Stelvio Di Spigno, “Minimo umano”

Stelvio Di Spigno

COMMENTO DI ALBERTO PELLEGATTA

Basterebbe la dedica al geniale compositore Alfred Schnittke per capire che l’ultimo libro di Stelvio Di Spigno non è la solita raccolta di poesiole. Minimo umano (Marco y Marcos 2020) è un «diluvio di archi e applausi campionati», un concerto tra le «solitarie sponde dell’universo sonoro», e soprattutto la conferma di un autore dei più solidi e risolti stilisticamente, capace di riutilizzare con sapienza le tecniche della tradizione, con lampi di autentica verticalità, come nella perfetta Quasar o nella Variante lombarda lacustre: «laghi calmi e oblunghi… tuorli oculari e gli archi molli… Riflettono soltanto la mancanza / che il pensiero ha di se stesso, / come una debolezza o sfinimento, / e nessuna collina viene avanti».

Una poesia a diverse dimensioni, che trattiene armonia e immaginazione, preferendo il reale, seppur doloroso: «da qui non ci si alza, non si vola». Anche questa è la frontalità dell’infinito: «sanno partire e non sanno tornare…. fratelli / dal cognome diverso e disunito, le piccole ali / dei cormorani, che un giorno li spinsero / al singhiozzo, ora sono spente, senza mistero».

La poesia di Di Spigno diventa disperatamente dolce: «nemmeno quest’oasi di acque / sonnolente riempie / la notte mentale di speranza… nessun nome verrà estorto o estratto / in quiete e sorte di verdissimo lichene».

Esiste chiaro, nel libro, un esoscheletro di rimandi ai personaggi del Boccaccio (e persino alle parole di Atreyu ne La storia infinita) o al Leopardi più disilluso («il sole invalido piomberà, / come la vendetta di una iena»).

La letteratura si mischia ai personaggi familiari, ai paesaggi trasfigurati dell’infanzia, come nel citato e compianto Mario Benedetti, poeta friulano recentemente scomparso.

Un libro meteoropatico («Gennaio mi castiga»), che assume le cadenze della supplica («Amatemi per ciò che non ho dato») ma sterza sulla «rotta tirrenica», diventando plastico: «Me ne andrò da questo stallo di pietra dura, / un giorno d’inverno castissimo, / con le foglie squamate, sopravento e ghiacciate, /lascerò il programma del mondo, il ricavo quotidiano, / la prua dell’auto punterà a un sud assoluto».

Il verso arioso («purché si risorga in superficie, come trote») edifica una struttura complessa: «Ho una casa / aperta alla dolcezza dei tuoi assoli… fiamme, catene / burroni e pietre vaghe… da troppo, / inseguo il tuo confine boreale… Sciogliti. Sali in questa tormenta». Per ricordare all’uomo di «essere umano, anche un minimo», di dare credito al «cielo di ringhiera», alle voci che sopraggiungono dai «nostri / quartieri famelici e ribelli», ai sentimenti, «chiusi in campane / di vizio».

Il poeta del terzo millennio si congeda senza troppi giri di parole: «Resta un po’ di me in una cabina telefonica, / dove a perdifiato chiamavo l’editore, / le fidanzate e il deputato, dai bassifondi d’Europa, / con lo stesso strepito in gola per tutti: fatemi / esistere, oppure ascoltatemi, datemi / una qualsiasi gioia».

da Minimo umano di Stelvio Di Spigno, (Marco y Marcos 2020, pp.91, euro 18)

Stilnovo

per A. I.

«Perché ti cerco nell’ora lucente,
labile fonte di amore e dedizione
che sei ovunque, in lapilli e parole,
ma non in me. Esci dal timido recinto
delle occasioni evanescenti. Diventa elemento,
viscere da amare, psiche inconsapevole
dei giorni deragliati sulla luna.
Una punta di universo caduta qui,
per noi e nessun altro. Ti aspetto,
da sempre, come una certezza. Perché
vivere è un traforo che bisogna
attraversare. Vieni, respira, non farmi
più dormire. Ho una casa
aperta alla dolcezza dei tuoi assoli:
se ancora ne hai – fiamme, catene,
burroni e pietre vaghe
non potranno fermarti. Da troppo,
inseguo il tuo confine boreale.
Da un tempo non più vero vorrei
toccare la tue labbra affascinate.
Sciogliti. Sali in questa tormenta,
nessuno ti seguirà. Saremo soli.
Nel mondo chiuso delle occhiate incostanti
vedremo nascere il perché dell’esistenza.
Nessuno, ti dico, ci disturberà».

Cameretta

O cameretta che già fosti un porto
PETRARCA, R. V. F. CCXXXIV

Irreale è questa stanza e il sogno
che la contiene. Si allarga di notte,
fino a diventare immaginaria, non
si vede più l’armadio, la porta, la vetrata,
la tela della Madonna col Bambino,
ma un sussurro di foglie e il guaiolare
dei cani, dall’ampia campagna di fronte,
entrano e prendono ristoro. La stanza
si fa enorme, sparisce ogni confine
temporale, si vede solo un’età
perduta come un rampicante,
ai piedi del mio letto, dove dormivo solo.
Mi tornano alla mente i desideri,
le azioni del giorno e le avventure
del pensiero. E guardo questo spazio,
diventato puro. La luce della lampada
fa sparire anche me nel suo candore,
ridivento della terra, del vento, del cielo,
e poi mi sento lontano e catturato
verso mondi che non possono morire,
e degli anni che restano non vedo più la fine
nella danza di queste ore inebriate.

Somnium

Tendo la mano a una conca
inesplorata: sfilacciato dal ritmo
delle nubi, lo stesso cielo è diviso
secondo il fianco di osservazione. Come
un mare senza sponde, torna
in se stessa l’anima accecata, e perde
ogni insegna del giorno passato. Si sposta
un costone cadente e romba un tuono
come dall’aldilà. Ma non lo sento.
La vita continua negli ossari
o nel ricordo? Nella storia o nelle steppe?
con noi o senza noi? La risposta
a questi allunaggi della mente
è dovuta. Con parole troppo grosse,
talvolta, ma il silenzio non è ammesso.
Le tre di notte, fumo intorno al letto,
odore di brace dal camino. Ho abbracciato
l’amore di una donna a me uguale,
solo più grande e senza destino.
Vorrei restare in questo lago di grazia,
le palpebre abbassate, il petto lento.
Faccio a caso due passi, mi colpisce
come un sasso il gallo delle periferie.
Con ancora più sangue
il sole invalido piomberà,
come la vendetta di una iena.

Quasar

Se ci fosse un luogo dove gridare aiuto –
se l’ombra altrui non mi trapanasse il cranio –
se l’occhio di Dio non sapesse chi sono –
davvero i corridoi sarebbero interminabili,
e le case appannate così piene di luce
che i morti avrebbero un loro condominio,
andrebbero al mercato degli istanti
spargendo il loro addio a tutti i viali dell’universo,
con le mani sconciate e le sporte
impiastrate di frutta.
Ma la terra è divisa dal cielo.
Mancano da molto i questuanti, le vecchie
donne dalla voce ferma e quella porta
che spalanca su altre porte all’infinito.
Stringi le mani al tronco
del mandorlo fiorito, divora il verde
con gli occhi affabulati,
apri ogni orifizio agli ammassi globulari.
Un giorno il sole uncinerà alla cieca
il binario senza ascolto, la conca di pietre bianche,
sarà fatto il nostro nome palmo a palmo,
sorgeremo tra estuari, laghi e fiumi
a vita di carbonio o a canto delle stelle.
Lava bene le posate prima di ogni partenza.
Non guardare oltre la tua speranza, mai.

Stato delle cose
per E. G.

L’epilogo della tempesta
fu che tu, reclinata nella morte
che ti permeava
ogni pensiero, rarefatta e abbuiata,
ti allontanasti
dalla stazione di Latina
quasi in incognito.

Lì visitavi l’ospedale, sempre in cerca
di quella stessa morte
che vedevi tra corsie e camerate,
bella, insana e taumaturga,
come allora ti credevi – ti amo più
che posso, bambina mia mai nata, anima
abortita, raccolgo per te piastrelle e putrelle,
mentre il cantiere del nostro futuro si recide.

Provo a dire questa furia che è vivere,
l’assottigliarsi della mascella di sorriso in sorriso,
l’aria fredda che fa spessa la pelle in un abito di cera,
e questo morire che è in tutti, da decenni,
in un tempo scellerato e pazzo, come se
l’esistenza fosse uno spettacolo
a tutti pervenuto e confinato altrove.

Una stringa di fumi e graminacee
si stringe a una galassia equidistante, a un’ossessione
generale, mentre l’umanità svuota
di se stessa ogni destino, anche il più bieco,
anche il più assurdo e declinante,
come una fanteria di ritorno
da una guerra mai dichiarata,
a interi popoli nascosta e ipnotizzata.

Emilia

In mezzo a un fulcro di case sorgeva
il bosco sacro di pini e pianeti primigeni,
dove senza impazienza ci incontrammo,
qualche volta – dove tutta la città, nel rogo
del sole, veniva a trovarci, la sera benedetta.

E ora del sole tu hai la stessa faccia
lucente, la stessa veste con le frange
e il cappuccio, le scarpe con le fibbie,
la borsa e il mantello del sorriso.

Anche tu sei partita, puntando i piedi,
l’ultima volta che hai pensato alla vita,
che fu una stradina giovane di campagna,
dove venivi a fare il bagno con noi,
in agosto, profumando soltanto
di ricci di mare. E così ti ricordo,

povera nelle cose e nei gesti, giusta
in ogni azione, nelle parole di un sapere
che abbracciava, così flessibile, come
la stessa bontà non sa di essere.

Come resterai per sempre, ricordando
le patrie brevi dove fummo insieme,
Torregaveta, Napoli, Gaeta,
l’inverno seduti, l’estate in movimento,
gli occhi stranieri fissi alla verità
che il mondo non vuole più avere, perché
sei lontana e tuttavia perfetta, la piccola
donna che amava ogni cosa, dentro
la scia notturna di un cielo pacificato,
senza visioni, solo di carità, eterno.

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