
Wole Soyinka, Premio Nobel per la Letteratura nel 1986
COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA
La poesia civile di Wole Soyinka, Premio Nobel per la Letteratura nel 1986, è tornata un anno e mezzo fa con l’Ode laica per Chibok e Leah (Jaca Book). Un testo altamente politico e intimo, nel quale la passione per la libertà si mescola con il più prodigioso esempio di resistenza umana contro la coercizione, in nome di un afflato che non può semplicemente definirsi ideale. Chibok è il luogo, Leah la ragazza. Nel 2014 a Chibok, città dello stato di Borno, 276 giovani fanciulle furono rapite in una scuola da parte di Boko Haram. Il 19 febbraio 2018 anche Leah Sharibu, giovane studentessa cristiana, fu rapita dalla stessa organizzazione terroristica. E non è stata ancora rilasciata.
Ecco la parte finale della prefazione dell’Ode laica, che spiega le ragioni della scrittura dell’autore nigeriano: «A differenza di Chibok, a Dapchi gli ostaggi — poco più di un centinaio — furono rilasciati dopo breve tempo. Quando arrivò il momento del rilascio, tuttavia, alle ragazze già ampiamente traumatizzate fu imposta un’ulteriore condizione: avrebbero dovuto abiurare la propria religione per ottenere la libertà. Lo fecero tutte, tranne una. Di nome fa Leah Sharibu. Da quanto riportato dalle sue compagne liberate, la ragazza avrebbe detto: “Non posso. Sia fatta la volontà del Signore Dio”. Nell’esprimere questo atto di volizione umana che trascende ogni singola fede, persino chi non crede trova uno spazio di serenità in cui prendersi cura della propria realizzazione spirituale».
Straordinario: il gesto umile e dimesso di una fragile ragazza, proveniente da un oscuro villaggio, colpisce nel profondo il granitico intelletto di un Premio Nobel. Leggiamo anche i versi finali dell’Ode laica, pieni di commozione e partecipazione: «Non solo Chibok agogna la liberazione, ma/ fino al giorno del Risveglio della Mente, questi/ giorni di Chibok ci riempiranno il cuore di bile. Abbiamo/ negato alla tua gioventù i riti della mente al Risveglio/ di Primavera, e le acque sorgive della vita.// Vivi, Leah. Perdona».
La piccola e maestosa testimonianza di Leah sommuove il cuore di Soyinka, lo sconvolge. Nel gesto di Leah si concentrano tutte le qualità che rendono unico l’essere umano: l’umiltà, la pazienza, la tenacia. Ma tale particolarità ha a che fare non soltanto con l’emozione di un momento, capace di ispirare il poeta. Soyinka, in realtà, in questa schietta e purissima manifestazione della personalità di Leah vede incarnato l’elemento più perfetto della sua poetica e del suo messaggio di scrittore africano. Leah è probabilmente l’opera che Soyinka avrebbe voluto scrivere.
Nato nel 1934 ad Abeokuta — una città della parte sudoccidentale della Nigeria, in cui tuttora risiede —, consegue il dottorato in Inghilterra nel 1973. Dramaturg in diversi teatri inglesi e africani, diviene in breve tempo poeta e autore di testi teatrali di successo, nonché professore in svariate università (Yale, Harvard, Cambridge, per citarne alcune). Recentemente Jaca Book ha riproposto la sua pièce più celebre, La morte e il cavaliere del re, nella traduzione di Graziella Bellini. Pubblicata nel 1975 e tradotta in Italia l’anno successivo, la commedia di Soyinka — che diventerà presto un film di produzione Netflix — è stata citata espressamente dall’Accademia svedese come prova di valore nella combinazione di elementi della «cultura yoruba ed europea» in una modulazione singolare di stile e di intenti. La morte e il cavaliere del re è un dramma che vede non contrapposte ma messe insieme due culture. Leggerlo soltanto come un clash of cultures, uno scontro di civiltà tra gli yoruba e i britannici, tra Elsin Oba, il cavaliere del re, e Simon Pilkings, l’ufficiale di distretto inglese, potrebbe risultare fuorviante (si legga a tal proposito questo interessante articolo: https://ilverboleggere.wordpress.com/2020/06/21/morte-cavaliere-re-soyinka-2/).
Come ha scritto opportunamente Roberto Mussapi, «nel teatro di Soyinka non c’è dialogo interpersonale, psicologico, ma dialogo tra l’uomo e le forze che incarnano o adombrano il destino». D’altra parte, la caratura metafisica del testo è confermata dallo stesso autore in una nota: la chiave d’interpretazione è da trovare nel «passaggio numinoso che collega tutti», ossia la grande «transizione», il confronto dialettico tra i vivi e i morti.
Si può notare, dunque, la sostanziale dualità, anzi il continuo bifrontismo dell’opera: due culture, due mondi, due personaggi (due maschere, forse) in fusione, in fibrillazione, nel difficile tentativo di comprendersi e ritrovarsi in una sintesi degna che non annulli le particolarità. Il teatro di Soyinka, a più riprese definito “teatro totale” — come quello di Shakespeare e Claudel —, ricerca l’unità, tenta di ricomporre le fratture sensibili e ultrasensibili. Ecco perché il gesto sovrumano di Leah è qualcosa di più che un richiamo civile per il poeta nigeriano. È puro coraggio, splendore dell’umanità, dolcezza che resiste e vince la violenza. Unità della donna che vive al di là della vita stessa.
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Wole Soyinka, La morte e il cavaliere del re, traduzione di Graziella Bellini, Jaca Book, pp. 120, € 12
Wole Soyinka, Ode laica per Chibok e Leah, traduzione di Alessandra Di Maio, Jaca Book, pp. 96, € 15