Gian Giacomo Menon, Poesie

Gian Giacomo Menon, foto d’archivio

geologia di silenzi
il mare fermato nelle conchiglie
i fuochi nella terra
anni o secoli il tempo della nostra pietà

***

l’altrove dei giorni
pozzi di erba nessuno specchio di luna
ed era ieri l’incontro di carissime mani
palestra della mia forza per cortili obbligati
campo liberato di passeri

***

scambiati zodiaci
sostituite corde del cielo
è passata una luna ebra di danza
tagliente nelle sue falci
verde scarlatta candida rigata di nero
un’altra luna è venuta
giusta nelle sue gobbe absidi e nodi
rotonda di stupori
bilancia di giusto mezzo
bere i suoi chiari silenzi

***

terra lenta dell’erpice
fatiche di una vita
si scardina il sasso dalla zolla
nello spavento della locusta
invidia di più forti ali
e l’erba resta sospesa nel vento
questa stagione di prove
non si appoggia a stelle matematiche
impotenti nei giri assegnati
contro il caldo furore del sangue
che tira il grido dalla sua parte
e ogni perdizione
non confondermi nell’istante della resa
non giudicarmi se l’occhio si fa vetro
sulla parete offesa dalla rinuncia
tutto umano è il piede
che incontra il suo ostacolo
il braccio che decide di abbassare lo scudo

***

nido del sagittario
un grillo ha cantato
non più di un bisbiglio
nella pena dell’essere

***

tagliarti a metà frutto di luna
nella tua pietra
oltre la scorza azzurra
luce rubata alla pelle
non credere alle parole
rimbalzate dai miei silenzi
mi pesa nella mano il tuo seme
svelato da una lama di vento

***

non chiedere il cedro alle colombe
alta coppa di venti prima dell’autunno
mutevole stagione dell’occhio
dove le ciglia resistono alla palpebra
peso di amare lumache
rugiada di ombre sotto le uve
soli convulsi sfrangiano la pelle delle foglie
il primo tralcio caduto stride al passo del carro

***

non sorprenderti amore
se qui è stanco il cavallo
se qui è siepe e pozzanghera
non sorprenderti amore
se qui il cavallo non supera ostacoli
se qui bassa coda e criniera
si ferma e nitrisce le greppie svuotate
e batte piano il suo zoccolo

***

averti come i lunghi odori della terra
nell’alba degli aratri
quando l’allodola scrive la sua prima parola
come il fresco sapore del pane
quando la falce riposa all’ombra dei gelsi
averti intatta nell’infanzia
quando il campanile divide
il giorno della locusta dal giorno del grillo
a tessere i soli e le stelle

***

io so la figura
ed è ape e gheriglio
mio immobile tempo
non casuale di occhi
saltuario di labbra
dove termina il gioco
l’alienarsi delle mattine
fruizione di stanche maschere
e noi a pesare l’essenza
le bilance alchemiche
mercurio e fuoco zolfo e sale
misurati sulla tua pelle

***

la solitudine dentro gli occhi
e tu fermavi le lune
io le volevo nel fondo
e si compisse la legge e il deserto
i rovi macerati dal vento
le pietre spaccate
e quelli che cercano l’acqua
e restano arsi all’orlo dell’uomo
oscuro pozzo di fango

***

solitudini dimenticate dal tempo
oggetti di fredda forma
ritagliati nel niente
e l’uomo si dissolve
puro di trascendenze
un cuore sotto vetro
tu a percuotermi in foglia
inesatto di linfe
restituito alla terra
dove appari imprevista
casuale di labbra e di mani

***

la pioggia ha lavato la pietra
le artemisie bruciate
nessuno ritorna alle terre rosse
l’assenza è un nido ferito
e il lepre* è stanco di affidare alla luna
il nome della sua pena

***

libertà dalla pioggia e dal vento
quando la parola non è foglia
pietra articolata di silenzi
un solo nome la scrive
che nessun occhio decifra
nessun labbro ripete

***

l’acqua più amara dei covoni
roste per guanti nudi
innocenza di trappole
immergersi dentro la luna
cognizione del fondo
i covili del pesce
e tu lenta come una tinca
più scaltra del luccio
eludi le reti e la lenza

***

con te mia piccola terra
con te mia piccola terra piccoli campi piccolo fiume
piccola casa piccolo monte con te dove sono nato
piccola vita piccolo uomo con te e sarà piccolo il mio
luogo di te oh sarà breve il mio luogo corta
pietra corte radici corta erba che cresce in
soli non miei

***

mia terra vengo
mia terra vengo mia terra e tu madre mi attendi
tu erba mi copri tu cielo sei alto e lontano oh
mia terra odiata ed amata mia terra dove è
l’amore questo amore cattivo che mi esalta felice
che mi uccide con spade

***

mio amore mia terra
mio amore mia terra mi penetri spada e radice
erba nera sopra di me scura parola dentro di
me

***

dirò la morte
dirò la morte griderò l’amore vi chiamerò mie
spade ah spade d’amore di morte oh mie
spade felici mio anno felice miei giorni felici

 

[Lepre in friulano (gneur) è maschile]

 

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Appunti sulla poetica di G.G. Menon

di Cesare Sartori

 

Una produzione letteraria sterminata e imponente, per quantità e invenzione verbale; un estremismo linguistico e concettuale; un’esperienza poetica radicale; una desolata testimonianza esistenziale; una rarefatta e sofferta marginalità; il certificato anagrafico in versi di una disperata solitudine: ecco in sintesi l’identikit del professore-poeta Gian Giacomo Menon (1910-2000). In un appunto manoscritto del 1997, quando cioè aveva 87 anni, Menon precisa di aver scritto nella sua vita oltre 100mila poesie, ben più di un milione di versi. E quasi tutto inedito.

Non intonerò un epinicio alla sua poesia né farò il piazzista dei suoi versi. La poesia è come l’amore: un mistero. L’amore, se il corpo non ne è invaso, niente può accenderlo. Così la poesia: se quei versi che stai leggendo o ascoltando non ti (ri)suonano dentro come un’eco, non ti cantano nel cuore e nella mente, niente può far sì che ciò avvenga. Un’accurata esegesi critica può farti capire meglio, non amare. Quindi mi limiterò a fornire qualche spunto di riflessione: poi ogni lettore dovrà inoltrarsi da solo, magari perdendosi a suo rischio e pericolo, nella giungla sconfinata della poesia menoniana.

 

La lezione di Mallarmé…

Menon si inserisce a pieno titolo in quella che George Steiner considera «una delle poche rivoluzioni autentiche dello spirito nella storia occidentale» e cioè la rottura – avvenuta più o meno tra il 1870 e il 1930 – del patto di significazione, del contratto fra parola e mondo, la perdita cioè di quella condizione che durava dai tempi dei sumeri e dei pre-socratici e che aveva fino ad allora consentito una definizione tautologica del reale: albero significava albero, stella stella, sedia sedia, spada spada, eccetera.

Come in precedenza era stato per Mallarmé, anche per Menon venne il tempo dell’epi-logo (parola che ancora una volta ospita il logos): anche Menon infatti si convince di stare scrivendo nel tempo del dopo-Parola, dell’α-Logos (alfa privativo), nel tempo cioè nel quale compito inderogabile del poeta è quello di ricuperare «la purezza delle parole macchiate dalla tribù». Essendosi la lingua pubblica rovinata e come calcificata, essendo diventata impermeabile alla ‘nuova vita’, ripetitiva e infetta da menzogne che rendono banali le profondità dell’esperienza interiore, quelle parole ‘pubbliche’ che il poeta si ritrova per le mani già malamente usate, quella crosta ‘pubblica’ del linguaggio dev’essere squarciata. Soltanto così il nucleo subconscio, anarchico ma vitale e autentico dell’individuo privato, potrà trovare la voce. Soltanto così, con quella rottura così radicale, il discorso umano potrà ritrovare quell’aura, quella creatività metaforica illimitata che è inerente alle origini del logos.

Il tempo dell’epi-logo è sì l’aprés Mallarmé, ma a sua volta diventa prefazione di nuovi inizi: da lì in poi la verità della parola è l’assenza, la trasfigurazione, la cifratura del mondo. La «mossa del cavallo» o il «salto del salmone» che dir si voglia compiuti da Mallarmé instaurano un nichilismo ontologico per cui il linguaggio e la realtà vengono radicalmente separati: casa non significa più casa, biancospino non significa più biancospino (ma per esempio, per Menon, la donna accucciata che si fa il bidè). Menon invece nel suo modo di fare poesia supera anche la lezione di Mallarmé: quel linguaggio che sembra ontologicamente vuoto, in realtà è ontologicamente pieno anche se arbitrario, ermetico ed enigmatico.

 

…e il suo superamento

C’è una evidente evoluzione stilistica nella scrittura poetica di Menon, un prima e un dopo segnati da un momento-chiave: il 1957. Fino a quella data la sua è una poesia ascrivibile grosso modo all’ampio e rassicurante settore del realismo. A 47 anni, come Le grillon di Claris de Florian che «pour vivre heureux, vive caché», Menon decide di mettere in pratica l’esortazione epicurea del «Λάθε βιώσας» e si isola dal mondo: basta con le feste, i veglioni, i circoli culturali, la vita di società. Da quell’anno uscirà di casa soltanto per andare a insegnare o per inseguire i suoi giovani amori. Per il resto non farà altro che scrivere, copiosamente e furiosamente, fino alla fine dei suoi giorni. Anche per Menon come per Jiří Orten, il poeta praghese dal tragico destino, la poesia era «il suo mondo, la sua speranza, la sua fede: scrivere, scrivere fino al termine estremo». I suoi versi costituiscono a tutti gli effetti il certificato anagrafico della sua solitudine.

Dopo di allora, avendo lui preso la decisione di isolarsi e assentarsi dal mondo e dalla società, ne consegue anche necessariamente il suo esilio dal linguaggio del mondo. Quindi il suo linguaggio si fa generalmente e prevalentemente metonimico, metaforico, allusivo. Ma a volte assolutamente scoperto e trasparente: non confondermi nell’istante della resa / non giudicarmi se l’occhio si fa vetro / sulla parete offesa dalla rinuncia / tutto umano è il piede / che incontra il suo ostacolo / il braccio che decide di abbassare lo scudo.

In conseguenza della sua scelta esistenziale, Menon si vede quindi costretto, obbligato a crearsi un proprio linguaggio per descrivere il mondo, i ricordi, la vita: un’impresa titanica che lo ha impegnato fino all’ultimo fiato di vita. Ha quindi trasferito il mondo in un suo universo metaforico e metonimico, ha separato l’ordine semantico da quello sintattico procedendo per accumulo di immagini e per cifratura di elementi. La sua poesia non parla delle cose, degli aspetti o delle figure del mondo, ma è essa stessa «la cosa», l’accadere del mondo, il flusso inarrestabile dell’evento; è memoria e mondo insieme. Ma non lo sosteneva già Aristotele che l’uomo è una «creatura delle parole», uno ζῶον λόγον ἔχον? Il logos è la parola che crea il proprio contenuto.
Menon nella sua poesia e con la sua poesia è stato esploratore e rivoluzionario della parola. Un buongustaio delle parole, «innamorato del sapore e del bagliore della vita incandescente delle parole»; lui, le parole, era come se «se le passasse sulla lingua come fa chi assaggia il vino di un’annata rara». La sua poesia è «un groviglio apparentemente insensato, un arbusto che geme nel vento o il lampo incerto che ritroviamo a fatica, a volte con pena altre con felicità, nel brulichio della memoria. Non restano una storia, una figura, un oggetto, ma soltanto il fluire di una vena, l’incanto di una voce».

 

Metafore, metonimie, travestimenti, tradimenti…

«Della mia poesia – ha annotato Menon nell’ottobre 1997 – non bisogna preoccuparsi dei contenuti né dei messaggi o dei racconti, ma di strutturazione delle parole, dei ritmi, degli incastri, degli accostamenti, travestimenti, tradimenti». E l’anno seguente puntualizza: «[La mia poesia è] tutta basata sul ricordo, sulla memoria e sulla trasfigurazione simbolica della realtà» e ne fissa le caratteristiche fondamentali: «Prosodia, metonimia (la figura retorica principale delle mie poesie, una parola per dire altro, una parola simbolo di altro), simbolismo, nominalismo, scomposizione». E ancora: «Il valore dei simboli – scrive in un appunto del giugno 1997 – non è fisso, costante; i simboli hanno valore diverso nei diversi contesti e (…) può riferirsi, si riferisce a cose a situazioni a episodi diversi, non bisogna lasciarsi ingannare dalla stessa parola, simbolo di cose diverse che si riferisce a cose diverse». Quindi, leggendo i versi di Menon, non ha molto senso interrogarsi sul reale significato delle parole, delle immagini, delle metafore. A coloro che chiedono una traduzione in chiaro della parola cifrata, ricordo che anche i grandi maestri zen negavano qualsiasi chiarimento o spiegazione dei loro mantra astratti agli ansiosi e reverenti interrogativi degli adepti.
E anche se la sua poesia a molti non piace, di Menon mi sento di dire, parafrasando Eliot (si parva licet ecc. ecc.), che è stato tra i «migliori fabbri» della parola, un eccellente artigiano del logos, un sopraffino orafo del linguaggio, un prestidigitatore del lessico; le sue poesie sono musica per le orecchie (per le mie almeno), carne che canta. Ha scritto Antonio Gnoli a proposito di Zanzotto (al quale mi permetto di accostare Menon) che «la poesia più intensa è povera di cose e di cose povere si compone. Non insegna, non ammonisce, non indica la strada, né suggerisce soluzioni. Essa è la magica forza del vuoto [il Nulla di Menon], impossibile da fissare». «Siamo – ha scritto Zanzotto – come sospesi tra necessità e finzione. La poesia è la sola lingua che insegna a dialogare con la lontananza e la solitudine. La poesia è ferita e farmaco insieme». E poi, non è forse vero che «i più disperati sono i canti più belli» (Alfred de Musset)? 

[info su: www.giangiacomomenon.it]

[contatti: info@giangiacomomenon.it] 

Bibliografia di Gian Giacomo Menon

il nottivago – versi liberi, edizione di «Pagine blu», Milano 1930
Diciassette poesie, «La Fiera Letteraria», a. XLI, n. 32, 18 agosto 1966
Poesie inedite 1968-1969, Nino Aragno editore, Torino 2013
Qui  per me ora blu – Una vita per la poesia (1910-2000), KappaVu, Udine 2013, con un cd di poesie musicate
Poesie per James Dashow, «Anterem», VI serie, a. 39, n. 89, 2° semestre 2014
Ventotto poesie, «Poesia», a. XXVII, n. 298, novembre 2014
Diciannove poesie, «Atelier», a. XX, n. 79, settembre 2015
Poesie scelte, «Anterem», VI serie, a. 42, n. 95, 2° semestre 2017
non più di un bisbiglio nella pena dell’essere, edizioni pulcinoelefante, Osnago, dicembre 2017
geologia di silenzi e altre poesie, Anterem edizioni, Verona 2018

A Gian Giacomo Menon è dedicato il sito web www.giangiacomomenon.it

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Gian Giacomo Menon (Medea-Gorizia 1910 – Udine 2000), dopo le lauree in Giurisprudenza e Filosofia a Bologna, dal 1939 al 1968 ha insegnato Storia e Filosofia nel liceo classico Stellini di Udine ad almeno due generazioni di studenti friulani. Ha scritto centomila poesie, oltre un milione di versi, ma non ha pubblicato quasi niente. Individualista, solipsista, pragmatico, strenuo sostenitore della isostenia dei logoi, indicava così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura. I capisaldi del suo pensiero: soggettività spinta, dubbio sistematico, isostenia dei logoi, fede oscillante, paura, viltà, epoché. Dal 1957 Menon abbandona ogni forma di vita mondana per una «decisione di assenza» che perseguirà con determinazione trascorrendo oltre metà della vita ‘nascosto’ in casa «a consumare un’amara invenzione», evitando ogni contatto pubblico escluso l’insegnamento.

Cesare Sartori (Udine, 1949), diploma di maturità classica a Udine, laurea in filosofia a Trieste. Giornalista professionista, ha lavorato per 30 anni alla «Nazione» di Firenze. Friulano della diaspora, vive a Pistoia. Lettore forte, alpinista, ha curato quattro libri di poesie di Gian Giacomo Menon, sottraendo all’oblio il suo indimenticabile professore di filosofia del liceo.

2 pensieri su “Gian Giacomo Menon, Poesie

  1. Il sito si è aperto per caso su
    con te mia piccola terra
    la terra di Menon, che era non solo sua, ma anche una delle mie (mitiche) radici, e che nei miei 75 anni posso ora piangere per il mio volontario distacco: lui mi mostra come fare.
    Posso anche piangere le molte occasioni perdute, perché le persone della famiglia si vedono troppo da vicino e, nel mio caso, attraverso altrui occhi, altrui dispiaceri, altrui distanze.
    Ho comunque imparato da lui, a sei anni, la metrica del sonetto; più da grande, l’ostinazione del silenzio; da giovane, i fondamenti della lirica moderna, tramite le letture che mi consigliava, ma specialmente respirando i versi che sempre mi leggeva a margine delle sue enigmatiche visite alla nonna.
    Ciao, zio Nino. E grazie a Cesare, che a buon diritto potrebbe dirsi un figlio adottivo.

  2. Butto là. Bello leggere parole apparentemente in libertà. In sostanza comunicative, ma solo se ci si sofferma a mente libera. I Bonga scrivono sul muro di casa “casa” e sulla porta di casa “porta” (Umberto Eco, Secondo Diario Minimo). E’ intrigante da sempre la parola logos. Contenitore e contenuto (più o meno). Furio Honsell esprime giustamente meraviglia per il cervello, una cosa che pensa se stessa. Queste mie sono parole in libertà, non fateci caso. Cesare grande critico dell’arte della parola.

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