Il poeta della memoria

Nota di Corrado Benigni 

Franco Loi, grande vecchio della poesia italiana contemporanea, «rabdomatico mediatore tra il visibile e l’invisibile», come lo ha definito il critico Giovanni Tesio, è morto il 4 gennaio 2021 nella sua casa milanese. E con lui una generazione di maestri sta finendo di finire.

Nato a Genova, da padre sardo e madre emiliana, ma cresciuto fin dall’infanzia nel capoluogo lombardo, è stato l’ultimo testimone della “vecchia Milano”, raccontata da Testori e Raboni, messa in musica da Jannacci e Gaber: una metropoli di case popolari, punto di aggregazione di gente differente, tuttavia così lontana dal multiculturalismo sfrenato di oggi.

Poeta della vita e della memoria, poeta della realtà e del visivo, Loi è sempre sfuggito alle etichette e dunque al prevedibile. In rapporto quasi antagonistico con l’estinguersi dell’uso dei dialetti, è sempre stato fedele alla sua lingua: il milanese. Con questo idioma ha scritto quasi tutti i suoi libri in versi, da “Stròlegh” del 1975, a “Voci di Osteria” del 2010. L’uso del dialetto per Loi è stato un atto di necessità; il suo milanese è lontano da ogni purismo meneghino della tradizione, è piuttosto una lingua composita, magmatica, capace di fondere passione politica e tensione evangelica. «Il mio atteggiamento verso i dialetti – diceva – è di semplice rispetto di quel che accade quando vengo travolto dalle immagini. La mia attenzione consiste nell’appropriatezza della forma alla materia incandescente e incantatrice dell’inconscio».

L’ho incontrarlo spesso nella sua casa milanese di viale Misurata, sempre generoso con gli autori delle ultime generazioni, che sapeva ascoltare e consigliare, e ai quali chiedeva subito di dargli del tu.

In una di queste occasioni, qualche anno fa, in un gelido sabato di dicembre, poco prima di Natale, è nata l’intervista.

5 gennaio, 2021

INTERVISTA A FRANCO LOI
di Corrado Benigni

Milano, 5 dicembre 2016

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Sei stato definito un “poeta della memoria”. Che rapporto hai con questa dimensione?

«La poesia non è solo nella mente, non è la razionalità, ma nasce dall’inconscio, che sa molto di più della nostra coscienza. La poesia è una delle strade che abbiamo per conoscere noi stessi. È una voce della memoria, che rimanda a un tempo realmente vissuto, ma che ci spinge ancora più indietro, a un tempo dell’inizio, appunto, a un tempo “mitico” da cui tutto nasce».

Iosif Brodskij ha detto che alla storia, anche personale, è necessario aggiungere un “assaggio di vastità, altrimenti le nostre vite sono grette, chiuse, piccine”…

«Sono d’accordo. Questo lo ha insegnato prima di tutto Gesù Cristo anche attraverso i suoi apostoli. Abbiamo bisogno di trascendente perché il trascendente esiste, perché non bastiamo a noi stessi, perché la vita umana è un mistero e il mistero non si spiega solo con la scienza e la ragione. Dante, nel “Paradiso”, riprendendo le lettere di San Paolo, dice: “Fede è sustanza di cose sperate et argomento de le non parventi”. Da questa frase io ne ho tratto un pensiero: “fede è certezza di esperienze vissute nella loro essenza, che però la mente non riesce a comprendere”. Einstein ha detto che non si perviene alle leggi universali per via di logica, ma per intuizione, attraverso il rapporto simpatetico, amoroso, con l’esperienza. La stessa cosa avviene in poesia».

Nei tuoi versi è sempre stata presente una dimensione metafisica. Qual è il tuo rapporto con il sacro?

«La dimensione del sacro, presente in tutte le religioni, ha a che fare con il sogno, ci aiuta a entrare in rapporto con il mondo attraverso un canale che non è quello della logica. In questo senso la poesia ha molte affinità con il sacro: fare poesia è lasciarsi abitare da una voce che è dentro di noi. Abbandonandosi ad essa, ascoltando questa voce, il poeta si lascia dire, come in sogno. Il sacro in poesia è proprio questo: lasciarci dire dal nostro inconscio. Che ne sa molto più di noi».

La poesia oggi sembra un linguaggio ai margini e i poeti stessi, a differenza del passato, non hanno più un ruolo nella società. Perché secondo te?

«Anche nel passato per lunghi periodi i poeti sono stati dimenticati e la poesia messa in disparte, ma non è mai morta. Leopardi nell’Ottocento era considerato da tutti i critici un pessimo poeta e un mediocre filologo e anche Dante Alighieri subì numerose condanne in vita. Quello che la contemporaneità pensa di un poeta è relativo. Solo il tempo è il vero giudice».

Perché è importante che la poesia sia viva?

«Lo diceva bene Karl Marx: i politici, costretti a mediare e occuparsi dei problemi della gente, devono guardare la realtà. Gli artisti, i poeti, aiutano a mettere a fuoco la condizione dell’uomo in un particolare momento storico. Un politico dunque farà bene il suo mestiere solo se saprà guardare con lucidità la realtà, che solo gli artisti sanno indicare. La poesia poi aiuta anche a ritrovare il senso del silenzio che abbiamo perduto, il senso dell’attesa e dell’ascolto».

In un mondo globalizzato e multilingue, perché scrivere in dialetto?

«Io non tengo conto se il mondo è globalizzato o meno, io scrivo quello che sento. La scelta del dialetto milanese è stata per me una necessità rispetto a quello che sentivo di dire. In casa mia non si parlava il milanese, mio padre era sardo, mia madre colornese e io sono nato a Genova; ho imparato questa lingua per strada, ascoltando la gente nelle osterie e nei luoghi di lavoro. Il mio milanese non è quello di Carlo Porta, è il dialetto della gente comune e una lingua in parte reinventata da me».

N. D. R. L’intervista a Franco Loi di Corrado Benigni è rimasta inedita per diversi anni per essere poi pubblicata il 5 gennaio 2021 su L’eco di Bergamo.

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