Giampiero Neri, “Da un paese vicino”

Giampiero Neri

I

Al giardino si entrava per un cancelletto di legno
che non aveva chiusura.
Era un luogo abbastanza grande, coltivato in
parte a ortaglia e piante da frutta, di prugne per lo
più, che crescevano rigogliose.
A sud confinava con il campo di un contadino,
un vero spauracchio, che a volte si affacciava
con la sua testa calva al muricciolo sbrecciato che
divideva i due terreni.

II

Abitavamo in via Mainoni al numero 5, e il giardino
era davanti a noi, lo si vedeva dalla finestra.
A me sembrava molto grande. Allora andavo alle
scuole elementari ma, in giardino, trovavo sempre
qualcosa da curiosare.
Quella volta era venuto anche mio cugino
Ezio, di poco più giovane.
Aveva in mano un giocattolo che gli avevo
presto sottratto. Lui si era messo a gridare e piangere.
Al rumore si era affacciata sua mamma, che
abitava sopra di noi, la zia Ester, e aveva comandato:
«Ezio, vieni su. Non giocare con quel cretinetti
in vacanza».

III

La zia Ester era una donna avvenente, alta, bruna.
Aveva modi piuttosto bruschi, uno sguardo deciso
che a volte aveva qualcosa di sprezzante.
Una figura solitaria, senza amici né tantomeno
compagnie.
I suoi litigi col marito erano furibondi, volavano
piatti e tovaglie, strappati dal tavolo con quello
che vi era sopra.
Aveva preso la patente e guidava una delle
prime macchine, una «Topolino».
Quel pomeriggio, quasi sull’uscio di casa, mi
aveva detto: «Vado a Como. Vuoi venire?». È stato
un viaggio avventuroso, abbiamo anche avuto un
pauroso testa coda, la macchina era slittata su un
tratto ghiacciato di strada.
Poi Como ci aveva accolti con il suo ridente
paesaggio. Continua a leggere

Franca Mancinelli, “Tutti gli occhi che ho aperto”

Franca Mancinelli / Credits ph. Enrico Chiaretti

quando tornerai a vedere, troverai ogni cosa sorretta dai rami. Non è accaduto niente. Siamo qui, su questa intelaiatura di foglie. A tratti un grido spalanca la gola. Perdiamo tepore. Allora si scuote, ci culla nel vento leggero.

*

ritorno, ascolto l’aria. E poi salto.
I dove sono tutti provvisori.
Crescono come i rami.

*

l’infinito dei morti
espande un’altra galassia.
Il rosso nel buio continua
a sfociare nel mare
dove siamo senza corpo accucciati.

*

stringe la stanza come una mano
due pezzi di pane a sbriciolarsi

corpo esangue di nessuno
fate questo dimenticando
di voi solo un residuo
da spazzare via.

*

siamo noi, polline e polvere.
Poche ore per ere di lontananza.
Come la chioma di un albero prima
della bufera. Avere due occhi
riconoscerti. Di ogni tuo nome
porto alla bocca
tra sillabe di silenzio. Continua a leggere

Alberto Nessi, “Perché non scrivo con un filo d’erba”

ANTEPRIMA EDITORIALE

Il 19 novembre 2020 compie 80 anni Alberto Nessi, Gran Premio svizzero di letteratura. Per festeggiarlo Interlinea pubblica la sua ultima raccolta Perché non scrivo con un filo d’erba, un’antologia che raccoglie i suoi testi più intensi, su dolore, ingiustizie, viaggi, natura e società con una particolarità da collezione: i testi sono accompagnati dai manoscritti dell’autore.

Il libro si chiude con testi di Fabio Pusterla dedicati al maestro e amico Nessi.

Dal 19 novembre  80 copie numerate e firmate dall’autore di Perché non scrivo con un filo d’erba sono disponibili fino a esaurimento, soltanto sul bookshop di Interlinea.

 

Invito

Il paese è di sorbi vendemmiati
di tetti miti all’aria di settembre
tra il silenzio degli alberi che anche tu
ricordi presso la casa di verderame.

Il tempo è quello incerto dell’attesa
l’orologio s’è rotto ed il segreto
ripete in alto il suo volo d’uccello.

1969

 

i segni dell’alfabeto vegetale
e la pioggia risillaba i cespugli: allora
nella mia testa le parole brillano
come topinambur,
dietro il cancello il fico
torce i suoi rami come un anacoluto.

1992

 

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Duncan Bush, poesie

Duncan Bush

Midsummer. Night.

There’s a moment in summer when everything stops.
Ten o’clock, and the young pear tree still
shines white as a bride

against trees lush with evening, black with June.
There’s a moment (though this may not be
the evening of the 21st)

when infinitesimally your life pivots
with the year (though probably it’s not your
thirty-fifth, and you may

not reach seventy). A moment
when the inch of wine set down forgotten
in your glass holds all

the failing light, and stands unwavering
as if your numberless progenitors had
lived, begotten, died

only so you should see such stillness.
There’s this moment one summer when summers
stand in silhouette, and the topmost leaves

of those trees which are as old as your bloodline
are stirred no more than by the breathing of
your sleeping child upstairs.

There’s a moment in summer when everything stops
(though the pear no bigger than a haw
will ripen under leaves)

and you sit so long at the window the room’s dark,
and just this tilted page is luminous,
though you can hardly see the letters.

Then you look outside again, and the peartree’s
gone, to the blackness beyond it. And tomorrow
from now on means only that:

a day, then a day, then a day. And life,
which was once vast as the atlas on the shelf,
is closer than your skin, and countable.

Mezza estate. Notte.

C’è un momento in estate in cui tutto si ferma.
Le dieci, e il giovane pero ancora
risplende bianco come una sposa

contro alberi turgidi per la sera, neri per il giugno.
C’è un momento (potrebbe anche non essere
la sera del 21)

in cui in modo infinitesimo la tua vita ruota
con l’anno (anche se forse non ne hai
trentacinque e potresti

non arrivare ai settanta). Un momento
in cui quel dito di vino dimenticato
nel bicchiere trattiene tutta

la luce che se ne va, e non ha un tremore
come se i tuoi innumerevoli progenitori avessero
vissuto, procreato, fossero morti

solo perché tu vedessi tale immobilità.
C’è questo momento in una estate in cui le estati
appaiono in silhouette, e le foglie più alte

di quegli alberi che sono antichi come la tua ascendenza
stormirebbero di più sotto il respiro
del tuo bimbo che di sopra dorme.

C’è un momento in estate in cui tutto si ferma
(ma la pera non più grande di una bacca
maturerà sotto le foglie)

e tu siedi tanto a lungo alla finestra che la stanza è buia,
e solo questa pagina alzata è illuminata,
anche se le lettere le vedi appena.

Poi guardi fuori di nuovo, e il pero
è sparito, dentro al buio circostante. E il domani
d’ora in poi significa solo questo:

un giorno, poi un giorno, poi un giorno. E la vita,
che una volta era grande come quel mappamondo lì,
ti sta più stretta della tua pelle, e la puoi contare. Continua a leggere

Francesco Maria Terzago, da “Caratteri”

Francesco Maria Terzago

DEDICA

Mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén
diceva e mi appoggiava una mano sulla testa
e mi diceva che era stanca. Vedi lipscén le stelle
che sono sopra di noi, il cielo – l’universo che
non ha confini pensa – a tutte le cose che ci sono
dentro pensa agli anni che ci separano e pensa
a quante persone, in questo preciso momento,
ed è possibile che sia così – tesoro, lipscén – si
staranno parlando delle stesse cose, e ci sarà una
brutta donna come me che piange dicendo al nipote
cose come queste. Lassù vorticando su delle
pietre azzurre come la terra – che è una pietra azzurra
anche se il suolo è velenoso e non devi mettertelo
in bocca quando fai i tuoi giochi, mi raccomando
lipscén, tesoro, e pensa che siamo degli atomi
tenuti assieme senza un apparente motivo, perché
siamo fatti così? Fatto sta che lo siamo. E che
questi atomi ci saranno sempre, – questi atomi
ci saranno, anche quando io non ci sarò più, –
in questo modo – e non mi potrai parlare né
ascoltare. E non ricorderai più il timbro della mia voce
che ora ti è così familiare, – né questo volto rugoso
con cui ti addormenti. Perché mi sarò fatta cremare.
E mi si potrà tenere in una scatola per le scarpe
se lo vorrai. Ma quegli atomi lipscén, tesoro, chissà
che il tempo non passi per essi a una velocità differente,
che per loro il tempo sia ben poca cosa, almeno
a confronto del nostro. E io, credo, ti aspetterò
in una sala come questa o migliore. E ci sarà un momento
in cui questi atomi si riuniranno e io sarò di nuovo qui
e anche tu lo sarai, che nel frattempo avrai fatto la tua vita,
anche tu morto, passato per la vecchiaia –. E sarai
di nuovo. E ci troveremo assieme da qualche parte,
appunto. Tu, io, tua mamma, tutti quelli che vorranno.
Tutti assieme. E capendo la cosa incredibile che ci è successa
potremo stare assieme e non incontrare più la tristezza
di questa vita o il disfacimento. Sono molto stanca lipscén,
tesoro. È tardi, sono molto stanca. O forse saremo
gli stessi. Un’altra volta come questa, ma non ci ricorderemo
nulla di quello che siamo adesso. E non avremo da passare
assieme che il tempo che già abbiamo avuto, e faremo
gli stessi discorsi rammaricandoci di avere poco tempo,
io ti parlerò per l’ennesima volta di queste cose, e questo
inverno passerà ancora. E qualcuno ti chiamerà un giorno
che sarai lontano. Ti chiamerà per dirti che sono morta.
Ma sarai abbastanza cresciuto per affrontarlo,
quella voce ti dirà che ho deciso di farmi cremare.
Prenderai questa notizia come tutte le cose inaspettate e,
arrivato a casa, ti siederai da qualche parte pensando
a queste parole che ora ti sto dicendo. Ho tanto sonno,
mio tesoro.

Non è qualcosa che abbia un’importanza
secondaria, considerare la torsione
degli astri che comprime la notte
ricordandoci il sottile discrimine
tra l’esistenza e la mancanza, l’ostensione
delle distanze cosmiche tra i radiofari.
Non è qualcosa che abbia un’importanza
secondaria, conoscere il nome delle piante
che mettono un balzo verde tra le discontinuità
del porfido, dell’asfalto. Se ci cerchi
l’osmanto o lo statice troverai la pratolina
e la mammola. Bisogna saper riconoscere
i segni premonitori di un rigido inverno e
tirare avanti, fare come i giardinieri planetari che,
anche se non li hai mai visti, non vengono meno
al loro dovere. Non sono degli spettri
quelli che pettinano l’erba del prato, nel parco pubblico,
quelli che la pareggiano eliminando ogni discontinuità.

*

Oggi me ne sono rimasto ad ascoltare il rumore
del mio respiro e il dolore dei miei occhi.
Il contrappeso della gru era un diadema
incastonato nella fronte del cielo, un vetro
silenzioso e immobile. Mi pareva di leggere,
nella sua presenza, un senso di rimprovero.
Si trovava a una ventina di metri proprio
sopra alla mia testa. Attendeva. Ci siamo fissati
per un bel po’, lui e io. Fino a quando non ho sentito
gravare su di me le cifre, le misure ineluttabili.
Abito una pietra imbalsamata nell’acqua.
Tutto ciò che la circonda àltera, in ogni momento,
le sembianze; si rinnova ma, ai miei occhi, rimane
sempre uguale. Ciò che so di me stesso è poco,
ancora meno io conosco voi. Sto parlando
di un rapporto, il rapporto che unisce il poco
che si assomma e che, allo stesso tempo, se ne va via.
Che, in ogni momento può esserci tolto e non tornare. Continua a leggere

Umberto Piersanti, “Campi d’ostinato amore”

Umberto Piersanti, creidits ph Dino Ignani

ANTEPRIMA EDITORIALE

Nell’ultima raccolta di versi di Umberto Piersanti, Campi d’ ostinato amore, (la Nave di Teseo, 2020) il poeta urbinate conferma e condensa l’ identità e l’unicità  di una voce che deposita con grazia il germe assoluto della sua poesia in una terra mitica e leggendaria: l’amato altopiano delle Cesane, il mondo antico e arcaico della civiltà contadina, le figure mitiche che lo popolano e l’ostinato silenzio dell’amato figlio, Jacopo.
La testimonianza poetica di Umberto Piersanti evoca una realtà naturalista scomparsa, un passato lontano dalla quotidianità,  una civiltà remota, che riaffiora dalla memoria con uno spessore antropologico e magico.

(Luigia Sorrentino)

 

Il passato è una terra remota

a Giulia

no, non tra rossi papaveri
e fiordalisi come l’antica
col velo dentro al quadro
ma alta sugli stivali
nel terrazzo fumi,
e non mi guardi,
poi su gran verde stesa
quel tuo volto acceso,
e accesi gli occhi
così azzurri e persi,
sei la ninfa riversa
nell’attesa
e la tua bionda carne
m’invade e piega

passano innanzi agli occhi
le figure,
in altri tempi
e luoghi lontani
e persi, tu sotto la cascata
t’infradici i capelli
neri e sciolti
e mi sovrasti
chino sulla roccia

non conosci quei lampi,
non sai i tuoni,
Dicono che i soldati
salgono su lenti
dalla marina,
lei siede alla ringhiera
contro i bei vetri,
tu non ricordi il volto,
non sai la veste,
solo quelle ginocchia luminose
che appena intravedi
fra le trine

quando la casa cambi
o la dimora,
salgano le memorie
fitte alla gola,
e se tendi la mano
quasi le tocchi,
ma il muro che le cinge
è d’aria e vetro,
nessuna forza
lo può oltrepassare

il passato è una terra remota
magari non esiste,
non sai dove.

dicembre 2015

Volti

volti, volti nella mente
infissi,
sempre più infissi
e incerti,
e poi così lontani,
lontani e persi,
nell’oscura veglia
mi siete d’intorno,
vicini, così vicini
alle mani
e agli occhi,
padre da un grande tempo
dimori oltre la valle
che la nebbia copre,
la grande nebbia
che sta oltre,
oltre ogni casa
e campo,
come chi ha la vista
quasi spenta
risalgo con le mani
alla tua fronte,
su ogni piega
mi soffermo e insisto,
del tuo magro sorriso
ricerco il dono

e i tuoi occhi madre
sono i più chiari,
io me li stampo dentro,
mi fanno il sangue lieto
e nulla può il dolore
che m’abbranca,
restano chiari
e azzurri
oltre lo sguardo,
lo sguardo mio
che tanto s’appanna

sorella dalla veste chiara
ora m’allacci i pattini
e spingi alla discesa,
lascia ch’io tocchi ancora
i tuoi capelli così lunghi
e scuri

l’altra ha quei tacchi larghi,
larghi e spessi
degli anni di guerra,
tra le ginestre lei
rifulge tanto
che degli occhi appannati
lacera il velo

e padre e madre,
e la bruna sorella
l’altra più chiara,
la cucina fumosa
e l’orto coi soldati,
quelle canzoni lente
e disperate
mentre il maiale cuociono
sull’erba,
tra loro un giorno
ti sei risvegliato
e loro t’hanno accolto
e riscaldato,
il tempo poi dissolve le figure
ad una ad una nel vortice
degli anni rapinate,
contro il vuoto che ghiaccia
sangue e fiato
dentro l’aria le incidi
per l’eterno

e poi c’era quell’erba
contro i mali
quella di colore scuro
come il nome,
è l’erba delle bisce
che la pozza cerchia,
se la metti a bollire
sopra un gran fuoco
e poi quell’acqua bevi
densa e nera
i mali come serpi
strisciano via
lontani

era come una radura
riparata dall’acqua
e i venti,
dai fuochi d’attorno,
l’unica che rammenti,
se altre ne ho incontrate
non le ricordo

marzo 2018

 

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Francesco Russo, da “Poesie della ricucitura”

Francesco Russo

XV

So di una catastrofe imminente
ne dicono le case, i numeri
il pane: l’angelo pende
obliquo sul filo del nascere.
Con lui s’illumina una croce
dal primo e lungo grido di madre
fino al fine ultimo dell’ultimo
silenzio di consenso.

Ai posteri mi spero nessuno
col mio segreto sogno di verità.

*

Vorrei avere il talento, comprare
il pane alla bottega della morte
dentro notti buie come la peste
e camminare per le strade
fino alle risaie innamorate
di stanchi uomini sporti sul mare.

Potremo mai scambiarci nella sorte
il segreto obliquo che ci separa
o siamo martiri opposti al raccolto
affannato di un dolore comune?

*

Il primo verso di ogni uomo è un vagito:
il poeta deve chiudere il distico.

*

La parola si sfalda in primitivo
starsene calmo al grembo.

È un silenzio negli occhi del figlio
una forza alla nuca della sposa
a fondare la preistoria del nome:
ma-mma è l’origine della casa.

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Poesie di Jane Hirshfield

Jane Hirshfield

Tratte da “Ogni felicità assediata dai leoni” di Jane Hirshfield, traduzione e cura di Loredana Foresta e Andrea Sirotti, Elliot edizioni. © 2020 Lit Edizioni s.a.s. Per gentile concessione.

Da Capo

Take the used-up heart like a pebble
and throw it far out.

Soon there is nothing left.
Soon the last ripple exhausts itself
in the weeds.

Returning home, slice carrots, onions, celery.
Glaze them in oil before adding
the lentils, water, and herbs.

Then the roasted chestnuts, a little pepper, the salt.
Finish with goat cheese and parsley. Eat.
You may do this, I tell you, it is permitted.
Begin again the story of your life.

Da capo

Prendi il cuore logoro come un sasso
e lancialo lontano.

Presto non ne rimarrà nulla.
Presto l’ultima increspatura si esaurirà
tra le erbacce.

Una volta a casa, affetta carote, cipolle, sedano.
Glassali in olio prima di aggiungere
le lenticchie, acqua e odori.

Poi le caldarroste, un po’ di pepe, sale.
Completa con formaggio di capra e prezzemolo. Mangia.
Puoi farlo, davvero, ti è concesso.
Ricomincia la storia della tua vita. Continua a leggere

Addio a Carlo Bordini (1938 – 2020)

Carlo Bordini, credits ph. Dino Ignani

 

 

COMMENTO DI LUIGIA SORRENTINO

Lutto nel mondo della poesia.
Silvia Bordini, sorella di Carlo Bordini, poche ore fa ha inviato via mail a tutti gli amici di Carlo compreso me,  un messaggio contenente una tristissima notizia che proprio non ci aspettavamo e che ci lascia senza parole: “con profondo dolore vi comunico che Carlo ci ha lasciato questa notte. Conserviamo tutti il dono della sua poesia”.

La notte del 10 novembre 2020 se n’è andato Carlo Bordini, a 82 anni, un amico carissimo e un poeta fra i più conosciuti  in Italia.

Scrittore, poeta, militante politico,  radicalmente anti-elitario, fra le sue raccolte di versi più famose ricordiamo: “Strategia”, “Pericolo” e, quella da lui più amata, “Polvere”. Le sue poesie, dal 1975 al 2010, sono state raccolte e pubblicate in un unico volume edito da Luca Sossella Editore nel 2010.

Nella rubrica “Autoritratto” potrete rileggere il testo che Carlo Bordini scrisse per me e Fabrizio Fantoni nel 2015. Una bellissima pagina che ci racconta chi era Carlo e che cosa pensava lui fosse la sua poesia. Non dimenticherò ma  la sua generosità, la sua presenza attiva e attenta a tutte le vicende politiche e civili che hanno accompagnato il suo passaggio sulla terra. L’ultimo incontro all’isola Polvese, per un convegno organizzato da Maria Borio sulla poesia in Europa. L’ultima mail collettiva, pochi giorni fa “estremismi”, aveva aperto un bel dibattito fra diverse persone.

Grazie Carlo, grazie. Ti abbraccio forte. Come facevamo quando ci incontravamo e poi  con un sorriso ironico, sornione… ci salutavamo e non mancava mai la fatidica frase alla  romana, (la dicevi proprio a tutti i tuoi amici!):  “Ciao bbella!”

Noi, mentre la casa crolla

Noi, che stiamo vivendo l’inizio del tracollo della civiltà umana,
ci preoccupiamo di cambiare la carta da parati
e di lucidare i mobili
mentre la casa crolla ci dedichiamo a rovinose dispute con il portiere
e facciamo progetti per migliorare (abbellire) le serrature delle nostre case
le nostre case stanno cadendo e noi ci preoccupiamo di abbellirle
perché gli animali domestici hanno bisogno di un ambiente sereno

Carlo Bordini

Carlo Bordini

 

Chandra Livia Candiani, “La domanda della sete”

Chandra Livia Candiani

Tenere tra le braccia
la voce del mondo
ospitare i suoni ammucchiati
senza chiedere senso
cullare lingue e pelli
ossa di diverse misure
parole fredde e calde
urli e bisbigli
una fioritura spinosa
e corrodere le frontiere
e fare uno strepito sorridente:
sì vieni, ben arrivato
nel mio sbando
c’è sempre posto per te.

*

Un dolore antico senso
frontiere con la gioia
nato prima di me
mi fessura scrive sulla pelle
i nomi privati di ogni animale
le costellazioni i mari
i vegetali. Mi chiamo
e sono essere tra gli esseri
cipresso medusa corteccia
sasso e ogni spavento
di squame e penne ogni urlo
che abbraccia il vuoto
e fa spazio.

*

Senti che silenzio ti regalo
perché tu abbia vuoto
e frescura e scavo lento
per le tue millenarie graffiature
per il tuo non registrare con la mente
ma tenere in appoggio funambolo sul cuore
la fatica della pressione altrui,
dei multipli imperativi
che sfrecciano e chiedono
e pretendono. Senti come sto
quieta e senza sonoro
appoggiata al bel niente
e dopo, quando torni contento
e già pronta la saltabeccante energia
la zampata che t’invita
alla tua radice d’infanzia.

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Il contravveleno al niente: Gian Mario Villalta tra poesia e presente

Gian Mario Villalta

di MATTEO BIANCHI

La poesia non si accontenta di una lettura e tanto meno di una lettura distratta. Di più, ci riporta a un brusio buono, biologico, alle parole sostanziali dei sentimenti. A confermarlo ancora una volta è il percorso in versi di Gian Mario Villalta, specie nelle sue ultime pubblicazioni. Una su tutte – anomala e folgorante – Il scappamorte (Amos, collana A27, 2019), nella quale il poeta non rinuncia a far proprio il bene altrui, a renderlo condivisibile attraverso il processo estetico: «Confessi a te stesso che della felicità / sai la voglia: fa feste / all’aria intorno a te e ignora / il boccone offerto, come il cane addestrato / alla guardia del cuore / quando sfugge al guinzaglio».

Nel corso di una mirabile divagazione, Barthes affermò che «la letteratura non permette di camminare, ma permette di respirare», in quanto esperienza panica e totalizzante, che permea l’individuo e non lo accompagna soltanto durante una trasformazione interiore. Villalta, dal canto suo, esorta il lettore a un’ecologia del pensiero e di conseguenza della parola, che rifletta onestamente una doverosa ecologia sociale, sostenuta dal disarmo linguistico, e che smussi l’uso di una verbosità sempre più aggressiva e opprimente, volta a intimidire e a conquistare il fruitore dei consueti flussi di comunicazione. D’altronde, sin dalla radice οἶκος, l’ecologia si fonda su un’analisi oggettiva delle interazioni tra le singolarità e il contesto di appartenenza, ossia un’analisi che si focalizza sulle relazioni interne a una qualsivoglia realtà organica. Continua a leggere

Edoardo Sanguineti, “Laborintus”

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

Sono trascorsi esattamente dieci anni dalla morte di Edoardo Sanguineti, poeta e teorico della letteratura tra i massimi del nostro secondo Novecento. Manni ristampa per l’occasione Laborintus. Testo e commento, a cura di Erminio Risso, in un’edizione rivisitata ed esegeticamente arricchita. Il libro, pubblicato in origine nel 1956, figura come silloge d’esordio di Sanguineti e subito attesta gli elementi precipui della scrittura a venire: «un furentissimo pastiche», secondo la celebre definizione di Pasolini, «tipico prodotto del neo-sperimentalismo post-ermetico, che per una intima, nuova energia, riesuma entusiasmi pre-ermetici». Laborintus, dall’incipit folgorante («composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis»), è la descrizione in ventisette canti di uno scenario sublunare, imago e simbolo di una terra postatomica, che vede protagonisti l’io lirico ed Ellie (o anche λ, incarnazione dell’eterno femminino), «due esseri astratti su un aerostato che si siano incontrati per dirsi la verità», tanto per scomodare I demoni di Dostoevskij. Essi – non soli però, ci sono anche personaggi come Laszo Varga e Ruben – si amano, si lacerano, soprattutto mutano e trasmutano dentro una materia linguistica incandescente, disarticolata, che mette insieme lacerti di verso da slang lontani e, in alcuni casi, opposti, passando dalla citazione culta all’espressività del mondo globalizzato. Continua a leggere

Mario Ramous (1924-1999)

Mario Ramous

LIMITE

UNA campana è il mio cuore più cupo
d’un disperato suonare a distesa.
Non c’è riposo alla vasta ossessione
dei grilli in questa notte già recisa
dal richiamo dei treni. E il tuo viso
appena sfiorato dal mio amore
ora è già smorto, caduto. Potranno
piangere gli uomini con il lamento
lungo delle strade, potremo piangere
che non ci è dato nulla oltre il nome.
Ricordo solo il tuo seno malato.

 

A MEMORIA

ERI come il cadere molle dei colli alla pianura,
quando si spande il caldo dell’estate,
il crescere sottile e schivo degli agnelli.
Poi il riposo, lungo e confortato di pianto.
Assopirsi lento dei sensi
e compiacersi del proprio silenzio.
Pure il tuo respiro era solo tristezza
e chiuso dolore:
un esilio vuoto di parole,
un levigato dormire.

In te era il mio gesto
come un’ombra sfiorita di accenti,
se ancora un limite mancava alla persona.

Così si spengono i tuoi occhi alla memoria.

 

PRESENZA

QUESTO incredibile pianto e il suono
che s’affloscia in sorde cavità
della ragione; il suono come vento
mutevole d’uccelli, di severi
animali inquadrati nelle valli,
immobili negli occhi. O ancora
la presenza ha un senso in questa vita
dirotta dal tempo? E forse io vivo? Continua a leggere

Alfonso Gatto (1909-1976)

Alfonso Gatto

Nella giovinezza, se non addirittura nell’adolescenza, la contemplazione dell’amore e la contemplazione della morte sono veramente nel nostro sguardo. Ma direi di più. Sono il nostro sguardo.

Alfonso Gatto

LA VEGLIA

Piove su questa casa bianca, è sera.
Lo squallore murario, nei balconi
verdi, nei raspi delle sorbe, annera.
I pavesi del lutto sui portoni

si vestono d’argento con quel lume
di cielo che rimane in alto, fioco.
Una sera di calma tra le brume
dolci del golfo, svèntola sul fuoco

del braciere una donna a sé traendo
il bambino assonnato che le pesa
sull’altro braccio. In quel che vedo intendo
spiegata tenerezza, la distesa

del mare nel suo cerulo sconfina.
Io ti parlo così con questa calma
che non è mia, è sempre più vicina
l’ora di tutti, vedo sulla palma

del lungomare la stanchezza occidua
della luce, la raffica silente.
Di controvoglia questa mano insinua
la carezza obliosa. Non è niente,

credimi, quest’effigie, questo fumo
continuo, non è niente. Negli assorti
pensieri della veglia mi consumo
per avvenenza come tutti i morti.

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L’opera poetica del cubano Nicolás Guillén

Nicolás Guillén

NOTA DI GORDIANO LUPI

Nicolás Guillén dopo il trionfo della Rivoluzione è sempre stato chiamato il poeta nazionale e non c’è denominazione più giusta e meritata. Infatti, la poesia di Guillén interpreta la realtà in maniera critica e da un punto di vista collettivo, senza mai farsi tentare da individualismi o da fughe astratte. Quando Cuba era ancora alla ricerca della sua identità, Guillén denunciava l’ingiustizia sociale, la discriminazione dei neri, la fame, il furto sistematico da parte degli Stati Uniti delle ricchezze nazionali. Possiamo dire che Guillén sia sempre stato il cantore delle necessità degli oppressi e dei poveri. A maggior ragione, dopo il trionfo della Rivoluzione, ha messo al servizio della costruzione di un nuovo stato la sua poesia.

Nicolás Guillén (1902-1989) nacque a Camagüey. Suo padre lottò per l’indipendenza cubana, ma subito si rese conto che la Repubblica sarebbe stata tradita dal nuovo governo e si schierò con i liberali. Fu assassinato durante una rivolta e Nicolás dovette lasciare l’Università (frequentava Giurisprudenza) per impiegarsi come tipografo e dare una mano in casa.

Pubblicò le prime poesie sulla rivista Camagüey Grafico, quindi in Castalia dell’Avana e in Orto di Manzanillo.

Il suo primo libro è del 1922 (non lo pubblicò) e si intitola Cerebro y corazón, mentre l’anno seguente fondò Lis, una rivista letteraria che ebbe breve vita.

Nel 1926 si trova all’Avana, si iscrive al Partito Comunista Cubano ed è proprio nella capitale che si avvicina alla poesia d’avanguardia.

Scrive per El Diario de la Marina (un foglio reazionario) una serie di articoli contro la discriminazione razziale.

Nel 1930 pubblica Motivos de son e Ideales de una raza.

Soprattutto il primo è un libro importante, perché adotta il son come base musicale e sceglie un linguaggio di facile comprensione, capace di parlare alle persone e di raccontare la vita quotidiana. Si tratta di poesia che molti hanno giustamente definito mulatta, perché si appoggia ai due elementi predominanti della cultura nera: il ritmo e il colore.

Le liriche di Guillén nascono dalla guaracha cubana e sono soprattutto parole scritte per canzoni popolari. Si pensi a un componimento come: Sóngoro cosongo/ Songo be/ Sóngoro cosongo/ de mamey;/ sóngoro, la negra/ baila bien… Si tratta di una vera rivoluzione poetica che vede protagonisti soprattutto i neri avaneri, con il loro linguaggio caratteristico e i loro modi di dire.

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Robert Minhinnick, poesie scelte

Robert Minhinnick

A Welshman’s Flora

Ivy

They read poems here every year
In memory of the last king,
Ambushed and strung up.
But he was no better than he might have been –
That leather apron over his arse,
An iron lid on his heart.

Carnation

I stayed in Richard Burton’s buttonhole
A whole week. He never even changed his underwear.
And always the same formula:
Start with champagne, finish with scotch.
That kind of desperation is what life’s all about.
I wouldn’t have missed it for the world.

Pansy

Life was so simple then, didn’t know I was born,
A well-kept border round a new-mown lawn,
Slug pellets scattered like small sapphire stones,
Then she sews me on her knickers and throws me at Tom Jones.

Saguarao

I was raised in Swansea, up on the Buckskin,
South of the Bill Williams,
And flowered regular every year.
But it’s a ghost-town now, the doors
Stove in and the power off.
You could be a genius there
And nobody around to give a damn.

Rose

Anthony Hopkins was right.
When I look in the mirror
I don’t know who I am.
The aliases, the identities
Are like someone else’s dream.
I’ve even thought of going home
But there can’t be anyone left by now. Continua a leggere

Vivian Lamarque, “Il signore d’oro”

Vivian Lamarque credits ph Dino Ignani

Torna in libreria dopo 34 anni “Il signore d’oro” di Vivian Lamarque, stampato per la prima volta da Nicola Crocetti nel 1986 e ristampato nell’ottobre del 2020 nelle nuove collezioni di poesia Feltrinelli/Crocetti.

In anteprima vi proponiamo il testo di Vivian Lamarque che apre la ristampa.

QUANTO HA DOVUTO LAVORARE IL MIO DOTTORE

DI VIVIAN LAMARQUE

Il signore di fronte

Era un signore seduto di fronte a una signora seduta di fronte a lui.
Alla loro destra sinistra c’era una finestra
alla loro sinistra destra c’era una porta.
Non c’erano specchi eppure in quella stanza
profondamente ci si specchiava”.

Sono passati quasi quattro decenni. Tutto era iniziato ( finito mai) il 14 febbraio del 1984, avevo 38 anni.
Da anni sentivo forte necessità di un soccorso, alcuni amici poeti mi consigliavano un’analisi lacaniana, altri una junghiana.
Nel dubbio le iniziai tutte due, antico vizio.
Il dottore lacaniano aveva studio nel centro di Milano, sotto prestigiosi portici. Strano, da quella lussuosa portineria usciva quel giorno il plebeo odore buono di certi minestroni che si mangiano da bambini, salii di corsa, emozionata, credo che la mia prima parola al celebre lacaniano sia stata minestrone.

Il dottore junghiano aveva studio quattro gradini sotto il livello stradale, in un bel palazzo vicino alla Rai di Corso Sempione, con tutte quelle antenne, quelle grandi orecchie. Nessuno stava cucinando niente, credo che le prime o seconde parole siano state se Lei muore da chi vado?

La prima seduta lacaniana era durata meno di 30 minuti, non avevo fatto in tempo neppure a nominarli tutti quei miei svariati genitori che lui aveva detto può bastare.
La prima seduta junghiana dal Dott. B.M. ne durò 90. Riuscii a elencargli non solo tutte quante le figure genitoriali comparse sulla scena, ci fu addirittura tempo anche per le loro scomparse (3 su 4 al compimento del mio quarto anno di vita ).
Da lui mi aveva indirizzata la sua collega del Cipa Dott. Faretra (“astuccio per conservare sul dorso le frecce”) e la freccia del transfert scoccò con una velocità inaudita. Non c’era dubbio che mi avrebbe sposata, anche se forse non subito.

Splendidissima era la vita accanto a lui sognata.
Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava.
Enellarealtà?
La realtà non c’ era, era abdicata.
Splendidissima regnava la vita immaginata.

Abdicata da decenni: “con una bianca gomma / aveva cancellato l’inutile linea di confine”. A 10 anni giravo per cimiteri ebraici alla ricerca di nomi della mia famiglia d’origine, “ma errore, confondeva persecuzione e paese, i suoi avi giacevano dissanguati e quieti / in terra valdese”. A quindici credevo che una mia prof fosse mia consanguinea e scrivevo nel diario “oggi mi ha dato 4 (per non fare differenza con le altre)…. oggi mi ha dato 7 (la voce del sangue è stata più forte)”..

Quanto ha dovuto lavorare il mio Dottore! Non ve lo potete immaginare.
Anch’io però ce la mettevo tutta. Per meritare di essere sposata.
Manterrò in queste righe un tono lieve (“la mia superficie è felice /
ma venga venga a vedere / sotto la vernice”), ma è stata un’analisi drammatica e potente, ottovolante di sapienti accoglienze e rifiuti.

I mesi passavano, la mia mano non veniva richiesta. Per la mia testa abdicata, che il mio Dottore fosse già felicemente coniugato e con figlia contava zero di zero (io da mio marito Paolo Lamarque – che sempre mi incoraggiò a scrivere – ero separata, benché conservatrice abusiva del bel cognome, ). Infine capii: questione di deontologia, ero sua paziente, bastava non esserlo più, conclusi dall’oggi al domani l’analisi e iniziai un’euforica attesa. Continua a leggere

Amelia Rosselli, da “Sonno – Sleep”

Amelia Rosselli, Credits ph. Dino Ignani

Vi propongo qui alcune poesie tratte da “Sleep”, che Amalia Rosselli scrisse tra il 1953 e il 1966 in inglese. Le venti poesie trovarono una prima pubblicazione a cura di Antonio Porta nel 1989 che le tradusse (Rossi e Spera Edizioni) e una seconda pubblicazione nel 1992 con Garzanti a cura di Emmanuela Tandello.

Qui vi proponiamo la versione italiana di Antonio Porta.

Well, so, patience to our souls
the seas run cold, ‘pon our bare necks
shivered. We shall eat out of our bare hand
smiling vainly. The silver’ pot is snapped;
we be snapped out of boredom, in a jiffyrun.
Tentacles of passion run rose-wise
like flaming strands of opaque red lava. Our soul
tears with passion, its chimney. The wind cries oof!
and goes off. We were left alone with our sister
navel. Good, so we’ll learn to
ravish it. Alone. Words in their forge.

(1955)

Dunque, va bene, pazienza per le nostre anime
i mari sono freddi, sopr’i nostri colli nudi
tremati. Mangeremo dalla nostra mano vuota
sorridendo vanitosamente. La teiera d’argento è
sbattuta;
ci siamo liberati subito dalla noia, in un attimocorsa.
Tentacoli di passione corrono come fanno le rose
come fiammanti colate di opaca lava rossa. La
nostra anima
si lacera con passione, suo camino. Il vento grida uffa!
e se ne va. Fummo lasciati soli con nostra sorella
ombelico. Bene, dunque impareremo
a stuprarla. Sola. Parole nella loro fucina.

**

no i did not love you i see this clear again or think i do
find my heart fundamentally cold yet
it was before a stone of heat, begging
to aid you come to the final point
between us, and so again i part from you and
never must i seek again to find you helpless
in my grasp, never more shall i put the
ax between us never shall i run to you crying
see this music!

(1955)

no non ti volevo bene questo mi è ancora chiaro
o così credo io trovo il mio cuore essenzialmente
gelido
ma una volta era una pietra di fuoco, pregando
di aiutarti a venire al punto finale
fra di noi, e così ancora una volta ti lascio e
mai più devo cercare di trovarti indifeso
nella mia stretta, mai più metterò
la scure tra di noi mai più correrò verso di te
gridando
guarda questa musica! Continua a leggere

Lorenzo Carnevali, due poesie

Lorenzo Carnevali


Vergine delle rocce

Già tutto sapevamo, tutto
credevamo di sapere,
ma non c’è posto stanotte non c’è verso:

specchio segreto fedele
madre di braccia morbide
madre di rocce roride
rifugio di anfratti furtivi

Beata cosa tu, alla fine
arresa alla Torre di Babele

La casa del buon pastore

Non questa volta non adesso

Non tempo greve accumulo di delirio e divieto
non pioggia acida che affina lama e omicidio

La deliziosa fattura del nido
dove le Muse a convegno allevano
crisalidi e pargoli
distillare aure di mansuetudine
e care armonie date per perse

Dietro le spalle minacce di sagome e ombre
pur sempre memore la furia del Caos

Da: O. Nesci, L. Valentini, TerreRare Le Marche. Poesie di Lorenzo Carnevali, Argalia Editore, 2020 Continua a leggere

Mario Famularo, “Favēte linguis”

Mario Famularo

tredici anni, dico, e nemmeno una
parola. piuttosto parla il padre,
“è arrivata questa a casa”. la procura
della repubblica persegue una
bambina denunciata dalla madre.
maltrattamenti in famiglia, l’inizio
del reato corrisponde alla data
di nascita. voglio credere sia
una svista, certo, imperdonabile,
come l’espressione muta della piccola,
lontana da ogni cosa,
che appena muove il capo se le parlo.
del resto ogni parola sembra proprio
uno squilibrio, l’incanto del sistema
che costringe in uno scatto impersonale
di tagliola. io spero che qualcuno
le riservi una frattura da quest’ansa
di miseria. (al male non c’è cura)

*

un tempo era l’infanzia
profumi senza nome
confusa intonazione
di un addio

quell’espressione tenera
dal volto di bambina
la mente che ripara in una
sciocca fantasia

ma l’isola era verde
la brezza al tempo
amabile

perviene nel presente
col sapore di
tossine

fragore penetrante
che in un primo istante
soffoca

il dono del silenzio
chiamerai
dimenticanza

*

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Antonio Fiori, “I poeti del sogno”


Kevin Stafford
(Limerick 1941 – Dublino 1989)
Chi devo ringraziare per questa notte insonne
che senza luna splende di mistero?
È lei a tenermi sveglio in queste ore
– il suo volto dolce che riappare
sottratto al tempo che impietoso scorre.
È lei che ho accanto proprio ora
– la sua pelle, bianchissima nel buio
per miracolo è intatta, l’accarezzo.
È lei che canta la melodia che sento
– da un’altra età mi giunge ricantata.
Se mi chiedessero – quando vuoi morire?
risponderei che lo vorrei adesso.

1980

*
Estella Ruiz Blanco
(Valencia 1510 – Madrid 1554)
Nella notte furiosa
nessuno mi vedeva
ché torcia non portavo
e un manto mi copriva.
Ma non temevo nulla
perché nel cuore avevo
– e certo mi bastava –
la sua luce accesa.
1552
Irma Indovina
(Terracina 1910 – Roma 1948)
La tua primavera
Il tepore che ti ruba al presente
con calma ti prende e seduce
– soltanto alla sera ti lascia.
Attendi ogni volta un’altra primavera
e invece la stessa ripassa.
L’afrore lentamente evapora.
1938

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Ghiannis Ritsos, il mestiere del poeta

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

Di non molti altri poeti nel Novecento si può dire che abbiano assolto al loro primo mestiere — la poesia, appunto — giornalmente, quasi con la puntualità di chi sta timbrando un cartellino. Ghiannis Ritsos, classe 1909, originario del borgo peloponnesiaco di Monemvasia, tra i massimi autori della cosiddetta letteratura neogreca, è certamente uno di questi. Desta ammirazione, per non dire commozione, il paziente annotare (con strizzata d’occhio al lettore mon frère) le date, i giorni in rapide sequenze che sapidamente lasciano intravedere persino la combustione, l’acme e poi l’esaurimento di una vena espressiva non soltanto vorace, ma altresì iterabile nei suoi cangianti risvolti lirici. Di questa triplice silloge in un unico libro, in un conchiuso stigma, corredata della preziosa introduzione di Louis Aragon(mutuata a sua volta dall’edizione gallimardiana del ’71), sappiamo che è stata scritta tra il ’68 e il ’69, nel torno di tempo in cui Ritsos «era confinato nei campi di concentramento sulle isole di Ghiaros e Leros, e poi soggetto a domicilio coatto a Karlòvasi, nell’isola di Samo». Su tali pagine solide e saline, cariatidee e corrose dal flusso puntellatore del divenire, pesa il lusinghiero giudizio di Aragon, il quale suggerisce con un certo entusiasmocome Ritsos sia «il più grande poeta vivente di questo tempo che è il nostro».

Sicuramente Ritsos è un maestro nell’equilibrio (tutto modernista, eliotiano) tra la quotidianità e il risorgere sommesso della storia, del mito («Forme mobili, disfatte; — l’inquietudine molteplice/ e la fluidità insidiosa — sentire il rumore dell’acqua tutt’intorno/ imponderabile, profondo, incontrollabile; e tu stesso incontrollabile,/ quasi libero», Disfacimento). L’orecchio di Ritsos, allenato alla camusiana pensée méridienne, sembra adoprarsi a un ascolto furtivo, che spesso ha il carattere rivelatorio dell’occasione («Soffiò un vento improvviso. Le pesanti persiane cigolarono./ Le foglie si sollevarono da terra. Fuggirono via./ Non restarono che le pietre. Dobbiamo arrangiarci con queste adesso», Con queste pietre). È possibile ravvisare un’evoluzione intrinseca, una nuova consapevolezza nelle poesie diaristiche che vanno dalle Pietre alle Sbarre? Be’, innanzitutto, c’è un’evoluzione materica, in senso letterale e letterario, dunque stricto sensu (ossia al di là di ogni materialismo storico, benché siano note le posizioni ideologiche del poeta greco, la cui candidatura al Premio Nobel fu letta in maniera pregiudiziale proprio a causa del suo orientamento politico). Continua a leggere

Vittorino Curci, “L’ora di chiusura”

Vittorino Curci

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

La poesia di Vittorino Curci – come quella del tedesco Jan Wagner e del cubano Víctor Rodríguez Núñez – parte da un elemento (grafico) che potrebbe sembrare trascurabile, ma che invece nasconde in sé una decisa dichiarazione di poetica: la presenza pressoché totale di lettere minuscole (anche e soprattutto dopo segni d’interpunzione forte). Ciò sta a evidenziare l’umiltà (jaccottettiana) della parola, del linguaggio lirico. Non la sfiducia e l’inaffidabilità à la Pessoa, ma il suo essere oggetto modesto e discreto. La poesia stessa appare come qualcosa di trascurabile, di infimo addirittura, di profondamente terrigno.

La sua celestialità risiede proprio nel contatto ancestrale con l’humus, con le piccole cose al di là di ogni significanza minimale (e senza alcuno spettro crepuscolare, ma con una notevole carica metafisica).

Dal piccolo, da ciò che è deferente, nasce quella magnificenza che il poeta sa cogliere e vuole offrire agli occhi del lettore, rovesciando ogni razionale prospettiva e delineando un inatteso “stacco” verticale che collega d’emblée la natura stessa della letteratura agli universali. Curci, amante di Trakl e del pensiero filosofico, musicista jazz e teorico della poesia, si inserisce in questo solco di dimessa oracolarità, cercando di trarre conoscenza ed ethos dalle esperienze che la poesia – con la sua incerta circumnavigazione dell’esistenza – pone allo sguardo interrogatorio e orante di chi è disposto all’ascolto.

brancola ogni forma di obbedienza
in questa sera bituminosa di febbraio.
tutto sarà fatto con calma,
dalla veglia in poi, dalle istruzioni
al ventottesimo giorno.
il nostro sabotaggio del reale
procede senza intralci.
abbiamo lune tatuate sul petto
e la capacità di intuire
il significato di parole sconosciute.
stiamo facendo il possibile
per adattarci ma non è facile.
ieri, domenica, mentre
traslocavamo per la terza volta,
abbiamo ricostruito a memoria
la nostra casa Continua a leggere

William Carlos Williams, “La primavera e tutto il resto”

William Carlos Williams

La primavera e tutto il resto (1923) è la precoce testimonianza di una fra le più inesauste e febbrili esperienze di poesia del Novecento.

Scritto dal grande poeta modernista americano William Carlos Williams come risposta alla pubblicazione di The Waste Land di T.S. Eliot del 1922, La primavera e tutto il resto è un prosimetro che raccoglie i versi giovanili che egli riteneva migliori e mostra quanto l’esperienza dell’arte cubista e la violenza della grande guerra appena conclusa avessero destrutturato ogni scrittura e reso necessaria una radicale apertura verso un’incognita vita nova.

Ne risulta un’opera fremente, mossa, spezzata, liberata da ogni piaggeria formale, in cui il poeta pone al centro il tentativo di una rinascita dell’intera cultura Occidentale grazie all’immaginazione, intesa però come l’unica forza capace di far sostare il lettore su ciò che da sempre gli è stato tolto, ovvero il momento attuale, l’adesso, dove ognuno di noi possa infine ritrovare se stesso.

ESTRATTI

Se qualcosa del momento verrà fuori – tanto meglio. E più probabilmente ciò accadrà, tanto più non ci sarà nessuno che vorrà vederlo.

C’è una costante barriera tra il lettore e la sua consapevolezza dell’immediato contatto con il mondo. Se c’è un oceano, è qui. O piuttosto, l’intero mondo è nel mezzo: Ieri, domani, Europa, Asia, Africa, – tutte le cose remote e impossibili, la torre della chiesa di Siviglia, il Partenone. Continua a leggere

L’amicizia fra Castor Seibel e Giacinto Scelsi

Domenico Brancale cura per PROVA D’ARTISTA Un’amicizia – Castor Seibel e Giacinto Scelsi. La nota di questa amicizia artistica e profonda è per Domenico Brancale, il Mi, la terza nota della scala musicale, l’unica priva di diesis e di bemolle come se Brancale volesse affermare la verità umana nell’assolutezza del suono della parola: l’amicizia fra due persone emette un suono netto, definito, privo di  “alterazioni”, perché  per Brancale, è un dialogo infinito, perenne, che non può esistere senza l’essere umano, così come la musica non può esistere senza il suono.

(Luigia Sorrentino)

 

ESTRATTO

Antifona

per Sharon Kanach

M’illumino / d’immenso – la poesia di Giacinto Scelsi, se solo fosse capace di definirsi, potrebbe certo fare suo questo grido di Giuseppe Ungaretti.

Sant’Agostino confessa: “A chi mi rivolgo quando mi rivolgo a Dio? Alla luce che è in me.” Come parlare dunque, in altri termini, della poesia? Lei che, con ogni poeta genuino*, estende i suoi confini? Sant’Agostino, per continuare: “Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so bene, ma se mi chiedono di spiegarlo, non lo so più.”

La poesia – quando c’è poesia – rifiuta e distrugge ogni tentativo di spiegazione. La poesia è, punto e basta.

È lei che porta l’uomo verso il suo interno che è spazio illimitato. Come, come voler spiegare la poesia quando è lei stessa che spiega il mondo!

Per Giacinto Scelsi, poesia e suono costituiscono questo spazio illimitato, questa luce che ci unisce all’universo.
L’uomo e l’universo, così pensati, fanno un tutt’uno: ma solo così. Lui, Scelsi, si vuole messaggero!
Imbevuto, compenetrato, impregnato di ciò che ascolta in se stesso e che trasforma in poesia verbale o musicale, ce lo comunica al più alto grado d’incandescenza, laddove l’incanto – incantesimo**, dice lui – comincia ad agire.
Scelsi si immagina come semplice veicolo attraverso cui passa ciò che, continuamente, è in divenire.
Attenzione però a non sbagliarsi: il chiaro non deriva dal chiaro ma dall’oscuro, dalla notte più profonda, come dice Henri Michaux, amico di Scelsi, “oscurità antro da cui tutto può scaturire, in cui tutto bisogna cercare, dal lato più oscuro della notte”.

Ecco! La noche oscura e la nada di San Juan de la Cruz.

Notte che genera luce, come il diamante, che viene dall’antracite informe del carbone e che, sotto l’immensa energia di una pressione millenaria, si cristallizza.

Colui che vuole rendere la luce sul foglio bianco, cominci con il tratto nero della grafite.

Giacinto Scelsi: la sua ossessione per le forme geometriche, luogo elevato in cui musica e poesia si congiungono. La sua geometria è ascensionale, poiché va verso la trasfigurazione di se stessa.
Poetica di forme che suscitano l’emozione estetica: visione poetica della nostra esistenza terrena. Forme che si esaltano, parossismo dei loro stessi contorni nella metamorfosi che solo può l’amore di un cuore ardente, quello di Giacinto Scelsi, che immaginava lo spirito come una luce viva sull’anima.

Castor Seibel
Parigi, gennaio 2006

* In italiano nel testo
** Testo apparso nel volume Giacinto Scelsi, L’homme du son, Acte Sud, Arles 2006 Continua a leggere

Angela Leighton, “A Lighthouse”

Angela Leighton

La poetessa e studiosa inglese Angela Leighton ha scritto una poesia per commemorare Anne Stevenson, che ci ha lasciato il 14 settembre di quest’anno. È stata pubblicata su TLS, The Times Literary Supplement, del 16 ottobre.

Amica di Anne da molti anni, Angela ha voluto ricordare con i suoi versi alcuni aspetti del suo carattere ben noti a lei e ai suoi lettori, quali l’impegno serio e costante nella poesia, durato una vita, e il sense of humour che la portava a fare un uso giocoso del linguaggio e le permetteva di affrontare con spirito lieve anche i momenti per lei più dolorosi.

Anne Stevenson

Anne Stevenson aveva da poco pubblicato quello che lei stessa prevedeva sarebbe stato il suo ultimo libro, dal titolo profetico, Completing the Circle (che ha voluto dedicare alla sua traduttrice italiana).

Il titolo è tratto dalle Elegie Duinesi di Rilke e, come lei stessa dice, esprime il lungamente meditato convincimento che “la morte è il giusto e naturale completamento del cerchio che accettiamo e riconosciamo essere la vita”.

Questa consapevolezza serena riecheggia fin dalle prime parole della poesia di Angela Leighton, in cui l’amica ricorda una frase scherzosa di Anne a commento dei suoi disturbi cardiaci : “Ariel flutters” . È un gioco di parole, purtroppo intraducibile, basato sull’assonanza tra il nome di Ariel, lo spirito dell’aria, uno dei personaggi della commedia La tempesta di William Shakespeare, e “atrial flutter”, il termine medico che indica la fibrillazione atriale, un’aritmia cardiaca che i pazienti avvertono come uno sfarfallio del cuore. Ha voluto lasciarci con un sorriso. Continua a leggere

Luigia Sorrentino, poesie

Luigia Sorrentino, gennaio 2020

nascosto nella tana dorme il bosco

le mani non sostengono più niente
piccole ossa, radici pietrose
di alberi accresciuti
dal seme oltre misura

l’eterno, la cosa compiuta
nella parola, appare in un coro

**

totale il sentiero della terra

la piccola forma della luce
è una fiamma,

innerva il collo
nel ritmo del torace

così dispiegata nel vento,
nello stesso petto discende

aderendo, siamo succo denso,
qualsiasi cosa, aperta e vuota

mostrata senza palmo
la sua essenza liberata
con la stessa devozione
del tradimento, di tutte le parole
si consuma l’intero universo

**

la massa del fiore
corolla di inesauribile accoglimento
urta il vento

incalcolabile il pianto, dai nudi
occhi scivola,
non è più sua
la piccola vita, si mette via

interrogata trema
fra i tronchi degli alberi

canta, così canta
tutta la notte adagiata Continua a leggere

La parola, il valore della testimonianza

Perché scrivere? Quale impulso muove da secoli l’uomo a narrare storie? È l’interrogativo da cui parte la riflessione di Franco Rella, facendo appello al bagaglio di letture accumulate nel corso della propria vita e interpellando gli autori che più lo hanno segnato. Da Dante a Cavalcanti, da Shakespeare a Benjamin, e poi Goethe, Kafka, Bataille, Roth, senza dimenticare i classici greci e latini, non esiste narratore che non si sia posto l’interrogativo e che non abbia cercato di spiegare – e spiegare a sé stesso – la realtà che ci circonda. L’esigenza di raccontare nasce proprio da quella realtà, e chi scrive può manipolarla, far interpretare la parte del protagonista a un personaggio di finzione, per poi rendersi conto che la protagonista assoluta della narrazione è la parola stessa, unica difesa che l’uomo abbia contro il male, unica arma capace di organizzare l’immagine del mondo e della realtà, come in un ideale inventario che raccolga tutte le esperienze vissute. Quella stessa parola che Pasolini suggeriva di usare con cautela, che per il solo fatto di portare con sé «un carico d’anima» legittima l’altrimenti insensata attività di scrivere.

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Paola Febbraro (1956 – 2008)

Paola Febbraro

 

Se s’avvicina ciò che di me è stata
senza differenza tra chi ci fa nascere e chi ci abbandona
non è di poco conto una domanda
se non è di muoversi di stanza in stanza
ma occupar le stanze dire
non cerco strade non voglio camminare ma stare
in casa a più piani a più riprese d’ossigeno e di rose
dire: ce l’ho da fare

II

Se s’avvicina ciò che di me è stata
interrotta
allora mi allontana la sconfitta
come se non fossi stata io
convertita

ho fretta
voglio invecchiare
come la terra che sotto ha l’animale.

III

Se s’avvicina ciò che di me è stato
insonne sogno di clausura mio possesso lotta
per la supremazia dello spavento

allora trema e tremi la ragione
di uno stato terremoto
mio sesso nato da sesso uguale.

*

Ogni soffio di vento è una lama di gelo

scricchiola un velo diventato dal freddo
La natura fa visibile il respiro di anime e viceversa.
Nate comunque d’inverno
lode al Vostro silenzio e al Nostro
sesso dal primo respiro.

Da Turbolenze in aria chiara, Empiria, 2008 Continua a leggere

Maria Polydouri (1902-1930)

Maria Polydouri

[Oh, abbassate questa luce]

Oh, abbassate questa luce!
E’ notte, a cosa serve?
Il giorno è finito.
Chissà se il sonno nascosto
qui vicino, attende

solo un istante gli impedisce
di arrivare.
Ho l’anima in bocca,
le lacrime mi hanno lasciata
il petto è stanco.

Portate via la luce! E’ tempo
di rimanere sola.
E’ finito l’inganno della vita.
Ogni sforzo è nemico
alla suprema lotta.

Il tormento non mi abbandona.
Qualcosa resta
per ingannare la notte,
un po’ di calore si è chinato
sopra il mio occhio inquieto.

Portate via la luce! E’ il momento.
Lo voglio tutto per me.
E’ l’ora di addormentarsi,
portate via la luce! Mi fa male…
ho l’anima in fiamme.

(traduzione di Mario Vitti, rivisitazione di Luigia Sorrentino)

Quasi 28 anni dopo, il 29 aprile 1930, avendo già vissuto una vita affascinante, ma anche “spudorata” per l’epoca, la grande poetessa greca, nota anche per il suo amore con Kostas Karyotakis, muore per un’iniezione di morfina presso la clinica Christomanos in Patissia.
Poco prima aveva chiesto al suo buon amico ed “eterno ammiratore”, Vassilis Gentekos, di fornirle il farmaco all’ospedale dove si trovava, poiché aveva contratto la tubercolosi.

 

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Amelia Rosselli (1930 – 1996)

Amelia Rosselli /credits ph Dino Ignani

Da “Variazioni belliche”

Se per il caso che mi guidava io facevo capriole: se per
la perdita che continuava la sua girandola io sapevo: se
per l’agonia che mi prendeva io perdevo: se per l’incanto
che non seguivo io non cadevo: se nelle stelle dell’universo
io cascavo a terra con un tonfo come nell’acqua: se per
l’improvvisa pena io salvavo i miei ma rimanevo a terra
ad aspettare il battello se per la pena tu sentivi per
me (forse) ed io per te non cadevamo sempre incerti nell’avvenire
se tutto questo non era che fandonia allora dove rimaneva
la terra? Allora chi chiamava – e chi rinnegava?
Sempre docile e scontenta la ragazza appellava al buio.
Sempre infelice ma sorridente mostrava i denti. Se non
v’era aiuto nel mondo era impossibile morire. Ma la morte
è la più dolce delle compagnie. La più dolce sorella era
la sorellastra. Il dolce fratello il campione delle follie.

*

da “Serie Ospedaliera”

Di sollievo in sollievo, le strisce bianche le carte bianche
un sollievo, di passaggio in passaggio una bicicletta nuova
con la candeggina che spruzza il cimitero.

Di sollievo in sollievo on la giacca bianca che sporge marroncino
sull’abisso, credenza tatuaggi e telefoni in fila, mentre
aspettando l’onorevole Rivulini mi sbottonavo. Di casa in casa

telegrafo, una bicicletta in più per favore se potete in qualche
modo spingere. Di sollievo in sollievo spingete la mia bicicletta
gialla, il mio fumare transitivi. Di sollievo in sollievo tutte

le carte sparse per terra o sul tavolo, lisce per credere
che il futuro m’aspetta.

Che m’aspetti il futuro! Che m’aspetti che m’aspetti il futuro
biblico nella sua grandezza, una sorte contorta non l’ho trovata
facendo il giro delle macellerie.

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BIOGRAFIA

Un episodio marchiò la vita e l’opera di Amelia Rosselli, un episodio a far capire che scrivere e vivere sono una cosa seria, e molto spesso sono la stessa cosa, soprattutto quando segnati da una tragedia: l’assassinio nel 1937 del padre, Carlo Rosselli, e del fratello di questi, Nello, durante la Resistenza antitifascista. Continua a leggere

Paul Celan, “Conseguito silenzio”

Paul Celan

Der Andere

Tiefere Wunden als mir
schlug dir das Schweigen,
gröBere Sterne
spinnen dich ein in das Netz ihrer Blicke,
weiliere Asche
liegt auf dem Wort, dem du glaubtest.

L’altro

Piú profonde ferite che a me
inflisse a te il tacere,
piú grandi stelle
ti irretiscono nella loro insidia di sguardi,
piú bianca cenere
giace sulla parola cui hai creduto.

*

Auch wir wollen sein,
wo die Zeit das Schwellenwort spricht,
das Tausendjahr jung aus dem Schnee steigt,
das wandernde Aug
ausruht im eigen Erstaunenund
Hütte und Stern
nachbarlich stehn in der Bläue,
als ware der Weg schon durchmessen

Anche noi vogliamo essere,
dove il tempo dice la parola di soglia,
il millennio giovane si alza nella neve,
l’occhio errante
si calma nella propria sorpresa
e capanna e stella
stanno nel blu da vicini di casa,
come se la strada fosse già percorsa.

da “Conseguito silenzio” a cura di Michele Ranchetti, Einaudi, 2010 Continua a leggere

Giancarlo Pontiggia, “Voci, fiamme, salti nel buio”

Giancarlo Pontiggia, credits ph Dino Ignani

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

Dopo “Il moto delle cose” Giancarlo Pontiggia torna a sorprendere il lettore con un’opera di rara intensità emotiva: “ Voci, fiamme, salti nel buio”, (Stampa 2009).

L’opera, divisa in due poemetti, – “Il camion e la notte” ed “Animula”- evoca un viaggio onirico che prende le mosse “in un vecchio cortile lastricato di beole grigie”.

E’ in questo spazio di quotidiana semplicità che ha inizio lo scivolare lieve e dolce tra le cose del mondo, quel “ perdersi in quei meandri favolosi/ sogni slanci chimere / tutto ciò che affonda nella vita”, che ti trasmette la gioia voluttuosa di perdersi in un oceano, la vertigine suprema di non essere più nessuno. Ci si ritrova così a contatto con la dimensione più autentica e vera della vita, che si squaderna davanti al lettore in tutte le sue forme, nel suo continuo farsi e disfarsi, nei suoi cambiamenti e nelle sue persistenze, mostrando “quanta notte è ovunque, quanto nero / tra le cose del mondo”. Questa lenta discesa all’origine del tutto è sottolineata dall’andamento della lingua che, da una pacata narratività dei primi componimenti, diviene – in particolare nel secondo componimento intitolato ”Animula”- sempre più magmatica: una moltitudine di materiale linguistico che prende direzioni inaspettate, raggrumandosi in forme inattese che si sfaldano per assumere nuova consistenza.

Il lettore si sente coinvolto dal martellìo costante della lingua e si trova a vorticare tra le parti che compongono il mondo, partecipando “all’inerzia delle cose”.

Con questi componimenti Giancarlo Pontiggia ci porta nella “notte, improvvisa, / con il suo mantello di nuvole scure…” in cui ha sede la poesia o, meglio, la sua origine.

La notte di cui parla Pontiggia altro non è che una dimensione spirituale in cui si ritrova il poeta nella più completa solitudine, in attesa che la parola si depositi.

Scrive Cristina Campo: “ come la manna di Sant’Andrea nella cavità dell’ampolla, il destino si forma nel vuoto in virtù delle stesse leggi complementari che presiedono al nascere della poesia: l’astensione e l’accumulo. La parola che dovrà prendere corpo in quella cavità non è nostra. A noi non spetta che attendere nel paziente deserto, nutrendoci di miele e locuste, la lentissima e istantanea precipitazione. Che è breve e non ripetibile”.

L’esperienza del sorgere della poesia ha qualcosa di simile ad una tensione mistica. Continua a leggere

Sheenagh Pug, poesie

Sheenagh Pug

Blue Plaque and Memorial Bench

i.m. George Mackay Brown

Every year, if I can, I’ll walk down
that street, as far as the flat

that was yours. I’ll read the blue plaque
on the wall, telling how long

you lived there, how long you were happy
to have no more of the world

than this. And then I’ll walk on
a little way, to the bench

they have named for you. It looks over
the harbour mouth, where the ships

come and go, where Franklin sailed out
into myth, where the men from the north

first entered this place and possessed it
by naming it. Here where you sat

and watched the whole world, living
and dead, come in on the tide.

Targa blu e panchina commemorativa

i.m. George Mackay Brown

Ogni anno, se potrò, camminerò
per quella strada, fino all’appartamento

che fu tuo. Leggerò la targa blu
sul muro, che dice per quanto tempo

hai vissuto lì, per quanto tempo ti è bastato
non avere altro dal mondo

che questo. E poi camminerò
ancora un po’, fino alla panchina

che ora porta il tuo nome. Guarda
l’imboccatura del porto, dove le navi

vanno e vengono, da dove Franklin salpò
verso il mito, dove gli uomini del nord

per primi entrarono e se ne impadronirono
dandogli un nome. Dove tu sedevi

a guardare il mondo intero, i vivi
e i morti, arrivare con la marea. Continua a leggere

Dylan Thomas, una poesia

Dylan Thomas

SPLENDESSERO LANTERNE

Splendessero lanterne, il sacro volto,
Preso in un ottagono d’insolita luce,
Avvizzirebbe, e il giovane amoroso
Esiterebbe, prima di perdere la grazia.
I lineamenti, nel loro buio segreto,
Sono di carne, ma fate entrare il falso giorno
E dalle labbra le cadrà stinto pigmento,
La tela della mummia mostrerà un antico seno.

Mi fu detto: ragiona con il cuore;
Ma il cuore, come la testa, è un’inutile guida.
Mi fu detto: ragiona con il polso;
Ma, quando affretta, àltero il passo delle azioni
Finché il tetto ed i campi si livellano, uguali,
Cosí rapido fuggo, sfidando il tempo, calmo gentiluomo
Che dimena la barba al vento egiziano.

Ho udito molti anni di parole, e molti anni
Dovrebbero portare un mutamento.

La palla che lanciai giocando nel parco
Non è ancora scesa al suolo.

Dylan Thomas, nella traduzione di Ariodante Marianni, Einaudi, 1965 Continua a leggere

Ol’ga Sedakova, Premio Lerici Pea 2020

Ol’ga Sedakova

LA ROSA CANINA

La rosa canina
E ti dispiegherai nel cuore allargato della passione, rosa canina,
oh,
giardino piagante della creazione!
Rosa canina e bianca, bianca più d’ogni fiore.
Chi ti nominerà, convincerà anche Giobbe.
Ma io non parlo, sparendo nella mente allo sguardo amato
senza togliere gli occhi,
senza staccare dalla siepe le mani.
La rosa canina
se ne va, Giardiniere severo,
che non sa la paura,
– con la corolla porpora,
nascosta piaga di compassione, sotto la camicia bianca.

(Solo nel fuoco si semina il fuoco, Edizioni Qiqajon, 2018, traduzione dal russo di Adalberto Mainardi)

ДИКИЙ ШИПОВНИК

Ты развернешься в расширенном сердце страданья,
дикий шиповник,
о,
ранящий сад мирозданья.

Дикий шиповник и белый, белее любого.
Тот, кто тебя назовет, переспорит Иова.

Я же молчу, исчезая в уме из любимого взгляда,
глаз не спуская и рук не снимая с ограды.

Дикий шиповник
идет, как садовник суровый,
не знающий страха,
с розой пунцовой,
со спрятанной раной участья под дикой рубахой.

 

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Rilke, la percezione del terribile

Rainer Maria Rilke

COMMENTO DI MARIO FAMULARO

La parola poetica deve essere, per Rilke, una parola svuotata del peso dell’io e fatta essere lo spazio puro in cui si trascrive l’esperienza del «contatto» con le cose, quel contatto che un poeta «senza nome» esperisce con le «cinque dita della mano dei sensi». La questione della parola – il suo come – è pertanto strettamente connessa sia alla necessità di un esercizio di estrema riduzione del sé, sia alla necessità di dire dell’intimità estranea che ci lega alle cose.”

(Daniela Liguori in “Rilke e l’Oriente”, Mimesis, 2013)

Le poesie contenute in “L’Angelo e altre poesie” (Via del Vento Edizioni, 2003, traduzione di Roberto Carifi) riescono a restituire, con una selezione accurata, la cifra stilistica e tematica del Rilke più maturo, quello che, incorporato serenamente l’orrore della morte e della dispersione (ricorrente, ai limiti della novella gotica, nei racconti giovanili di “Totentänze”), si fa voce impersonale dell’assoluto, strumento nelle mani del tremendo e del magnifico, parola commossa che si lascia nominare da quella stessa bellezza che “disdegna di distruggerci”.

Ed ecco che in “Morte del poeta” i versi mostrano la gioia nascosta di essere “una cosa sola / con queste profondità, con questi prati”, in uno splendore invisibile a “chi lo vide vivere”, nonostante il suo viso fosse sia “le acque” che “la vastità del tutto”, quel tutto che lo desidera, “lo reclama” – fino a collegare la maturità della dissolvenza dell’esistere al frutto caduto dall’albero, la cui polpa “nell’aria si corrompe”.

La percezione del terribile, intrecciata alla rivelazione della bellezza nascosta nel mistero delle cose, viene poi paragonata “all’impacciato incedere del cigno”: nuovamente vi è il richiamo alla morte, a una fine serena e compenetrata nel quotidiano, priva di angosce, che si avverte come profondamente naturale.
Nonostante nella consapevolezza della nostra fine dilegui “il fondamento / del nostro stare quotidiano”, essa rivela un’accoglienza felice, “mite”: così come il cigno è “padrone di sé e sempre più regale”, capace di reggere l’abisso della sua “discesa ansiosa” sotto le acque, allo stesso modo l’uomo che ha fatto proprio l’orrore della dissolvenza e della morte, riuscendo ad accedere al segreto più sacro e intimo dello splendore delle cose, “in dignitoso distacco avanza”.

Sarà sempre Rilke, nella nona elegia duinese, in uno stato non dissimile a quello estatico, a ribadire: “Terra … non sono più necessarie / le tue primavere a guadagnarmi a te –, una, / ah, una sola è già troppo per il sangue. / Senza nome, da tanto, a te mi sono votato. / Sempre fosti nel giusto, e la tua sacra scoperta / è la familiarità con la morte.” Continua a leggere

Christian Sinicco, “Alter”

Christian Sinicco

Da Città esplosa

vidi
un occhio, e saltai l’azzurro
lontano: lo spazio violentava non meno

una città esplosa
di colpo e frenetica
su orizzonti di cielo
con la velocità della bomba
(e in sussulto
in preghiera
calma, il fluido denso
annegare nel caldo violetto di una
radiazione)

l’universo
una città nella stella e
vuoti erodere i motori come vento
tra rovine di civiltà, al collasso
i vapori salire per ricadere

come pioggia,
atomi… fra le ceneri gas di vestiti,
bambini dalle teste dorate rotolanti
nella sabbia, indossare nudi questo bacio

quando la palpebra chiude
forme creare dall’informe

*

quando fra i ruscelli che portano alla metropoli
sgorga e scompare la pozzanghera del cosmo
sulla notte che cade come un’arpa rossa
sul pulviscolo acre rimbombano gli ottoni:
ecco un ragno dove musica la pioggia
forgiare la ragnatela
dei suoni

sulle antiche case e le poltrone grigie
dei brandelli ammassati di una creazione evoluta
nei pergolati bui del cervello veloce
nelle corse luminose dei propri motori
le spire audaci dagli sbuffi ornamentali
vorticano tentacoli che erodono il cemento
meditano piramidi e il triclinio fra gli alberi
capovolti e sderenati che svaporano fra i gas
mutano con le ombre nei silenzi e fra le pause
la sinfonia dei corvi è mangiata dai gabbiani
rosa nell’alba gialla e nucleare
bianchi fra i detriti tra le case
antiche, ridotte a nulla
con occhi e cascate
bruciate oramai,
i vapori

ed appesi come lingue
i sopravvissuti
ragni
muovono sul pulviscolo acre rimbombano gli ottoni
sulla notte che cade come un’arpa rossa Continua a leggere

Enrico Fraccacreta, “I cigni neri”

Dalla spiaggia scura del lago
i cigni neri prendono il largo,
così eleganti i cigni neri
con quei becchi rossi scintillanti
attendono la corsa dei ragazzi
a volte confusi nella mente.
Si stringono le mani emozionati,
li portano alla gara sulla riva
con gli occhi alla bandiera del maestro
lo sparo e il pugno in cielo dell’autista.
Mario che salta in prima fila
perde tempo guardandosi le gambe
Fuggianill di lato passa avanti
stringe i denti sul colosso di Rodi
Filippo cambia marcia e corre dalla madre
spinge Federico II uscito dal castello
che si volta e cerca Graziellina,
non ancora partita
convinta di doversi ancora sposare
s’aggiusta i capelli sulle onde
sbatte le ciglia nell’aria imprigionata,
l’applauso partito dalle nuvole
che alza in volo i cigni neri
navigatori del sortilegio,
nel filo d’orizzonte quando scocca
la campana dell’ultimo giro
sul filo del traguardo stanno urlando
i cigni liberati dalle piume.

*

A lezione di botanica ci fa un cenno la mimosa,
gli ultimi ciclamini addirittura si presentano
quasi volessero esserci ancora,
dopo la pioggia la primavera spinge
le erbe crescono sotto i nostri occhi,
le corolle si spalancano quando ci chiniamo a studiarle
anche il bosco è vanitoso.

Anna è seduta sotto un gelso bianco
con l’indice della mano fa cerchi sulla torba
forse ricorda qualcuno,
per la prima volta la sento parlare
mormora che un’atmosfera
si annuncia con il profumo del vento leggero,
di solito pesca la giovinezza della menta
prima di diventare un incantesimo,
lei è sorella degli stati d’animo
insieme corrono, s’inseguono a vicenda
giocando nel paesaggio,
poi si accordano per cercare l’ultima sorella
quella ribelle che sparisce e fatichi a ritrovarla
perché si nasconde, potrebbe essere ovunque
anche qui, mimetizzata nel verde delle piante
la speranza. Continua a leggere