Riccardo Frolloni, “Corpo striato”

Riccardo Frolloni

sogni I

 

Era lungo la scarpata e i massi e la merda delle vacche
e procedeva bene, a passo svelto, diritto di schiena, nell’aria

leggera della montagna, ognuno attento ai propri piedi
col sudore sotto la camicia e il fiatone, il mal di gola,
nel sonno devo aver perduto la coperta, slabbrato il pigiama
o dimenticato una finestra aperta, così uno spiffero,
un rumore dal fondo delle campagne s’intrufola,
diventa subito un fischio, mio padre già in cima
del primo promontorio, ce ne sarà poi un altro
e un altro ancora, ma neanche una parola, aveva il volto
sereno, da uomo, mi ammoniva di salire, di darmi
un tono, ma io arrancavo, passavo da altre parti, lo perdevo,

lentamente gli altri scomparivano nelle nuvole
o dietro ai sassi, io pure mi facevo più bianco con la pelle
fredda di sudore, mi dicevo non svenire ora, resta sveglio, svegliati.

 

*

 

movimenti I

 

Ci fecero uscire tutti dopo l’ultimo sguardo,
non avevo mai visto il giardino così, la gente

stava in piedi dappertutto, guardavano noi
mezzi scemi, rimbambiti dal piangere, allora

davvero qualcosa era accaduto: prima
la macchia, il cielo, i pioppi intorno, gli stessi.

C’era mia sorella ad aspettarmi e con un respiro
raccolsi tutta l’aria di casa, ed era ancora casa.

 

*

 

 

materiali II

Chi riconosce l’aria della neve
porta guanti di cuoio alle mani
e si passa legna dietro casa,

non ci si dice molto perché
non c’è molto da dire, ogni volta
è come se ci inseguisse qualcosa

le macchine passano per strada
ma più veloci, più sole, trasparenti,
subito rientriamo, odore di polenta,

ci precede un vento che sappiamo
ha il sapore ferroso delle ferite, perché
senza dircelo lo aspettiamo.

 

Riccardo Frolloni, Corpo striato, prefazione di Stefano Colangelo, Industria & Letteratura, 2021

 

 

 

Dalla prefazione di Stefano Colangelo

 

L’ultima parola che il lettore incontrerà nella nota di chiusura di questo libro, prima di chiuderlo e di rimeditarlo come si deve, è «crisma». Una parola che posso legare facilmente a Riccardo Frolloni, perché l’ho letta per la prima volta nel titolo della sua tesi di laurea, dedicata al Magma di Mario Luzi: La parola come crisma. Una parola che avevo sempre sentito lontana, come in un tema separatamente enunciato, come in una bolla sottratta alla traiettoria materiale del mio tempo. Una parola che qui sembra riassumere, invece, due idee di fondo: prima, l’idea dell’olio profumato, dell’unguento, del balsamo di cura, conservato in un vetro fragilissimo di fronte alla violenza di un mondo di fango. Poi, anche l’idea dell’unzione, del gesto ultimativo, del viatico: tu, ora che hai intrapreso quel viaggio che ti stacca definitivamente da noi, ti ricongiungi a quella tua strana prossimità irraggiungibile, che nessuno avrebbe potuto intuire in te vivo; e così torni — prima di tanti di noi, e molto prima del tempo che ci aspettavamo — nel posto da dove non sei mai veramente partito. E noi restiamo a desiderare, come scrisse Philip Larkin in un verso per suo padre, «il dono del tuo coraggio e della tua indifferenza». Queste poesie, che adesso separano ancora il lettore da quell’ultima parola, e che tra poco lo condurranno fino a quel punto, sono il percorso che perde più volte — e poi riconquista — una direzione, un orientamento, come in una camminata fatta senza coordinate, per istinto, nell’inganno feroce della sua storia.

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