Æschylus, AGAMEMNON

A N T E P R I M A    E D I T O R I A L E

di Luigia Sorrentino

Nanni Cagnone, uno dei maggiori poeti contemporanei, propone nel 2020, la revisione della sua traduzione dell’Agamennone di Eschilo.  La raffinata edizione pubblicata nel 2010 da Emilio Mazzoli è infatti andata esaurita. La nuova pubblicazione è, come la prima, arricchita dal “racconto per figure” di Mimmo Paladino. I linguaggi di due grandi artisti si incontrano nella magnificenza espressiva del primo grande tragico greco: Eschilo, lirico altissimo e ardito.

 

Æschylus, AGAMEMNON
Traduzione e cura di Nanni Cagnone
Racconto per figure di Mimmo Paladino
Edizioni Galleria Mazzoli, Modena 2020

“La prima edizione dell’Agamemnon da me curato per le Edizioni Galleria Mazzoli risale al 2010. Il tempo tiene ad essere impietoso, e i dieci anni trascorsi m’hanno indotto a rivedere il saggio introduttivo, la traduzione e alcuni criteri testuali. Ad esempio: ho eliminato il blank che in ogni edizione dei testi greci segue l’apostrofo, il quale è evidentemente una legatura, perciò insensato separarlo dalla parola a cui con fonetico affetto si rivolge. Mi chiedo: possibile che non si dubiti mai d’u­na convenzione, neppure quando è debole o infondata? Perché tutti ossequenti?”

Nanni Cagnone

Mimmo Paladino, Tavola per l’Agamemnon di Eschilo (2010)

 

 

EXORDIUM
di Nanni Cagnone

Savona, terza liceo: Επτ π Θ ας. Fu cosí ch’Eschilo mi tenne suo debitore. E cosa eguale meritai da Gerard Manley Hopkins.Trent’anni dopo – con tardivo riguardo ai debiti – tradussi The Wreck of the Deutschland e presi a pensare distrattamente ad Agamemnon. Ma intravedevo fatiche, mi dicevo: chi vorrebbe biasimarmi per non aver ripagato un greco del v secolo?

Se una delle sue risapute versioni m’avesse contentato, oziosamente
avrei lasciato perdere. Costernazione, invece, di cui può farsi merito non chi tradusse per comprovare un commento (sia pure senz’approfittarne interamente, per inadeguatezza espressiva), ma chi – dando prova d’incuria filologica e candore ermeneutico – mi forzò a sperare almeno in qualche virtù formale.

No, nessuno stile—tutt’al più, buone maniere, senza ritmo, energia, adeguata dispositio. Nessuno che provi mai a sgranchire la lingua.

Di volta in volta: incondizionata obbedienza a un’edizione critica; ossequio per la normalità semantica e i costrutti ordinari; complementare diffidenza per l’hapax e profilattica simpatia per la lectio facilior; espunzione di quel che a noi moderni pare astruso; penosi sforzi per soddisfare con una metrica locale una lingua che aveva quantità sillabiche non paragonabili, e un accento melodico senz’accordo con l’ictus.

E, sopra ogni cosa, un assiduo parafrasare — la peggior ingiuria, secondo me, per un poeta, poiché del testo non si trattiene che il riferimento. Tropi ridotti alla ragione, addomesticati, e testo sottomesso a epesegesi: più che tradotto, divulgato.
Congratulazioni a chi rivestì d’attualità l’autore al fine di renderlo meno impresentabile, e lode al vecchio acume pedagogico che insegnò a volgere in prosa la poesia.

Storia della tradizione e critica testuale: un’assidua officina, un gran lavoro; ma quanti passi indecidibili, loci desperati che invitano a rassegnate congetture. E si dovrà ammettere che le iniziative di taluni traduttori fanno rimpiangere le interpolazioni dei «too thinking copyists».

Ripeto quel che scrissi a proposito di The Wreck of the Deutschland:
«[…] ‘Non t’avvedi di quanto manca alle immagini per essere come le cose di cui sono immagini?’ ( κ α σθ νει σ υ νδ υσιν α ε κνες τ α τ  ειν κε’ν ις (ν ε κνες ε σ’ν;).

La domanda di Socrate nel Cratylus dovrebbe colpire l’attività dispendiosa di chi si disponga a tradurre poesia, apparentemente tentando sinonimi italiani dei lemmi inglesi. Ogni traduzione sarà un corpo per sempre incoativo […] nella persuasione innocente che all’impossibilità – per il traduttore – di scomparire si aggiunga l’utilità di non farlo, esponendo invece la propria estraneità. […] Traduzione non sarà il testo italiano, bensí la riluttante proporzione tra le lingue affrontate. […] È da tale attrito, da tale incertezza bilingue, che si può imparare l’originale— impararlo ricordando la traduzione.
Comprendere è già tradurre, come lo è volgere una musica in danza, ma ci si deve guardare dal comporre, traducendo, un commento interno, a conforto dell’interpretazione.

Dunque, tradurre quel che il testo dice, e non quel che ‘vuol dire’. Quanto a me, ho preferito questi criteri: una ritmica, non una metrica; resistere riguardosamente accanto al testo, accettando d’impoverirlo; non tentare di chiarire in italiano le oscurità dell’inglese; non imitare l’ansia di chi vuol salvare le piccole felicità fonetiche; svalutare parzialmente le parole consigliate dal metro o chiamate dalla corrispondenza del suono; approfittare, ma senza servitù, dell’operosità etimologica».

La catena alimentare che ha principio con Tántalos e Pélops, e raggiungerà l’ultimo degli Atridi, è cosa di cui gli Ateniesi avevano cognizione. Questo è un teatro mnemonico, ove pretende accadere ancora il già accaduto, far ritorno l’incompreso, e una necessità (anche narrativa) fa spreco del possibile.

Perché questa genealogia dei dolori, questi sentimenti inferiori? Sudditi della Storia, siamo preceduti. Ricordiamo. E poiché ricordare invita in alcun modo ad obbedire, la memoria sarà la causa prima, e cosa ereditaria il nostro passato. Affektsprache d’Eschilo, insurrezione d’una lingua che colpevole dice la giustizia, fatue le imprese, patologiche le istituzioni. Innanzi alla σκην , dietro quelle maschere, altri come noi—soggetti senza rimedio, casi individuali che le teorie generali non aiuteranno.

«Timore, fossa e laccio», si legge in Isaia e Geremia; «Iliade dei mali» (Kακ*ν Ιλι ς), in Demostene. Vedere con i propri occhi è fare abbastanza?

Mimmo Paladino, Tavola per l’Agamemnon di Eschilo (2010)

SUMPTIONES

▶ Il poeta sente la poesia come un invalido l’arto fantasma.
▶ Ecco, presentimento della cosa dopo la cosa, percezione senza percepito. Cose che il sonno insegnerebbe al risveglio.
▶ Poeta è colui che si oppone alle sue nozze. Senza capire, al modo del chiaro che segue lo scuro.
▶ Non c’è alcuna profondità in poesia. C’è, tremenda, l’insonnia della superficie.
▶ Il ‘reale’ è una presupposizione incompleta—un antecedente che non si può portare a compimento. Assorto nel possibile, non ha volontà d’esistere, in poesia.
▶ Inconcludente pretesa di vedere tramite il testo. Il testo è opaco: non serve a vedere, può solamente esser veduto.
▶ Ciò che si perde scrivendo, ecco quel che si cercava.
▶ Poesia è questo intervallo fra noi e le cose. Potremo mai riunirci? Non restare al di qua, fermi nella penosa somiglianza, e non al di là, nell’astrazione povera, ove in solitudine s’impara il frutto autoriflessivo del linguaggio.
▶ Né esperienza del mondo né esperienza del linguaggio preesistono alla loro relazione. Allora, perché il sentore d’un reciproco abbandono? Che nasca da inesperienza, la poesia?
▶ Non teniamo con noi lo stesso onore della poesia, e non parliamo la stessa lingua. La poesia è la salvezza erotica delle cose: le conosce come non-finite e ne prosegue il desiderio. Non potrà mai sapere, il desiderio.
▶ La mancanza di vero paragone tra mondo e linguaggio, e l’incerta
proporzione tra presenza assenza, incomprensione e oblìo, avvìano a quell’opera estranea ch’è la poesia. Essa distoglie da sé il velo del comprendere—chiede un affetto passivo, un pensiero ricettivo, e desideri imparati rispondendo.
▶ Poesia non sarà l’atto di raccogliere il mondo come soccorritori del senso o adulatori del linguaggio, ma il culto senza scopo d’una soverchia figura e l’esperienza d’una fedeltà: quella d’un Dire che non vorrà mai lasciare il suo Taciturno amante. Poesia è agire inoltre, oltre quel che si riesce a pensare.

ΑΙΣXYΛOΥ ΑΓΑΜΕΜΝΩΝ
ÆSCHYLI AGAMEMNON

[Φύλαξ]

Θεοὺς μὲν αἰτῶ τῶνδ’ ἀπαλλαγὴν πόνων,
φρουρᾶς ἐτείας μῆκος, ἣν κοιμώμενος
στέγαις Ἀτρειδῶν ἄγκαθεν, κυνὸς δίκην,
ἄστρων κάτοιδα νυκτέρων ὁμήγυριν,
καὶ τοὺς φέροντας χεῖμα καὶ θέρος βροτοῖς
λαμπροὺς δυνάστας, ἐμπρέποντας αἰθέρι
ἀστέρας, ὅταν φθίνωσιν, ἀντολάς τε τῶν.
καὶ νῦν φυλάσσω λαμπάδος τὸ σύμβολον,
αὐγὴν πυρὸς φέρουσαν ἐκ Τροίας φάτιν
ἁλώσιμόν τε βάξιν· ὧδε γὰρ κρατεῖ
γυναικὸς ἀνδρόβουλον ἐλπίζον κέαρ.
εὖτ’ ἂν δὲ νυκτίπλαγκτον ἔνδροσόν τ’ ἔχω
εὐνὴν ὀνείροις οὐκ ἐπισκοπουμένην
ἐμήν· φόβος γὰρ ἀνθ’ ὕπνου παραστατεῖ
τὸ μὴ βεβαίως βλέφαρα συμβαλεῖν ὕπνῳ·
ὅταν δ’ ἀείδειν ἢ μινύρεσθαι δοκῶ,
ὕπνου τόδ’ ἀντίμολπον ἐντέμνων ἄκος,
κλαίω τότ’ οἴκου τοῦδε συμφορὰν στένων
οὐχ ὡς τὰ πρόσθ’ ἄριστα διαπονουμένου.
νῦν δ’ εὐτυχὴς γένοιτ’ ἀπαλλαγὴ πόνων
εὐαγγέλου φανέντος ὀρφναίου πυρός.

ὦ χαῖρε λαμπτήρ, νυκτὸς ἡμερήσιον
φάος πιφαύσκων καὶ χορῶν κατάστασιν
πολλῶν ἐν Ἄργει, τῆσδε συμφορᾶς χάριν.
ἰοὺ ἰού.
Ἀγαμέμνονος γυναικὶ σημαίνω τορῶς
εὐνῆς ἐπαντείλασαν ὡς τάχος δόμοις
ὀλολυγμὸν εὐφημοῦντα τῇδε λαμπάδι
ἐπορθιάζειν, εἴπερ Ἰλίου πόλις
ἑάλωκεν, ὡς ὁ φρυκτὸς ἀγγέλλων πρέπει·
αὐτός τ’ ἔγωγε φροίμιον χορεύσομαι.
τὰ δεσποτῶν γὰρ εὖ πεσόντα θήσομαι
τρὶς ἓξ βαλούσης τῆσδέ μοι φρυκτωρίας.
γένοιτο δ’ οὖν μολόντος εὐφιλῆ χέρα
ἄνακτος οἴκων τῇδε βαστάσαι χερί.
τὰ δ’ ἄλλα σιγῶ· βοῦς ἐπὶ γλώσσῃ μέγας
βέβηκεν· οἶκος δ’ αὐτός, εἰ φθογγὴν λάβοι,
σαφέστατ’ ἂν λέξειεν· ὡς ἑκὼν ἐγὼ
μαθοῦσιν αὐδῶ κοὐ μαθοῦσι λήθομαι.

[Custos]

Chiedo scampo agli dèi da queste pene,
guardia d’un anno in desta giacitura, quasi
cane sui gomiti, sulla casa degli Atrídi,
che so bene il notturno adunarsi delle stelle
e quando si levano fulgide potenze
quando declinano, astri in ètere eccelsi
ch’estate inverno arrecano ai mortali.
E ora attento alla torcia, al suo segnale,
sfolgorío di fuoco se porta voci da Tróia,
notizie di conquista – cosí,
in sua aspettazione, dispone
cuor di donna virile in suo volere.
E quando notterrante rugiadoso
evitato dai sogni ho mio giaciglio,
invece che sonno, paura – accanto –
che fermamente le palpebre
si uniscano nel sonno; e quando
mi viene da cantare, o canticchiare,
stillando un risonante farmaco al sonno,
compiango la sorte di questa casa,
non governata, come prima, ottimamente.
Ma ora fortuna, separarsi dalle pene
per lieto annuncio di fuoco dall’oscuro.

Oh benvenuto lume, che di notte
luce del giorno fai vedere,
e molti cori in Árgos, disposti a danza
per il favore della sorte. Ié! Ié!
Alla sposa d’Agamémnon faccio segno
chiaramente, ché si levi subito dal letto
e per questa torcia nella casa alzi la voce
– un grido di trionfo –,
se davvero è presa la città d’Ílion,
come risalto di fuoco va annunciando.
Mio il preludio alla danza, e poiché
caduti bene i dadi dei miei signori,
farà ‘tre sei’ per me questo segno di fuoco.
Ebbene, che la diletta mano
del ritornante signore della casa
io possa reggere con mano.
Quanto al resto, taccio: grande bue
sta sopra la lingua. Avesse voce,
la casa stessa direbbe assai chiaramente;
da parte mia, parlerò volentieri
per quelli che sanno, ma smemorato
per quelli che non sanno.

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