viva. –

Scriveva Carlo Betocchi: “La poetica del Grotti si svela e resiste non tanto per quello che v’è, sotto sotto, di immediato e spontaneo, di scatto passionato e reattivo agli insulti della vita: quanto perché il passionato e reattivo vi sono più spesso ridotti all’osso, e magari accantonati e derisi dal poeta stesso, dandogli addirittura scacco matto. Nel qual caso la sua invenzione verbale riesce ad arrivare a quel pittorico bianco gessoso del Viani irridente che fa personaggio col suo tragico nero”.

Oltre a Betocchi, furono molti i poeti che si avvicinarono alla poesia del Grotti, fra essi Giorgio Caproni che lo raccontò così:

Una barbaccia alla Castro. Due lucentissimi occhiacci vivi e neri sul fiore (di terracotta) di un lucumonico sorriso etrusco, puntatimi addosso a Viareggio con una fissità da farmi incavolare: da costringermi, com un impermalito Adamo Ivanovich, al solito (v. “Umiliati e offesi”): “Ma insomma, perché mi guarda con tanta insistenza?”.

E’ la mia prima (molto lontana, ormai) immagine di Vittorio Grotti.

Poi ebbi modo di “avvicinarlo”. Di correggere, a cominciar dalla barba, quella prima (falsa) impressione fisica.

E’ un uomo che spira amicizia da ogni poro. Un anarchico dal cuore di zucchero. Un grande allevatore non di caimani, ma di pittori bradi. (Sa anche domarli).

Adoratore (sacerdote) di Lorenzo Viani.

(“Dici steccolo”, esclamerebbe un vecchio livornese).

Comunque, un dolcissimo incendiario che, a toccarlo, dà la scossa,come la dà soltanto chi in corpo un Nume.

Quale sia questo nume non lo so. Ma so che Grotti è anche (leggi soprattutto) un autentico poeta alla diavola, che scrive versi pronti a prenderti a schiaffi come a farti le più intenerite carezze. (“Eh le bisce contorte e folgoranti,/ forti come una barzelletta / urlata forte nelle  orecchie del deserto/ o come la conversione di Saulo…”). Un poeta che non puoi rinchiudere in nessun barattolo confezionato con precisa etichetta, giacché li farebbe scoppiar tutti.

“Costituisco in un piazzale di pietra l’anitra più grassa
che affronti Petrarca Boccaccio l’Aretino Dante e
con un solo starnazzo i becchi in solido
sul cuore di finti dondoli in cornici dorate
Dio stesso viene meco masticando bava filante
e zucchero di Capezzano P.
Ora che il ver vetro è la mutua, la vergine, la pensione nero su bianco.
Bicchieri di carta in fondo.
Vuoto a perdere”.

Sono Versi che mi ha mandato lui per Pasqua, in autografo, e che solo lui poteva scrivere. Versi che bastano a dare un’idea, senza contorcimenti verbali da parte mia, di quale legno sia fatto “il Grotti”.

Leggetelo. Leggiamolo. Lui che, nella sua “rivolta” (tutta tesa verso l’amicizia e la pace), è una specie di Lucifero alla rovescia: un diavolo che s’è fatto angelo.

 

PER UN CRISTO CH’È STATO E CHE POTREBBE

 

La delegazione operaia
ha regalato cuscini e ghirlande di fiori,
senza dire una parola, una sola.

Finalmente
la madre ha visto il figlio morto,
il figlio che partiva alle sei per la fonderia,
il figlio che tornava alle sei dalla fonderia.
L’han riportato ieri colla “misericordia”,
già composto nella tuta blu:
lui che sempre,
tutte le sere,
rideva scherzava la baciava,
cantando le portava una leccornia.
Poi il padrone che parla,
l’assicurazione che parla…
– Schiacciato da un blocco caduto per caso.
– Così giovane, è stata una disgrazia.

A tempo
s’è ricordata della bicicletta,
subito un compagno di lavoro è andato a prenderla.
Era rimasta appoggiata al muro della fonderia,
al manubrio c’era ancora la borsa di paglia.

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Il “De rerum natura” nella traduzione di Milo De Angelis

A N T E P R I M A      E D I T O R I A L E

 

Il 10 maggio 2022 esce nelle librerie italiane un grande classico del pensiero e della letteratura: il DE RERUM NATURA di LUCREZIO (Mondadori, 2022) interpretato e riscritto da uno dei maggiori poeti del nostro tempo, Milo De Angelis.

Una traduzione attesissima, che ci permette di tornare a Lucrezio con una versione che ricrea fedelmente lo spirito e la tensione interna dell’esametro lucreziano come non era mai accaduto prima, con tanta poetica adesione.

Estratto dalla Prefazione
di
Milo De Angelis

Questa traduzione nasce da un lungo sodalizio con Lucrezio, che ha accompagnato tutta la mia vita: dalla tesina di Maturità al rapporto con il latinista Luciano Perelli, alle pubblicazioni scolastiche, alla rivista “Niebo”- che a Lucrezio ha dedicato un numero nel 1978 – e alle varie traduzioni apparse negli anni: un lungo tragitto fatto insieme, tante strade percorse e tante visioni comuni, quasi delle nozze poetiche, con promesse solenni, contrasti, riprese, abbandoni, ritorni.

D’altronde Lucrezio non ha un carattere facile, come è noto. È un uomo aspro, polemico, intransigente – caso raro tra i latini, che tendono spesso a una humanitas colloquiale – e appartiene invece alla razza dei grandi solitari, come Nietzsche o Campana, uomini che alla poesia hanno chiesto tutto, si sono assunti il rischio di una domanda totale e hanno fatto della poesia una questione di vita o di morte: non quindi un gioco o un esperimento ma una parola decisiva.

Di lui non sappiamo quasi nulla. Non sappiamo dove è nato, dove ha vissuto, cosa ha fatto nella sua vita. Questo può apparire sorprendente nel primo secolo avanti Cristo, il secolo d’oro della letteratura latina, il secolo di Orazio e Cicerone, ampiamente documentato dalla storiografia. Ma in fondo non c’è troppo da stupirsi. Lucrezio è un uomo isolato, un uomo fuori dalle dispute culturali del suo tempo, lontano dai circoli letterari e dall’eleganza dei neoteroi.

Lucrezio non è al passo con i tempi. Non parla con i poeti contemporanei, non entra nei luoghi mondani del “dibattito”. È un uomo fuori tempo, fuori modo, fuori luogo. Non si rivolge ai vicini di casa ma agli antichi, ai grandi sapienti greci che si sono interrogati perì physeos: sulla natura delle cose, appunto.

Parla con Eraclito, Anassagora, Empedocle, Epicuro, parla con coloro che sono stati la sorgente del pensiero e hanno lanciato una staffetta poetica lungo i secoli, hanno fatto viaggiare un testimone, un bastoncino di legno che passa da una mano all’altra, da una mente all’altra.

 

Il dolore della giovenca (II, 352-366)

 

Nam saepe ante deum vitulus delubra decora
turicremas propter mactatus concidit aras
sanguinis exspirans calidum de pectore flumen.
At mater viridis saltus orbata peragrans
quaerit humi pedibus vestigia pressa bisulcis,
omnia convisens oculis loca si queat usquam
conspicere amissum fetum, completque querellis
frondiferum nemus adsistens et crebra revisit
ad stabulum desiderio perfixa iuvenci,
nec tenerae salices atque herbae rore vigentes
fluminaque illa queunt summis labentia ripis
oblectare animum subitamque avertere curam,
nec vitulorum aliae species per pabula laeta
derivare queunt animum curaque levare:
usque adeo quiddam proprium notumque requirit.

 

Il dolore della giovenca (II, 352-366)



Sovente, davanti agli splendidi templi degli dei,
ai piedi degli altari dove brucia l’incenso, si accascia un vitello
sacrificato e un fiume caldo di sangue gli esce dal petto.
La madre a cui è stato strappato percorre i verdi pascoli
cerca di trovare per terra l’impronta dei suoi zoccoli,
posa dappertutto il suo sguardo, spera con tutte le forze
di scorgere da qualche il figlio perduto. Resta immobile
alle soglie del bosco, lo riempie dei suoi lamenti disperati,
in preda all’angoscia torna indietro a cercarlo nella stalla.
Né i teneri salici né l’erba ricca di rugiada né i suoi amati
corsi d’acqua che scorrono a filo delle rive possono consolare
il suo cuore o scacciare la sua sofferenza improvvisa
e neppure la vista degli altri vitelli nei pascoli fecondi
riesce a distrarre il suo animo o alleviare la pena: lei cerca
l’unica creatura che conosce davvero, la sua!

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Alessandro Santese, “Vento nelle mani degli uomini”

Alessandro Santese

A N T E P R I M A      E D I T O R I A L E

 

Il 21 aprile 2022 esce con Nicola Crocetti Editore, il secondo volume di poesie di Alessandro Santese:  Vento nelle mani degli uomini

Con la sezione Dimenticate contenuta nella nuova raccolta di versi, Alessandro Santese, nato a Roma nel 1990, nel 2019 ha vinto il Premio Poesia Città di Fiumicino per l’Opera Inedita, da una giuria composta da Milo de Angelis, Fabrizio Fantoni, Emanuele Trevi, Luigia Sorrentino. Presidente Gianni Caruso. Ci fa piacere proporre per la prima volta su questo blog in anteprima editoriale una scelta di quattro poesie fra molte altre, con le quali Alessandro ha vinto il Premio, poesie poi pubblicate in plaquette con la mia Prefazione – qui sotto riportata –  Edizioni Corte Micina, 2019 come previsto dal Regolamento del Premio.

(Luigia Sorrentino)

 

Alessandro Santese
da Dimenticate

Perché ogni cosa venga dal fuoco
per ritornare al fuoco

Orizzonte delle intersecanti

Tutto il tempo saremo
che ci siamo promessi
un giorno
come le cose che ci dicemmo a bassa voce, tra le mani
congiunte, per paura che il mondo ce le rubasse,
in un refolo:
entrerai nel gelo del ferro stringendolo all’infinito
come un figlio
di cui senti le frasi nel sonno cadere a manciate
come le ossa
la neve
del corpo piccolo un giorno al fondo di un cortile
che si diventa:

e sono grida bianche
cresciute dentro
a una a una che
sollevano la carne a un volo che precede
il dolore e lo scavalca,
ciò che dilegua la ridda delle ombre che s’assiepa
e distingue luce da
luce, momento vero e finale da momento: cola
un rivolo dai seni del latte
alla bocca che sanguina
ancora
un verso e giunge a voi, che rovesciaste lo spasmo
della testa contro la pietra del nulla
per troppo amore della vita
trovando il silenzio che non risponde
e dunque risponde:

sdraiato, ricordo, mi vedo
vedo il bambino che guarda sdraiato e cieco
il cielo, che sente addosso
come una imminenza.
All’improvviso, e vede. Bambino e sdraiato io, ti vedo.

Stare felici nei giorni non era stare qui.

Oh lingua che si sfa e voi, oh; vento.

 

Ma credete, vi prego

Ma credete, vi prego, a questo gelo che chiude
gli occhi solo un attimo ed è per sempre, al corridoio
immerso nelle dieci della mattina
che si colma d’una radio feroce, e le finestre, ognuna, ogni fiore
che poi tocchi, credete
al gesto che d’improvviso sa il diluvio nel respiro
poi un caldo minerale
e si entra
a poco a poco nell’ombra,
i piedi scalzi, il fermaglio,
la maglia e la terra,
questo schianto prolungato delle voci
alle tue porte, e prima, prima ancora
dell’asfalto, del suo grido che incontra una notte
su una tangenziale il bacio delle lamiere,
dei nomi l’ultima verità, e li spoglia, per tutti,
Alessio e Giulia in questo unico
esatto gelo del corpo, sposi,
e voi, che vi amerete nella gioia
e nella malattia,
nel dolore e nel terrore, vi prego, finché un bianco viscerale
vi chieda ancora alla luce, al prodigio
d’un grumo che chiamate parola
e sarà ogni cosa, tutto
come la via che portava
e riportava ogni giorno
al lavoro, che si faceva insieme, per venirti a riprendere
con gli occhi stanchi, per quel guizzo
che ti attraversava un attimo il viso,
sedendoci per lo spavento,
mettendoci accanto, sui sedili, entriamo, amore, entriamo
nell’ombra.

 

Io sono il morbo

Io sono il morbo
che t’ossessiona
gli occhi e tritura
il passato nelle maree dei senza volto,
dei mai vissuti, il bastone adesso
ha chiuso il cerchio
come la testa lanciata
nelle mani: è ora di entrare
e lasciarci tutto,
saranno cancellati anni
e preghiere l’intera terra del corpo
se nervi pulsano
saranno sradicati
uno, ad uno.

Io sono il ventre disseccato
che m’appartiene
il verme nella nuca trapunta
dalla mosca,
io sono del tempo
che non fa testimoni e scrive
formule malcerte sulla sabbia. Ora senti le bocche loro
aperte nel buio
dal sale, il collo torcersi oltre i vetri
dai balconi: si girano al temporale,
lo sanno vicino, sporgono
la fronte alla benedizione della pioggia. Continua a leggere

Moira Egan, “Amore e morte”

Moira Egan Credits ph. Eric Toccaceli

Love & Death

Looking back, I presupposed love,
I suppose. At least, I felt a whiff of death
each time she left. She had a theory: that sex
was the only path to the truth. Philosophy,
religion, physics – the other,
traditional pursuits – had it all wrong. Only poetry

came close, but who can live on poetry?
Too sweet by far, though one can learn to love
it, to breathe, to eat it like candy. Still, other
nutrients are necessary: death
comes from such monotony. (Her philosophy,
though sweetly spun, was never so refined as her sex.)

And it was, after all, the pure white sex
between us that drove me to poetry.
How else to express the brazen philosophy,
the teleology of flesh beyond love,
the ontology of sex that can lead to death?
And we’ve all heard stories of others

who’ve actually died from it: The other
becomes the self, the sex
that binds us, wrist and foot. The little death
claws at your throat, your cry like poetry:
an eerie diction I grew to love.
“I’ll never read philosophy

again.” I embraced you, your strange philosophy,
and, forsaking all others,
turned to tell you of my love.
Which you call merely sex.
Is there solace in Poetry?
Just then I longed for Death.

Or did I? You arrive like Death,
tricked out in black, and burn my philosophy
books. Pale lips still pouty with poetry,
you tell me, of course, that I wasn’t just another,
and I, of course, believe you: You left because the sex
felt so much it hurt almost like love.

When we last made love, you left another
scar. And philosophy feels like death to me,
and I can’t find any poetry in sex.

Amore & morte

Ripensandoci, presupponevo amore,
credo. Quantomeno, sentivo un soffio di morte
ogni volta che lei se ne andava. La sua teoria: il sesso
è l’unica via verso la verità. Filosofia,
religione, fisica – gli altri
percorsi tradizionali – tutto sbagliato. Solo la poesia

ci andava vicino, ma chi riesce a vivere di poesia?
Troppo, troppo dolce, anche se si può imparare l’amore
per lei, e respirarla, mangiarla come un bon bon.
Ma altre sostanze nutrienti sono necessarie: la morte
scaturisce da questa monotonia. (La sua filosofia,
fine tessitura, mai raffinata quanto il suo fare sesso.)

Ed è stato, dopo tutto, il puro sesso
candido tra noi che mi ha spinto alla poesia.
Come spiegare altrimenti la sfrontata filosofia,
la teleologia della carne oltre l’amore,
l’ontologia del sesso che può portare a morte?
E le abbiamo sentite tutti le storie di altri
che davvero ne sono morti: l’altro
diventa il sé, il sesso
che ci lega, mani e piedi. La piccola morte
ti artiglia la gola, il tuo urlo è poesia:
misterioso tuo manifestarsi che ho imparato ad amare.
“Non leggerò mai più filosofia”.

Ti ho abbracciata, e anche la tua strana filosofia,
e, abbandonando tutte le altre
mi sono convertito e ti ho detto del mio amore.
Che tu chiami puramente sesso.
C’è conforto nella Poesia?
In quel momento bramavo Morte.

O no? Tu vieni come la Morte,
adorna di nero, e i miei libri di filosofia
li bruci. Pallide labbra ancora immusonite di poesia,
mi dici, certo, che io non ero solo un altro
tra i tanti e, certo, ti credevo: te ne sei andata perché il sesso
lo si sentiva tanto che faceva male quasi come l’amore.

L’ultima volta che abbiamo fatto l’amore hai lasciato un’altra
cicatrice. E la filosofia la sento simile alla morte,
e non riesco a trovare alcuna poesia nel sesso.

 

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Federico Carrera, “Tentativi di vita”

Federico Carrera, per gentile concessione

                         

Ad Andrea

Sul finestrino correva una goccia,
l’ho scambiata, voltandomi,
per un uccello che spiccava il volo
dai campi incolti di questo novembre.

Moristi, Andrea, e c’era la neve. Guarda:
ora tutto è cambiato questo clima bugiardo
che prova a nascondere l’aria di morte invernale
sotto coltri variopinte di foglie ammassate
e io mento quando dico che ancora ricordo
la tua voce che dico soave, ma che era
forse diversa, più roca, più cupa.

Andrea, moristi e di te mi rimangono
scarsi frammenti di pellicola muta,
sbiadita dal tempo, come quei film
che a te piacevano tanto

*

Gli amanti si scontrano
quando i baci esplodono
e passando e ripassando
sotto al portone di casa tua
si feriscono con gli occhi
si disarcionano gli sguardi

gli amanti si scontrano
se muovi leggera la mano
se avvertono intorno a te
un qualche rumore strano
escono fuori dai nascondigli
azzardano l’accusa calibrano

il moschetto della gelosia.
Ma gli amanti si scontrano
violenti anche con te che
non volente li lasci passare
li illudi li inganni rispetti il cliché
della donna severa sicura di sé.

*

Tenue sofferenza di inizio gennaio,
preghiera mancata, con le ginocchia
sulla sabbia – la ricerca di dio
nei luoghi che non calpesta. Dentro
la tensione metafisica dell’attimo,
appare lontano, ai confini della spiaggia,
un pargolo, nuovo demiurgo – piange
per le onde che sotterrano. Ma ecco
che d’improvviso appare una voce
che si muove tra le cose e si scorge
il cavallo bianco dentro la foresta scura,
mezzo-alluvionata, con qualche placido
dominicano a fare da Caronte tra la riva
del fiume e quella del mare.

*

Milano centrale ed è un dolore,
un amore che parte uno che porta
i segni dell’antico e un cambio
verso Torino campi deserti a maggese
paludi del fiume autostrade battute –
nessuno. Un vecchio film francese,
mi piace e c’è la pioggia, nuvole sparse:
ma i monti appaiono limpidi all’orizzonte
nonostante le mie poche virtù e scarse.

Selezione di testi da Tentativi di vita (Edizioni Effetto, 2021) Continua a leggere

Angelo Saso, “Scolpiti nell’aria”

Angelo Saso, per gentile concessione

La terra è in tempesta

 

La terra è in tempesta
È tempo di ripiegare le vele
Di cercare riparo
Sotto una coltre di muschio
Una coperta di neve.

La terra è in tempesta
Mare di rami
Nudi come falangi
Le radici scoperte
Ondeggiano
Si tendono
Stridono.

Il cielo vuoto rimbomba
Di preghiere non dette
La terra è in tempesta.

 

Fuochi lontani

 

Non ho nulla
Da offrirti
Se non il mio sguardo
E la nostalgia
Del respiro delle stelle.

Ascoltalo
Quando la notte sorge
Alta nel tuo cielo.

Riempiti gli occhi
Con il battito Dell’universo.

Fuochi lontani
Nello specchio dell’orizzonte
Segnali di luce
Per navi fantasma.

Sulla pelle la rugiada
Che profuma
Di terra.

 

La strada

 

La strada chiama all’alba
Offre rugiada e silenzio
Fango e raggi radenti
Portaci i sogni notturni
Non aver paura di sporcarli di terra
Di impastarli di nuvole e polvere.
La strada
È la via dell’essenza.
Sei tu senza il vuoto
Che ti riempie la vita.

 

Finis Terrae

 

Ho visto
La mia anima in viaggio
E l’ho seguita.

Tra guglie di bellezza
Ho visto
La terra colore del pane.

Ho respirato
Distese di grano
Verde nel vento
Della primavera.

Ho visto
Il dio dei tulipani
E ciuffi di capperi
Tra le pietre sbrecciate
Di quel che resta
Di gloriose mura.

Ho visto
La polvere delle carovane
E la schiuma del Bosforo
Nell’aria impregnata
Di suoni e di spezie
Dai colori lontani.

Ho parlato
Le lingue dei marinai
Bruciati dal sole.

Sono stato mercante
E gran sultano
E schiavo sanguinante.
Nel solco bianco delle chiglie
Tra il battito delle triremi

Ho visto
L’inizio del mare
E la fine del mondo. Continua a leggere

Clemente Rebora, “Canti anonimi”

A N T E P R I M A   E D I T O R I A L E

A cento anni dai Canti anonimi di Rebora (un libro che è una reazione al dramma della guerra) esce un’edizione commentata con un’anteprima il 6 aprile 2022 a Milano con reading di Patrizia Valduga. L’edizione di Interlinea è curata da Gianni Mussini.

Nel  libro c’è il rapporto tra natura e città, la sua Milano, e soprattutto c’è l’ansia per l’attesa di un futuro migliore, grazie a qualcuno o qualcosa, forse la donna amata o  forse la fede, dopo l’annichilimento e la strage della Grande Guerra («trincee fonde nei cuori – l’età cavernìcola è in noi.»); per questo scrive dei «canti anonimi» perché vuole cercare, nel donarsi anonimo agli altri, una ragione per continuare a vivere, per ripartire, per trovare prima o poi chi «verrà, se resisto / a sbocciare non visto»; l’edizione stampata da Interlinea nel 2022, è a tiratura limitata e andrà in distribuzione il 9 aprile 2022.

Roberto Cicala

L’IMAGINE TESA: L’ATTUALITÀ DI REBORA

PRESENTAZIONE

Mercoledì 6 aprile 2022 Aula Magna, ore 17.00 Largo A. Gemelli, 1 – Milano

Tavola rotonda di presentazione dell’edizione commentata dei Canti anonimi di Clemente Rebora (Interlinea, 2022).

Intervengono
Gianni MUSSINI curatore

Giuseppe LANGELLA
Università Cattolica del Sacro Cuore

Valerio ROSSI
Istituto Sant’Ambrogio, Centro Novarese di Studi Letterari

Coordina
Roberto CICALA
Università Cattolica del Sacro Cuore, Interlinea

Letture di Patrizia Valduga

 

Clemente Rebora ritratto da Michele Cascella negli anni ’20

UN ESTRATTO DAL LIBRO

Campana di Lombardia
di Gianni Mussini

Il paesaggio che si immagina sullo sfondo è sempre quello vasto e mansueto della campagna lombarda, verticalmente punteggiato di campanili. Mentre il discorso riprende con naturalezza dall’ultima strofa di Al tempo che la vita era inesplosa, le cui parole scorrevano in una lenta musicalità capace di assecondare quel senso di profonda comunione con il creato: quasi un “adagio” che man mano si affievoli- va sino alla confessione finale: «è bello il silenzio a te vicino». In questo contesto può ora sciogliersi «la “voce” (anonima e unanime: corale) della campana di Lombardia, ispiratrice di un’arcana, contagiosa fiducia “verso l’alto”» (Ramat 2008, p. 168). Fiducia di «guarir l’intimo pianto», suggerisce Rebora (v. 8) agganciandosi di nuovo all’Inesplo- sa, dove i valori del Carlo contadino erano antidoto alle «tèrree nostre notti». Ma c’è ancora un altro legame tra le due liriche, poiché nella seconda si realizza la particolarizzazione di uno spunto dell’altra: i cui sinestetici «effluvi di campane» (v. 54) si precisano ora in un’immagine più sem- plice e definita, ma non meno evocativa: la campana di Lombardia che, come recita un folgorante commento di Luca Doninelli (1987), «non dà malinconia perché è voce di qualcosa che è qui da sempre». Non si potrebbe spiegare meglio l’intima religiosità di questo testo, coerente con il nuovo clima morale della raccolta. Continua a leggere

Francesco Scarabicchi,
“La figlia che non piange”

Francesco Scarabicchi

DAL RISVOLTO DI COPERTINA

Scarabicchi è morto nell’aprile del 2021 e questo libro esce purtroppo postumo. È uno dei suoi piú belli, senz’altro il piú commovente. Queste sue ultime poesie vanno alla ricerca dei sogni, delle cose, delle idee avute e scomparse nel corso degli anni («Si decida il contabile del tempo | a restituirci gli anni non vissuti»). Con uno sguardo al mondo che andrà avanti, alle generazioni che, come sempre, si succedono alle precedenti. Il lirismo sommesso ed essenziale tipico del poeta marchigiano è qui al servizio di un libro testamentario in cui il poeta fa pacatamente i conti con la fine della vita, avvertita ormai come imminente. Senza mai indulgere al pathos, attenendosi a quella sobrietà linguistica, a quel «monachesimo lessicale», come scrisse Enrico Testa, che chi ha letto Il prato bianco e gli altri suoi non numerosi libri ha imparato a interpretare come indicazione etica non meno che come scelta stilistica.

Con una Notizia bio-bibliografica di Massimo Raffaeli.

La Moja

a Franco Cordelli
e a Massimo Raffaeli

I
Così la luce delle soglie è notte,
così è giorno, se la tocca l’aria,
se la divide l’ombra delle porte

o il silenzio pesante delle pietre
mentre la via deserta s’allontana
dall’erba e dal confine della selva

a un’ora di settembre, luci basse,
o dopo quella pace della neve,
alberi radi, una panchina, il cielo

dove di me l’infanzia sa a memoria
i nomi che non dice e che conserva
dai vetri d’un negozio, da una tenda.

II
Questo luogo del mondo è argine e onda,
palude, via ferrata, sostantivo,
destino d’una riva, ansa, sponda,

stagione della fertile pianura,
tempo del tempo che scompare lento,
legna che si fa brace e dopo spegne,

presente che dell’umile contrada
seguita la bellezza che non grida,
la verità del sole al primo gelo.

III
Rade auto al confine della notte,
insegne, chiuse imposte,
la fornace che arde di parole.

Nel silenzio, il paese cede al sonno. Continua a leggere

Gilda Policastro, “L’ultima poesia”

Gilda Policastro

Cosa è la poesia oggi? A chi si rivolge, qual è lo spazio che occupa nel sistema della comunicazione virtuale e dell’interconnessione?

Sono le domande alle quali risponde Gilda Policastro nel volume L’ultima poesia – Scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo Novecento a oggi – edito da Mimesis nel 2021.

È il 2003 quando Edoardo Sanguineti, nel quarantennale della Neoavanguardia, pronuncia la battuta: “Dopo di noi, il diluvio”. Questo libro vuole rimettere in circolo (e in discussione) quella provocazione-profezia, per interrogarsi sull’eredità della Neoavanguardia tra i poeti nati a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, in relazione a modelli, forme, strumenti del “fare” poesia. E come si fa poesia nel nuovo millennio? Con le emozioni, i paesaggi, la rima fiore-amore, anche se il poeta non va più in carrozza ma in car2go? Nel 1961 Nanni Balestrini, antesignano del cut-up, inventa un algoritmo per ricombinare stringhe di testo al calcolatore. Un’eredità raccolta, oggi, soprattutto da poeti che ripensano alla poesia (anzi, alla scrittura o alle scritture) come un campo aperto di verifica e di possibilità. Non come ambito separato, quindi, ma fertilmente contaminato da linguaggi e contesti del presente, andando dalla videoarte a Instagram. Ne deriva un’adesione (o una resistenza) delle parole alla realtà, tanto più autentica quanto più (appare) sofisticata e schermata, anche per effetto di un confronto incessante con altri modelli, fuori dai nostri confini: l’arbasiniana “gita a Chiasso” si fa ormai su Google Maps.

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La ristampa di “Cuore” di Beppe Salvia

Beppe Salvia

Interno Poesia ristampa l’attesissimo libro di poesie di Beppe Salvia Cuore diventato introvabile, che uscì postumo nel 1987, a cura di Arnaldo Colasanti a circa tre anni dalla tragica scomparsa dell’autore.

Dall’introduzione
di Sabrina Stroppa

 

[…]

All’inizio del 1984 escono su “Braci” sedici poesie sotto il titolo di “Cuore”: diventerà il titolo generale di un libro che Salvia prepara nei primi mesi del 1985, e che raccoglie una serie di poesie pubblicate in rivista tra il 1979 e il 1984.

La sezione eponima comprende una delle sue liriche più belle, “A scrivere ho imparato dagli amici”; e saranno proprio gli amici dopo la morte di Beppe, avvenuta il 6 aprile dello stesso anno, a ritrovare i dattiloscritti preparatori tra le sue carte. Il libro apparve solo alla fine del 1987, postumo, per l’editore rotondo, a cura di Arnaldo Colasanti, come primo numero della collana di poesia “Novelettere” da lui diretta. Nella premessa, Colasanti indicavano i versi di Salvia “lo spalancarsi di una potenza e di una unicità lirica” sostenute da “una lingua di magistero, di studio delle cose e degli uomini”. Gino Scartaghiande, che contribuì all’allestimento del volume, ragionando su quella “grande poesia” degli anni Ottanta e Novanta che ebbe le sue radici nei Settanta parla di cuore come di uno dei ‘veri libri’ dell’epoca: “un libro straordinario, miracoloso, impensabile e dieci anni prima”.

Il volumetto ebbe, subito, almeno due lettori di eccezione. Pietro Tripodo, in una presentazione del luglio 1988, indicava in “Cuore” la capacità di “disporre diversamente da prima l’attuale, giovane universo della res publica literatum: leggendo minutamente i versi, sottolineava l’affollarsi di una “iperattività retorica” che è “un tempo risultato e sostanza di poesia”, una “rabbia della forma” espressa da varie insistite “Tessiture formali”, sole in grado di sopportare “l’urto nervoso […] di un’intollerabile urgenza”.  Andrea Zanzotto, riconoscendo nell’autore una voce importante tra quelle dei giovani poeti che stavano facendo un “salto qualitativo […] verso nuove forme”, ravvisava nella poesia di Salvia una “sconcertante luce” capace di creare un “inquietante sfondo di allontanamento”, e insisteva sul quid arduo e sfuggente che leggeva nelle sue prove più composte.

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Cettina Caliò, “Di tu in noi”

Cettina Caliò

 

da La Forma detenuta

Ti tengo
nell’entroterra dell’anima
in un respiro di due sillabe

nel silenzio che fanno gli occhi
quando spalancati sentono
quel perdersi bello
nel nulla del passo

***

Piano sequenza

Quel mio ritornare a te
da tutte le strade
per sottrarci da tanta morte

e ricucire i luoghi
feriti
di una vita che qui
è stata vita
per un poco

***

Dove grido

Dove il tuo odore semplice dura
dove ti trattenevo

dove nessuno adesso
attendo e non accade

duro il desiderio
del respiro
nella sosta del viso

dove il colpo di frusta del sangue
brucia
rivedo antica e senza più mistero
la ruga a dividere la tua fronte
ostinata nella sua durata abissale

dove il tuo pensiero veleggia
gonfio e immemore

in questo viluppo di scogli
come l’onda mi rompo
e schiumo

***

Cade anche l’ultimo vento
ogni cosa è sola
nel risveglio che trema
come il cespuglio arruffato
dalla fuga di un uccello

non so più nominarti
se non nel pugno stretto

e indolenzito
ricomincia il giorno
a consumare lento
le suole
e noi
con aria da passanti
moriamo a strattoni nel rumore
secco del desiderio in ceppi

Nella voce di una campana lenta
passa la vita
e chiude ogni frase
in un tormento di ultime volte
sapute sempre
dopo

qualcosa cerchiamo
su cui posare lo sguardo
senza tremare

fra un rintocco e l’altro

un sentiero piccolo di arbusti
promette giorni di fiori a venire

e noi
un dettaglio
in questo panorama che basta
a se stesso

ma ancora
sorveglio le tue foglie
e mi attardo a guardare
il modo che ha il sole
di far colare la luce
sui muri

***

Sei salita
che mi vede a bocca aperta
in un giorno di finestre chiuse

mi dico parole
nell’idea di quella virgola
che dava fiato al silenzio

quando
avevamo piedi e mani
a fare il paio

***

Cadono cose e restano
cadute
in questa vita a orario fisso

tuttavia io

nell’assenza che mi porta
dove tu
arreso hai sorriso
vado

e imparo
la figura paziente dello zero


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Francesco Tomada, “Affrontare la gioia da soli”

Francesco Tomada

Pubblichiamo cinque poesie di Francesco Tomada tratte da Affrontare la gioia da soli, Collana Gialla Oro, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021

IL MARE IN TRASALPINA

I. STAZIONE TRANSALPINA, 22.30 PM

Ha bevuto almeno quattro calici di bianco
poi si è messo a camminare traballando
verso un prato buio e un palazzone popolare
forse ad aspettarlo c’è una solitudine più grande
rispetto a quella di adesso

sui binari solamente un treno merci fermo e
due carrozze graffitate senza passeggeri con le luci spente

qui vicino la panchina dove
è morto Adelmo in overdose di metadone
conosciamo bene sua madre
o meglio quello che ne resta

ma tu
tu stringimi la mano
se vogliamo credere che ci sia qualcuno a casa
di quell’ubriaco che lo svesta e lo perdoni
che ad Adelmo sia spettato un paradiso di colore
verdeazzurro come l’acqua dell’Isonzo
stringimi la mano fammi forza
che per tutte queste lampade appese alle colonne
con la plastica a forma di conchiglia
tocca a noi di immaginarci un mare

II. CAVE DEL PREDIL

La miniera è chiusa da vent’anni ma qui tutto è ancora miniera.
Le case sono state costruite per i lavoranti, il museo si è preso lo
stabilimento dove si purificava il piombo, il pendio della montagna
è un accumulo di pietre scavate da là sotto.
Quando nevica d’inverno i fiocchi sono grossi e lenti, come quando
capovolgi quelle sfere trasparenti che contengono un paesaggio.

Rovescia ancora quella sfera.
Che la neve si raccolga nella concavità del cielo.
Che la terra discenda nel vuoto delle gallerie da dove è venuta.
Che tutti gli uomini risalgano salvi. torna più indietro, prima di
silicosi e pleuriti. Fino alla festa di Santa Barbara, quando vestivano
i loro completi con ventinove bottoni dorati e lo sguardo fiero di
chi tutti i giorni scende nel mondo e lo spacca davvero.

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Luca Ariano, poesie

Luca Ariano / credits ph. Elisa Maragotto

Meno di una settimana a Natale
e tu Fiulin fuggi giù: chi cerchi?
Le tue origini? Avresti portato Giggino
un’ultima volta: scese per un funerale
con la sua 127 bianca.
Anche lui vide branchi di pecore?
Pascoli di bufale lì dove i Sanniti
sconfissero i Romani…
tu quando porterai un fiore sulle tombe?
Sarebbe piaciuto a Giggino camminare
per quei vicoli tra panni stesi…
odore di cucina e fritto
– come quello di mammà –
e il mare così vicino.
Anche tu sei ripartito in un treno di nebbia
da Averno: loro temono dicembre…
che qualcuno non veda le feste.
Solo Rosa lontano ti sorride nel fumo
che ti brucia i polmoni e quell’abbraccio
è l’unico regalo che valga una stagione.

«Saluto tutti i miei amici!
Che dopo questa lunga notte possano vedere l’alba!
Io che sono troppo impaziente, li precedo.»

Stefan Zweig

Terminata l’estate?
Forse mai iniziata per te
che pensi all’anno scorso…
tuo padre passeggiava sulla riva:
oggi si aggira come uno spettro…
vorresti leggesse libri di Elena Ferrante,
ti raccontasse altre storie del rione:
non le ricordi più?
Lei così lontana… sai poco della sua vita:
nuovi amori?
Non è passato tanto tempo e tu sfiori
boccoli biondi:
cosa rimarrà dello sguardo di ramarro?
Giornate accorciate
Come quella sera che Stefan Zweig
carezzò il suo cane, un biglietto
prima di coricarsi
riempiendosi di pastiglie per una lunga notte.

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Antonio Nazzaro e Eleonora Buselli

“Diario amoroso senza date” è il Fotoromanzo poetico di Antonio Nazzaro e Eleonora Buselli. Il libro entra nel diario intimo di una storia d’amore vera, “esposta”, consegnata alla fotografia professionale di Elisa Vettori, e a quella tipica dei selfie. Due diversi linguaggi si incontrano nella poesia di Antonio Nazzaro, scrittore  nato in Italia ma emigrato in America Latina.  La grafica e l’impaginazione è di Erica Demattè.

 

nell’amore il tempo è altro

***

che labbra avere
per i tuoi  baci d’infinito

***

ho un cuore
buttato al vento dell’amore
lanciato a volo nel precipizio
esploso al fragore di una carezza
spogliato al tuoanre di uno sguardo

ho un cuore
se lo vuoi

***

toglierti il vestito della notte
coprirti lentamente di radici
piegarsi gioioso di danza
rampicante
color cede al piacere

scalzo sale lento
le labbra ansanti parlano mille
lingue
appena inventate

radico in te
un cuore Continua a leggere

Franco Buffoni, “Betelgeuse e altre poesie scientifiche”

Franco Buffoni

IL NOSTRO ANTENATO PIU’ ANTICO

Sì è la presenza della bocca
E dell’intestino
Ad essenzialmente definirci
Come organismi bilaterali,
E’ l’Ikaria wariootia il nosto
Antenato più antico.
Ritrovato tra i fossili australiani
cinquecento milioni d’anni fa già presentava
Due aperture connesse da un tratto digerente
Il fronte e un retro.
Sono venuti pesci anfibi
Rettili e mammiferi.
Dunque anche noi.
L’Ikaria è un verme.
Noi, forse, un glitch.

ANTIMATERIA IN EXCELSIS

Uno dei misteri della fisica
È capire perché dopo il Big Bang
Sia caduta l’originale simmetria
Tra materia e antimateria,https://www.luigiasorrentino.it/wp-admin/media-upload.php?post_id=75313&type=image&TB_iframe=1
Perché abbia prevalso la materia
E dove l’antimateria sia finita,
Perché non vediamo le anti-stelle
E le anti-galassie.
Un’esigenza manifesta
Già nel Dante delle simmetrie
E della regolarità,
Neutrini e antineutrini
Come i beati del cielo della Luna
Rispetto a quelli del cielo di Saturno.

INTELLIGENZA ARTIFICIALE

AI si sa è una sigla
E quando lessi che prossimamente
Si procederà al primo esperimento
D’inserimento nel cervello umano
Di un dispositivo atto a consentire
Una forma di simbiosi,
Restai perplesso.
L’obiettivo, lessi ancora,
È di creare un’interfaccia cerebrale
Facendo in modo che i nostri neuroni
Siano collegati a un’estensione.
Questa volta condanno e con forza,
Pensai, finché non lessi che potrebbe
Compensare lesioni cerebrali
Consentendo ai paraplegici
Di tornare a camminare. Continua a leggere

La poesia limpida di Renato Minore

Di me due libri
soltanto due libri ti restano.
Verrò a prenderli
un giorno
e ti dirò che ho girato
il mondo confuso
nel tuo ricordo
e ho amato
tutto ciò che incontravo
per disperdermi:
e dirò
che mi hai rubato
Montale e il senno
in un giorno di sole.

 

**

Ci sono nella vita
lampi e coincidenze,
e tutto si chiarisce
si dipana a ferro di cavallo
e l’impresa, sappilo,
non vale il gemito
che pure s’alza.

Posso enumerare
l’intera questione
che capii quella sera
piangendo: nulla
e nulla sussisteva
nel mio conto di dadi,
le possibilità implodevano
su quel sorriso
che era il mio dolore,
la mia gabbia,
congettura o destino,
colpa o altro che non so,
combinazione o scherzo
o dono assai maligno.

Ogni cosa è in prestito,
anche il dolore.

**

Non ci sarà nessuno
perché nessuno può venire
non ci sarà
nessuno a ricordare.
La vedova piangerà
tutte le parole dette
per augurarti di non venire
a questo funerale
dove ora non può venire
e sarà ancora più incontenibile
nella sua furia rimorso rancore.
E nessuno potrà mai pensare
a nulla, le saranno sottratti
tutti gli elementi
di una misera storia
di impicci e star male
al mondo di cui in verità
si poteva fare a meno. Continua a leggere

La trilogia della Gualtieri nella collezione Teatro/Einaudi

Paesaggio con fratello rotto di Mariangela Gualtieri è una trilogia di spettacoli messi in scena dal Teatro Valdoca nel 2005 con la regia di Cesare Ronconi: Fango che diventa luce, Canto di ferro, A chi esita.

La trilogia è uno dei più grandi affreschi del Teatro Valdoca.

In Paesaggio c’è il ritratto, l’istantanea, di qualcosa di attuale e invisibile. C’è un dolore che sembra riguardare soprattutto l’occidente: la spaccatura micidiale fra noi e l’anima del mondo, quell’energia intuita e sempre tradita, che ci tiene vivi.

di Milo De Angelis

“Da tanti anni sono vicino alla Valdoca, da tanti anni sento un’affinità di cammino e passione… ora in questo Paesaggio con fratello rotto ritrovo, magnificamente espressi, i motivi essenziali che ricorrono fin dai primi tentativi del 1983… il senso di una domanda… un incalzare di domande… quella della Valdoca è una poesia interrogativa… piú vicina a Leopardi che a Montale… è una poesia di tremore e di urgenza… e qui nel Paesaggio la Geisha, la Ragazza Uccello, il Macellaio incarnano tutto questo chiedere brancolante. Continua a leggere

Una monografia su Matteo Bonsante

 

 

ESTRATTO 

L’analisi dell’opera letteraria di Matteo Bonsante ci consegna, volendo trarne delle considerazioni generali, un grande affresco storico-letterario che abbraccia, a ben vedere, il periodo di tempo che va dagli anni Ottanta del XX secolo alla prima decade del XXI. Volendo usare un’immagine rappresentativa di questo lungo processo artistico, si può dire che l’opera bonsantiana ci appare come un lieve panno su cui si adagiano, in un’ottica di corrispondenze, i piani differenti che compongono la realtà: raziocinio e intuizione, libertà e determinismo, al di qua e al di là – tutto si compenetra in una trama esistenziale sempre volta alla ricerca effettiva e mai soltanto abbozzata di una chiave di volta che possa, in definitiva, suggerire all’individuo (poeta o lettore, poco importa) non solo una riflessione estetica ed etica sulla vita, ma soprattutto una pratica dell’esistere e dell’essere al mondo.

A partire dalla prima opera, Bilico, e attraverso una progressiva acquisizione dei rapporti di interconnessione tra le diverse compagini della realtà – noumeno e fenomeno –, si può affermare che Bonsante abbia cercato di fornire alla sua poesia un materiale sempre vivo e magmatico col quale riscoprire, attimo dopo attimo, una genuinità del vivere in apparenza irraggiungibile. ‹‹A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino››, ha affermato Picasso in riferimento alla sua personale e costante ricerca della semplicità della linea – di una forma, cioè, che potesse riassorbirsi in sé stessa senza retorica e senza ostentazione mostrando, per l’appunto, quella genuinità geometrica di cui è composta la realtà. Specularmente, non sarebbe affatto un errore comparare questa stessa ricerca picassiana a quella di Matteo Bonsante, un poeta che sin dagli esordi ha cercato di scavalcare la parola in quanto forma artificiale spesso incapace di comunicare l’essenziale a vantaggio di una melodia, di una carica immaginifica che tenta il finito e l’infinito per potersi ri-trovare in uno spazio fuori da ogni tempo e da ogni condizionalità fisica, riassorbendosi e raggiungendo così l’essenziale e il genuino che è, poi, il vero obiettivo della sua ricerca. Continua a leggere

Francesca Serragnoli, “La quasi notte”

Francesca Serragnoli

Quando ero bambina
aprivo la finestra
sporgevo
volevo essere la rosa di qualcuno.

Nell’incavo dell’occhio l’acqua
intingi il dito, dicevano
portalo alla fronte
il triciclo della croce.

Un giorno da questa finestra
cadrà la mia vita
un tonfo lieve di palpebre
la bocca aperta
come alla prima comunione.

***

Nessuno mi vuole come madre
mi guardano e non parlano
con occhi celesti o marroni
battono le mani sulle ginocchia
e corrono scalzi
negli ingressi luminosi.

***

Vivrò ai margini di quel sorriso di neonato
come i signori che dormono in terra
con la vita tutta lì
poco più alta di un fiore

quel sorriso alato
poserà e alzerà la sua farfalla
come sotto al pesco
un’ombra matura
allungandosi
stacca la sua morte

il soffio nero del vento nel fogliame
doloroso delle mie viscere.*

*Gli ultimi due versi sono di Christophe Manon

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Antonella Sbuelz, “Chiedi a ogni goccia il mare”

Antonella Sbuelz

ONDE DI SUONO

Amavi ogni singola parola, ma
di un amore poco corrisposto.
Erano ponti minati i ponti
I punti fra sillabe e suoni, fra suoni e nomi
detti tutti interi.
La tua voce zoppicava in mezzo ai denti
spingendo fuori desideri muti, moncherini
di pensieri mutilati. Però non ti arrendevi.
Ritentavi. Radunavi risorse di fiato, indossavi
la tua dignità in una muta dolorosa.
Staccavi dalla sua buccia d’aria
la polpa del senso di ogni cosa. Ma
il tuo cuore ignorava la balbuzie,
e la matita quando disegnava
dava vita a ogni onda del suono:
versi di uccelli, nitriti dei cavalli, il rombo
di un’auto o un aeroplano.
E personaggi
dalla bocca muta.
Tacevano, ma dandosi la mano.

 

LA PAROLA TORNARE

Ma torneremo, dicevi
la parola era fragile. Tremava.
E forse rivedervi te bambina:
il vento si gonfiava in onde e nubi, i passi
dei profughi in fila
erano lenta conquista nella conquista
di un domani astratto
che prometteva la normalità.
È facile vederti anche da qui: calzette
bianche, scarpe impolverate,
le dita che tormentano,
una crosta sopra un ginocchio sbucciato.
La sovversione dell’infanzia
sta nel cucciolo che hai regalato
senza volerlo regalare: il suo miagolio
ti ha inseguito fino a farsi miagolio
di bora e mare.

Torneremo, dicevi. Torneremo.

E finalmente ieri sei tornata.
Ti abbiamo riportata di nascosto.
Se non profuga, di nuovo clandestina. Sopra
il tuo angolo d’Istria soffiava un vento gentile.
Il golfo pungeva di luce.
Sei scivolata in acqua con dolcezza:
un brivido di polveri leggere
dentro la sera che rabbrividiva.
E si è fermata la mano
che torturava il ginocchio.
La fila ha ripreso a marciare
verso un’idea di domani.
Il tuo gatto ha ripreso a miagolare.
Oltre il buio
che ci scopriva nudi,
si aprivano nuovi ritorni
nella parola tornare. Continua a leggere

A dieci anni dalla scomparsa di Zanzotto, due nuovi volumi sul poeta di Pieve di Soligo

Andrea Zanzotto

Nel centenario della nascita e a dieci dalla scomparsa di Andrea Zanzotto Mondadori pubblica due volumi sul grande poeta di Pieve di Soligo: Andrea Zanzotto, ERRATICI disperse e altre poesie (1937-2011) a cura di Francesco Carbognin e Andrea Zanzotto, TRADUZIONI TRAPIANTI IMITAZIONI a cura di Giuseppe Sandrini.

Il primo volume a cura di Carbognin, propone una serie di poesie di Andrea Zanzotto pubblicate in varie sedi tra il 1937 e il 2011 ma mai confluite nei suoi libri, testimonianze fedeli della vivacità e dell’operosità della sua officina poetica.

“L’esplorazione dell’archivio privato in cui il poeta spesso teneva traccia o a volte copia delle sue pubblicazioni occasionali, assieme alla esplorazione sistematica di annate di quotidiani e riviste, ha infatti consentito di espanderne il corpus di un centinaio di poesie, da quelle adolescenziali risalenti agli anni del liceo (1937-38), improntate a un sostanziale pascolismo psicologico, ai versi di impostazione civile (1946) legati agli eventi della Resistenza. Se le poesie successive delineano l’evolversi dell’esperienza poetica zanzottiana fino a quel primo acuminato vertice toccato da Vocativo , quelle degli anni Sessanta ne dilatano l’orizzonte del sapere e del dire tra classicismo, caustica ironia e inclinazione sperimentale, proiettandosi verso i grandi esiti di “La Beltà”. Ed eccoci poi alle prime e già mature ricognizioni in versi sul dialetto (precedenti l’edizione del poemetto “Filò” e la composizione dei testi per il “Casanova” di Federico Fellini), fino alle prove quanto mai varie degli ultimi decenni, quando il soggetto lirico zanzottiano «si diffrange identificandosi con gli enti minimali del paesaggio», o con gli indizi del suo «”accadere” nella pagina, esitante tra silenzi e “promesse” di senso».”

(Francesco Carbognin)

Il secondo volume, a cura di Giuseppe Sandrini penetra il vastissimo orizzonte culturale di Andrea Zanzotto, entrano grandi figure di epoche e letterature diverse, rispetto alle quali, fin dalla giovinezza, il poeta si impegna in un confronto attivo, in un lavoro di traduzione che preferisce definire “imitazione”. Si tratta, per usare un’altra sua efficace espressione, di “fantasie di avvicinamento”, di cui questo volume ci offre un nuovo e imprescindibile percorso, che parte dai primi abbozzi, condotti su testi di Hölderlin, Rimbaud e García Lorca, e include anche una ventina di versioni del tutto inedite, predisposte per un quaderno di traduzioni che non si realizzò. Continua a leggere

Rachel Bluwstein (1890-1931)

Da “Poesie” di Rachel Bluwstein, a cura di Sara Ferrari, Interno Poesia 2021

La prima antologia italiana interamente dedicata alla poetessa Rachel Bluwstein (1890-1931), nota al pubblico come Rachel, simbolo mai scalfito dal tempo del movimento pioneristico ebraico e madre fondatrice della tradizione poetica israeliana al femminile. Benché Rachel sia considerata una delle poetesse “nazionali” d’Israele, spesso nel corso dei decenni la sua opera è stata relegata a un ruolo minoritario, se non, addirittura, fraintesa. Soltanto di recente la critica ha saputo restituirle la giusta collocazione all’interno del canone poetico, mostrando l’intento rivoluzionario della sua scrittura. L’amore deluso, la nostalgia, la solitudine sono parte integrante dell’universo poetico di Rachel. Tuttavia, accanto a questo, troviamo una donna risoluta, consapevole della propria realtà, passionale e, soprattutto, dotata di un progetto poetico molto preciso.

Nella mia grande solitudine

Nella mia grande solitudine, una solitudine di animale ferito
ora dopo ora io giaccio. In silenzio.
La mia vigna l’ha spogliata il destino e non un solo rampollo è rimasto.
Ma il cuore, ormai vinto, ha perdonato.
Se davvero sono questi i miei ultimi giorni
voglio esser calma,
perché l’amarezza non intorbidi il quieto blu
del cielo, mio compagno di sempre.

*

Nelle notti senza sonno

Com’è fiacco il cuore nelle notti senza sonno,
nelle notti senza sonno com’è grave il giogo!
Stenderò allora la mano per recidere il filo,
per recidere il filo e finire?

Ma al mattino la luce, con la sua ala pura,
bussa silenziosa alla finestra della mia stanza.
Non stenderò la mano per recidere il filo.
Ancora un poco, cuore mio! Ancora un poco!

*

Espressione

Io conosco detti eleganti in abbondanza,
frasi fiorite a non finire
che camminano leziose,
lo sguardo arrogante.

Ma amo l’espressione pura come un neonato
e modesta come la polvere.
Conosco innumerevoli parole,
per questo io taccio.

Saprà il tuo orecchio cogliere, anche dal silenzio,
il mio umile parlare?
Saprai proteggerlo come un amico, un fratello,
come una madre in seno? Continua a leggere

Barbara Herzog, da “Nada más”

Barbara Herzog

Vuoi suggere
da ogni risposta
una goccia di anima
per assaporarla
abbracciarla
solo per questo
cavi sapere
da un sasso
e sì, per la tua voce
che bacia come
il vento gli steli d’erba

***

Quando intuisci
a poche sillabe
assurgi ciascuna
perché non puoi toccare
per colmare l’urgenza
ogni gemito accarezzato
nell’aria
non fa che acuire
la carnalità
del bisogno

***

Inutile arrovellamento
le risposte non sgorgano
da quel ruscello limpido
frastornante fino a
poco fa

ruvido palpare
per comprendere
dov’è finita la piena
sgorgano

***

Sublimare
è la parola d’ordine
dei decreti che
giocano al salto della corda

fortunata
colgo l’ispirazione
nell’inflessione delle parole
e costruisco

castelli sulle nuvole
se no
la mia pelle
sarebbe già avvizzita

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Mattia Tarantino, “L’età dell’uva”

Mattia Tarantino, credits ph. Antonio Verde

Vorrei conoscere il mondo dei morti,
reclamarlo in una lingua senza storia
che non abbia una grammatica, ma possa
avverare tutto ciò che si pronuncia.

Mi usano per parlare a chi è rimasto,
vogliono che dica, rovesciandola,
la parola che non hanno mai trovato

*

Dammi una parola
onesta, che risolva
la brevità del mondo e delle cose;

che sia oppure indeclinabile,
sospesa nella voce a stabilire
cos’è che dura e cosa non ha tempo.

*

Bruciasse l’alfabeto rimarrebbero
intatti i segni del tuo nome.

*

Vedi, non restano che i nostri
frutti sulla tavola:
mia madre che li sbuccia; i loro
nomi che pendono dall’orlo
e cadono tra il pavimento e l’invisibile.

Ora all’uva basta un soffio per marcire
in fretta e diventare una preghiera.

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Il ritmo feroce di “Piazzale senza nome”

Luigia Sorrentino credits ph. Angelo Nitti

L’esperienza del dolore in Piazzale senza nome 
di Fabrizio Fantoni

Con Piazzale senza nome (Collana Gialla Oro Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021) Luigia Sorrentino ci consegna una potente ricognizione dell’esperienza del dolore, vissuta attraverso il parallelismo tra la morte del vecchio e quella del giovane espresso dall’esergo tratto dai Fragmenta di Plutarco: “La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio.”

In questa citazione ritroviamo il nucleo tematico attorno al quale ruota l’opera poetica dell’autrice che si articola nella correlazione tra due antitesi – approdo-naufragio – in una continua alternanza di avvicinamenti e allontanamenti, sotto la spinta di una lingua che non lascia tregua al lettore, che si colora di scarti improvvisi e repentine accelerazioni, per poi attenuarsi in un andamento orizzontale, ampio, quasi a simulare il respiro universale di una grande fine.

Il morire della persona amata impone il voltarsi indietro, tornare alla terra del padre per evocare la vita segnata dalla sofferenza dei giovani conosciuti nell’adolescenza: la morte del vecchio decreta la fine di un tempo – “la beata, sfiorata giovinezza”– e comanda di dare voce al sangue versato, comprenderne la ragione, dare un nome al dolore.

 

Con Piazzale senza nome Luigia Sorrentino compie un viaggio di ritorno all’origine che si concretizza attraverso il ricordo di una generazione ferita dalla dipendenza e dal convincimento di avere la forza di potersene liberare: Posso smettere quando voglio. In tale certezza risiede l’inganno della giovinezza che porta al naufragio. Continua a leggere

Daniela Pericone, da “La dimora insonne”

Daniela Pericone, credits ph. Antonio Sollazzo

Restiamo nel folto
che inscena promesse,
l’incerto del bosco è sollievo
ai giorni che non salvano,
scavalco senza respiro perdite
e insonnie – siamo al culmine
o all’esordio della piena –
così d’ognuno la vita, solo
vorrei non dirla divisa
da queste mie mani, se esista
riparo o anneghi la pena
– sperperio, lingua che stenta
e frana anche l’aria.

***

I tuoi fogli, precisa
vaghezza, dimorano
assorti in radure.
Non si cura di loro
la sabbia, solerte ricopre
le rive – non c’è acqua
che basti ai deserti.

***

Tutto è compiuto
le carte dispiegate
contano torri, crolli
irredimibili, tuttavia
non vanisce il prodigio
che c’inventa e non duole –
così dev’essere non tradirsi,
contemplare ostinate
parole tiene unite le crepe.

***

La dimora insonne
consegue il suo silenzio
riposano le carte
mansuete – i suoi labirinti
sono roghi di penombra,
preludio d’ultimo
abbaglio, tenebrore. Continua a leggere

Il ritorno di Beppe Salvia

lettere musive io desto, ignote
cifre che compongono un fregio, tesse
una trama questo disegno, rete
di tessere in questo quadro crette
magia figura di regale soglia
oltre cui accedo ospite senza
credo ai sopiti luoghi della veglia,
voglio saper la meta e chiedo lenza
per il diniego trarre dal mare, le
fughe d’inospiti sirene l’ale
m’apprendono, volo ove è chiave chiara
di questi nodi di noci d’ardesia,
sale una savia siepe a dimorare
dove chiudon la corte due scalee.

*

A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m’hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m’insegna a vivere,
ma quasi senza vita, e a lavorare,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.

*

viva le lunghe ore della scuola
il banco celeste come il cielo
serviva a non guardare la lavagna
viva le povere ore di malinconia
viva quel tuo mugugno
viva la veste bianca e le bugie
viva la via deserta tutta
fiocchi bioccoli Continua a leggere

OIKOS, Poeti per il futuro

Oikos. Poeti per il futuro è un progetto poetico-civile dei Classici contro, vale a dire del gruppo di classicisti coordinati da Alberto Camerotto e Filippomaria Pontani (Università Ca’ Foscari di Venezia) che ormai da anni ripercorrono i testi degli autori grecolatini per parlare delle questioni più spinose del presente (l’immigrazione, la giustizia, la bellezza, l’Europa e così via).

Nel 2020 e 2021, il tema dei Classici contro è appunto OIKOS: l’ambiente, la natura, cioè la nostra casa comune.

Il progetto, tra le varie iniziative in cantiere, si traduce in un’antologia contenente 150 poeti contemporanei di molti Paesi del mondo (Oikos. Poeti per il futuro, a cura di Stefano Strazzabosco, Premessa di F. Pontani e A. Camerotto, Disegni di L. De Nicolo, Mimesis/Classici Contro n. 18, Milano-Udine 2020) e in una serie di azioni, tanto in linea come in presenza – quando possibile –, che fanno dialogare i poeti con classicisti, insegnanti e studenti di vari licei italiani.

L’antologia, di cui esiste anche un’edizione minore con una selezione di 80 autori, riunisce alcune tra le voci più significative della poesia contemporanea: per fare qualche esempio, si va dal grande autore marocchino-francese Tahar Ben Jelloun, che come altri ha scritto una poesia apposta per Oikos, alla poetessa beat statunitense Anne Waldman, che dedica il suo testo (anche questo inedito e scritto per l’antologia) all’amica Patti Smith; dagli israeliani Tsuriel Assaf, Sabina Messeg, Maya Weinberg, Adi Wolfson, Elad Zeret, rappresentanti di una eco-poesia che è stata tra le prime a dedicare attenzione ai temi ambientali, alle cinesi Ming Di, Jami Xu e Xiao Xiao; dalla vietnamita Nguyen Phan Qué Mai ai messicani Homero Aridjis, David Huerta, Blanca Luz Pulido; dai colombiani Rómulo Bustos Aguirre, Juan Manuel Roca, Ángela García, Yirama Castaño Güiza, Myriam Montoya, Armando Romero al croato Drazen Katunaric, i cechi Petr Kral ed Erik Ondrejicka, il finlandese Jouni Inkala, gli svedesi Lars Gustaf Andersson e Lasse Söderberg; e ancora, dal congolese Gabriel Okoundji al giapponese Goro Takano e gli statunitensi Bill Mohr, Robin Myers, John Taylor eccetera. Continua a leggere

Gabriella Musetti, da “Un buon uso della vita”

Gabriella Musetti

le storie sono all’inizio
tutte uguali
nasci da un ventre aperto
dal buio vedi la luce
ma subito la storia cambia
secondo il luogo lo status
il modo e l’accoglienza
non c’è una regola prescritta
uguale a tutti
ognuno trova a caso la sua stanza
chi bene – felice lui o lei – chi
con dolore

***

è morta questa mattina è morta
ma non si è accorta di morire
rideva come una bambina
su un prato in primavera
rideva anche di sera (e pure di mattina)
– s’è messa in salvo – qualcuno dice
volata via sopra una rondine
un po’ di soppiatto un po’ per avveduta
consolazione – la scelta unica rimasta
quasi sicura

***

era morta con la luna storta
era morta sopra un cuscino estraneo
di un vicino fuori della sua casa
come faceva a spiegare
a chi gliel’avesse chiesto
che era uscita in giardino
solo a fumare una sigaretta
scavalcata la finestra s’era trovata
nella casa buia decisa
a seguire il suo destino?

***

lei (invece) era morta di notte
tra le botte della sera e quelle del mattino
s’era sottratta all’impeto
alla colpa perfino alla desolazione
e la solitudine che la penetrava
non dava godimento alcuno

***

era morta mentre sedeva in classe
prima della lezione d’italiano
s’era spenta come una lampada
accasciata sullo sterno senza un sospiro
senza avvedersene
e anche i giovani entranti
la guardavano appena
come dormiente Continua a leggere

Odisseas Elitis, Poesie

Odisseas Elitis

Elena

Uccisa con la prima goccia della pioggia l’estate
Madide le parole un tempo madri a chiaro d’astri
Parole tutte destinate solo a Te!
Dove mai tenderemo le mani ora che il tempo non ci calcola più
Dove mai getteremo gli occhi oramai che le remote linee
hanno fatto naufragio nelle nubi
Ora che le tue palpebre sopra i nostri paesi sono chiuse
E siamo – come invasi dalla nebbia – soli
Soli assediati dalle tue sembianze morte.

Con la fronte sul vetro vegliamo il nuovo cruccio
Non è la morte che ci abbatterà se ci sei Tu
Se un vento altrove c’è che tutta intera ti vivrà
Ti vestirà da presso come la speranza nostra ti veste da lontano
Se altrove c’è
Una pianura verde di là dal tuo sorriso fino al sole
E gli confida che c’incontreremo ancora
Non è la morte che fronteggeremo no
Ma così breve goccia della pioggia d’autunno
Un sentimento torbido
L’odore della terra infradiciata nelle anime nostre che s’allontanano via via

Se non è la tua mano nella nostra
Se non è il sangue nostro nelle vene dei tuoi sogni O la luce nel cielo immacolato
E dentro noi la musica segreta – malinconica
Pellegrina di tutto ciò che ci tiene al mondo ancora
È quest’umido vento l’ora dell’autunno il distacco
L’amaro appoggio del cubito al ricordo
Che spunta quando già la notte sta per scinderci dal chiaro
Di là dalla finestra quadra
Che guarda sull’angoscia e nulla vede
Perché s’è fatta musica segreta vampa al focolare bàttito
dell’orologio grande alla parete
Perché s’è già cangiata
In poesia – verso su verso – in suono parallelo a pioggia lacrime parole
Altre parole eppure anch’esse destinate solo a Te!

*

La Passione

Salmo II

Lingua mi diedero greca,
povera casa sui lidi d’Omero.
La lingua mi fu l’unica cura sui lidi d’Omero.
Ivi la perca e il sarago
ventosi verbi
verdi correnti nell’azzurro
e ciò che vidi accendersi nei visceri
spugne, meduse
con le prime parole di Sirene
conchiglie rosa con le prime strie di nero.
La lingua mi fu l’unica cura con le prime strie di nero.
Ivi cotogne, melagrane
e bruni iddii, cugini e zii
l’olio che si vuotava nelle botti immense
aliti dalla correntìa fragranti
di giunco e di lentischio
di ginestra e di zenzero
coi primi zirli dei fringuelli;
salmodie dolci con i primi Gloria Patri.
La lingua mi fu l’unica cura con i primi Gloria Patri!
Ivi palme ed allori
l’incenso vaporante
benedicente spade e carabine.
Sul terreno – un ammanto di vigneti –
nidore, brindisi di uova
Cristo è risorto
coi primi botti degli spari greci.
Mistici amori con l’incipit dell’Inno.
La lingua mi fu l’unica cura con l’incipit dell’Inno!

Odisseas Elitis, Poesie, a cura di Filippomaria Pontani, traduzioni di Filippo Maria Pontani, Filippomaria Pontani e Nicola Crocetti, Crocetti/Feltrinelli.

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Carlo Carabba, da “La prima parte”

Carlo Carabba


a mio padre

Prenderò forse un giorno questo treno
su cui, da molto tempo,
non sarò più salito. Sempre
lo stesso viaggio, i monti da una parte
di là il mare. Non mi starai aspettando
a Pietrasanta dove ti vedevo
dallo scompartimento che fumavi.
Di solito però il treno era un altro
dalla stazione a casa
la camminata breve, il carico
leggero. Era Firenze
e i muri così grigi, e i tetti così chiusi
e l’Arno aperto. Sono in ritardo mangio
Il pranzo riscaldato chiacchieriamo,
e ogni parola tace
più di quanto non dice
costretta nello sforzo di coprire
la cadenza romana
che a Roma, spesso, accentuo,
la domenica guardiamo la partita
la vedo, normalmente,
sdraiato sul mio letto o sul divano
senza di te, lontano.
Il desiderio di essere a tua immagine
e somiglianza
l’amore, a volte l’odio la paura
d’esserti figlio sotto condizioni
riceverò il tuo affetto solamente
se ti sarò piaciuto.
Per te, forse, lo stesso.
Mi venivi a trovare da bambino:
era il giorno del primo dei ricordi,
siamo andati allo zoo, ridevi
e mi sporgevi verso
La vasca degli orsi polari –
qualcuno ci ha fatto una foto.
Con te portavi doni
giochi pupazzi e qualche scatto d’ira
che più tardi ho imitato. Noi a Firenze
ancora e adesso è notte, la cucina
la scopa a nove carte, tradizione
di famiglia giocasti
col nonno che ho conosciuto appena
la notte prima dell’operazione.
Parli della tua vita, va il mio sguardo
sulla tovaglia a quadri azzurri
e bianchi, ascolto la tua voce
che mi racconta storie, padre a figlio.

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Enrico Fraccacreta, “I cigni neri”

Racconta che era venuto al mondo
con le prime luci delle lampade cimiteriali,
si era dimenticato dell’infanzia
delle voragini dentro casa,
il sole che si eclissava dietro i vicoli
sparito, remoto in lontananza
era l’alba dei suoi sotterranei.
Un sole che non muore mai
un pulviscolo pieno di troppe informazioni
confuse, affollate nella testa
impedivano la giusta direzione del raggio netto
per rispondere alla sua ragazza
impegnata dall’altra parte del mondo
a parlare con la luna.
Ecco perché pur volendoci bene
non ci siamo mai incontrati,
dice Antonio mentre innestiamo i cedri,
lo spacco sulla gemma laterale
una mano col coltello per aria
e l’altra che trema sulla corteccia nuda.

*

Adesso nel giardino le file sono diventate quattro,
lì in mezzo ripassava la vita degli insetti
pezzi di botanica sistematica che estrae dalla memoria
mentre risponde alla domanda sulla storia evolutiva
una storia che comincia con le alghe e i licheni,
non vuole commettere l’errore delle felci
mai adattate per la dipendenza dall’acqua,
lui vuole diventare come i ranuncoli
che stanno dappertutto nel paesaggio
e la terra per loro è un’officina
dove si forgiano altre specie
per nuovi ambienti da conquistare.
Ma inciampa per un attimo sulla campanula garganica
e la sua compagna di colori, l’orchidea quadripuntata,
rammenta che la spinacristi è l’unico arbusto
rispettato dalle bestie.
Nell’atteso mattino dell’esame il futuro resta presente
e parla immaginando gli amici del giardino.
Lì hanno tutti quasi smesso di respirare,
la farfalla nera gennarino è in preghiera
con le ali chiuse
ondeggia sulla clivia che ha interrotto la fioritura,
insieme aspettano il verdetto
stretti e incombenti sull’unico straniero
il ginepro fenicio portato dalla baia di Manacore.
Attendono in silenzio il gioioso ingresso
il cancello in fondo aperto verso le grandi euforbie
l’origine, le eroiche colonizzatrici della terraferma
le prime piante della vittoria.

*

A marzo sottoterra si organizzano
rizomi e stolonifere, spingono
dietro le gallerie delle talpe,
il cardo selvatico avrebbe fatto inciampare i soldati,
il respiro dell’alisso da quando sei arrivato
serve come il glicine d’aprile
a risvegliare il mondo
e le grandi corolle dei girasoli
voltate dietro te come telegrafi di terra
per dire quello che non sapemmo dirci
tutte le volte che i cuori non corsero abbastanza
e non fummo sorpresi dall’aroma
della tua misericordia.

La primula è la più ansiosa
è da febbraio che ti saluta,
i fiori nei mandorleti azzardano la schiusa
tra le ferite delle valli mezzo innevate.
Nel tempo dell’attesa
pure l’albero di Giuda con la fretta
fiorisce sui rami prima delle foglie.
Da quando sei arrivato
è il terzo millennio da queste parti,
settecentomila inizi di primavere
vogliono ancora salutarti. Continua a leggere

Rebora, sulle orme di Dante

Clemente Rebora e Dante

Roberto Cicala con questo libro ci presenta una serie di sorprendenti inediti danteschi di Clemente Rebora, grande studioso del Sommo Poeta.

Nel volume Cicala come un archeologo, riprende e riporta in luce tutta una serie di appunti, riflessioni e postille di Rebora alla Commedia (segnate in matita rossa per indicare la grazia e blu per evidenziate il peccato) e un intero ciclo di lezioni tenute da Rebora a Milano nel 1929, l’anno della sua conversione.

Un libro unico che ci fa comprendere quanto Dante abbia influenzato Rebora e con lui, intere generazioni di poeti, fino a oggi, e, a quanto pare, l’anniversario dantesco non ha mai prima d’oggi messo in luce le lezioni inedite di Rebora, uno dei maggiori poeti del Novecento, “maestro in ombra” di poeti quali Eugenio Montale e Pier Paolo Pasolini.

Gli inediti sono notevoli, per esempio sul passaggio – per Rebora autobiografico – dal «folle volo» di Ulisse all’«alto volo» della malattia mistica che l’ha portato alla morte a Stresa, il 1° novembre del 1957.

E proprio il primo novembre di quest’anno alle 16:00, nell’anniversario della morte di Rebora a Stresa, sulla sua tomba ci sarà un reading musicale per onorare la sua memoria, a  partire dal libro di Roberto Cicala Da eterna poesia (il Mulino, 2021) con musica di Roberto Bassa letture di Roberto Sbaratto introduzione di padre Ludovico Gadaleta Interviene l’autore

Il volume esce in libreria a fine ottobre 2021.

(Luigia Sorrentino)

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ROBERTO CICALA
Da eterna poesia
Un poeta sulle orme di Dante: Clemente Rebora (Il Mulino, 2021)
Presentazione di Alberto Casadei

 

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Giorgio Agamben, “Quando la casa brucia”

Giorgio Agamben

 

 

Zajin

 

 

E che compie questa esperienza della parola, chi è, in questo senso, poeta e non soltanto lettore della sua parola, ne scorge la segnatura in ogni minimo fatto, ne testimonia in ogni evento in ogni circostanza, senza arroganza né enfasi, Come se percepissi con chiarezza che tutto ciò che gli capita, commisurato all’annuncio, depone ogni estraneità e ogni potere, gli è più intimo e, insieme, remoto.

 

 

Lamed

 

Il campo del linguaggio è il luogo di un conflitto incessante fra la parola e la lingua, l’idioma e la grammatica. Occorre liberarsi dal pregiudizio secondo cui la parola sarebbe una messa in opera, una diligente applicazione della lingua, quasi che questa presi stesse da qualche parte come una realtà sostanziale e come se, per parlare, dovessimo ogni volta aprire una grammatica o consultare un dizionario. E’ evidente che la lingua esiste solo nell’uso. Che cos’è, allora, quest’uso, se non può essere un’esecuzione fedele e obbediente della lingua, ma, al contrario, un venire a capo di essa-o, piuttosto, dei suoi guardiani, dentro e fuori di noi, che vegliano e che ciò che ci diciamo sia ogni volta ricondotto alla forma e all’identità di una lingua?

Ajin

I nomi non dicono le cose: le chiamano nell’aperto, le custodiscono nel loro apparire. Le proposizioni non veicolano un messaggio: l’essere-La-neve-bianca non è il contenuto della proposizione: “La neve è bianca”, che noi non pronunciamo mai in questo modo neutrale. L’esser-la-neve-bianca è il suo improvviso, gioioso, immacolato apparire allo sguardo in un mattino invernale. E’ un evento, non un fatto.

Nei nomi e nelle proposizioni noi andiamo aldilà dei nomi e delle proposizioni, fino al punto in cui le cose ci appaiono per un istante senza nome nel loro aver nome, indelibate nel loro esser dette, come un dio sensibile e sconosciuto. Continua a leggere

Ilaria Pacelli, da “L’alfabeto del buio”

Ilaria Pacelli

Alba d’inverno

Mi hai fatta nascere in gennaio
e ne porto in sorte i fiumi ghiacciati al posto
delle vene. Chi si avvicina sa il brivido
e il bene che arriva dal freddo.

Gli occhi che hanno perso l’azzurro
dal mare sono ridiventati mare, dell’onda
portano la risacca monotona
senza il suono di una parola.

Adesso che nel tuo corpo è sempre
inverno, a me non resta che tenermi
a quel filo sottile che unisce il sorriso
alle viole spuntate sopra i fossi.

Non c’è più l’urgenza di lottare, abbandonati
all’aria come bambini sull’aia. Lascia a noi,
anime affannate, che ogni gesto sia
una battaglia con la forza di gravità.

Tutto quello che importa
si conserva in un gheriglio di noce.
Adesso è notte, ma resiste la luce dell’alba.

 

La voce

Mia madre non parla più.
Le corde vocali non sostengono la voce.
Di tanti, un tempo vicini, non si sente più la voce
e questo, in fondo, è parte della nostra felicità.

Perché stride quando arriva diretta, la preferisco
portata dal polline, dal vento, dal vapore.
Arriva lieve come una tortora, si posa
sulla spalla, sussurra un nome, torna al cielo.

Promette che è vero ciò che accenna
aggiunge un indizio, un segno di penna
a questo giorno che impara ad andare
oltre la sera.

Sul cellulare leggo “Madre massacrata dall’ex davanti
al figlio di cinque anni” “ti può interessare?”.
Arriva sinistra come un corvo si posa sulla spalla, emette un verso, torna alla terra.
Decreta che è vero ciò che esibisce.
Ma io credo solo nel silenzio di quello
che muore, e fingo per me un fiore reciso,
rosso, sul comodino.

 

Suoni per una malattia

In assenza di parola, mi attengo
a semplici suoni. Li ascolto.
Gli asciugamani piegati, l’acqua
all’orlo, la tapparella in linea.

E giù, giù in piedi nel tempo
ad accogliere cenni, farne una gerla.
Osservo la tua vita, la stessa vita
cruda delle viole. Grazia e cura

la custodiscono, con la luce fanno
un paradiso in terra. Una brezza a stento
percepita porta la notte, e la confidenza
che hai con le tenebre ti fa bella.

Per bellezza ti prego, anche se è tardi:
insegnami come si fa nel buio a baciare il dolore.
Io che da tempo avrei dovuto imparare
come si sta in bilico sull’orlo dell’abisso,

sulla soglia di casa quando saluto, presi
dalla luce del giorno, mio figlio
il padre, di suo padre la stessa ombra
e mi trovo ancora a schivare la luce.

Estratti da : La parola del buio, con immagini di Dario Massi (LietoColle, 2020) Continua a leggere

Dimitri Milleri, da “Sistemi”

Dimitri Milleri

La sala d’aspetto
era un luogo di mimesi involontaria.
Era un silenzio privo di telefoni,
composto di frammenti: gesti usuali
in miniatura, archetipi di sedie
gerani immobili.
Nulla giungeva allo stato solido, violenta
era la forza di gravità in ogni volto,
irrefrenabile
la volontà di divinarla.

Quando non ci fu più distanza
fra esterno e interno
tutto si fece angusto, angusto e scomodo:
leggings a pois, riviste e prescrizioni
volevano restare corpi estranei.

Qualcuno poi spaccò la confluenza
con mosse improvvisate, gentilezze
dovute.
Bisognava essere buoni.

***

L’ipermnesia colpisce prima il cuore,
le statue degli affetti come fiori
finti nei cimiteri
le miniature esatte del vissuto.

Si perde il filo, tanto è quel nitore:
si dice mucchio di spire
che un corpo fa dormendo
terra magra,
rosso degli occhi chiusi.

Eppure, guardala nel troppo dei ricordi
la matassa di nomi battuti a pioggia, la spranga
ferruginosa, la data, la ricorrenza
che il disperdono fisso non arretra.

***

Se il vento muore la retta del mare
collassa e si provano tutte, ma resta
fisso comunque l’interno dell’occhio-mare.
Fra le stagioni si apre una distanza
come fra caste, il server fa le lucciole
tutto d’un colpo nel maggese, i forasacchi
dentro le orecchie dei cani.
L’estate
cade dal cielo come un’overdose.

Se il vento muore si provano tutte, ma resta
comunque fisso l’interno dell’occhio-mare.

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Alessandro Bellasio, “Monade”

Alessandro Bellasio

NELL’AMBRA

Sepolti
sotto queste bende, dove
il nostro odio
tende il filo
e si fa pensiero, verklärte Nacht
di un mercurio strano
che ci divora con i suoi granelli, una
pioggia
leggera e già inalata, che anche tu
misurasti a morte con il tuo respiro:
sei nell’ambra.

«Due grammi
di astinenza mutano
la mente in una torcia, scavano
con unghie vuote
dentro il sonno, e tu
sotterrato il lume
ti scopri da te stesso arato».

Gli occhi, talvolta, hanno mani,
entrano nei faggi
radunandone i magneti
mappano
la struttura del vento.

Una vertigine, perenne,
scendendo dalla macchina
spegne i fari, avvicinandosi
con un solo passo
mi sussurra

Non avrò
in questa vita mai
altra gioia
all’infuori di te

LITIO

Un luogo azzerato è l’ora
dove abbiamo respirato cenere, la
polvere, finissima,
di queste esalazioni
tra cui vivremo piano e cancellati… Avvolti
nella strana calma
di un sussulto, dove le sostanze
agiscono radiali, diventano sentenza
dipinta e improvvisa
nello stridio di noi: ecco,
da un alto giorno, venirci incontro
i nostri sensi
inginocchiàti, dentro il niente,
nei patriarchi – qui,
riversi sui giornali,
dove capiamo a stento il nostro esistere,
l’interludio, perenne,
di notizie e scorie
che vi crivellano civili
con i kalashnikov, gli F16.

Scocca
da lontano questo colpo, e
si alza sopra i legni
dove sbatte respirando
nel niente degli uomini, mentre
un urlo
pende dal soffitto, sempre
più preciso sempre
più vicino, squarciandosi la gota… Altri
cieli, poi, lunghissime
incursioni dentro la radice,
tra le raffiche – il soffio
di nessun ossigeno
in volo verso il paradiso, quando
punta il freddo
che vive nelle docce, l’attimo
che vi attraversa
senza generarsi, fino
al giorno del giudizio,
finché sia l’ergastolo
di ogni cellula e dei secoli
e l’universo torni
nel suo principio immobile.

Estratti da “Monade“, di Alessandro Bellasio (L’arcolaio, 2021)

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