Penuria d’aria
di Giuseppe Martella
Da un paio di decenni a questa parte, sono gradualmente venute in voga negli Stati Uniti delle correnti critiche che vanno nel complesso sotto l’etichetta di biopoetica o darwinismo letterario. A parte la faziosità, il velato razzismo e l’eccesso di semplificazione che caratterizzano alcuni fra questi contributi, vi si trovano tuttavia diversi aspetti interessanti che si possono riassumere in una reazione salutare agli eccessi opposti del testualismo e del culturalismo registrati nei decenni precedenti, e soprattutto nella costante propensione a un dialogo costruttivo fra le due culture, umanistica e scientifica. Si sta cercando insomma di teorizzare un nuovo equilibrio tra i fattori naturali e quelli culturali nello sviluppo e nella selezione delle forme, dei generi e dei modi dell’invenzione letteraria e artistica, alla luce delle più recenti acquisizioni della biogenetica e della teoria dell’evoluzione, aprendo così lo storicismo classico agli orizzonti della preistoria. Sintetizzando drasticamente, si può affermare che l’obiettivo primario di questo approccio critico basato sulla biologia è quello di capire se l’attività artistica in generale può essere considerata tra i comportamenti che hanno dato un vantaggio evolutivo alla specie umana. Qui non è certo il caso di entrare in ulteriori dettagli, perciò faccio riferimento alle ottime, recenti sintesi di Michele Cometa sull’argomento[1].
Incrociando questo approccio biopoetico con gli importanti studi di metaforologia condotti intorno alla metà del Novecento da filosofi del calibro di Gaston Bachelard, Paul Ricoeur, Hans Blumenberg, Max Black ed altri, a me interessa soprattutto esplorare l’idea di una economia dell’immaginario e congetturarne le possibili mutazioni in una situazione di emergenza come quella attuale, dove la pressione dell’ambiente sul singolo si intensifica al punto di spostare le condizioni della selezione sociale verso quelle dell’esperimento eugenetico.
Nel quadro di riferimento qui sommariamente delineato, mi soffermerò in particolare sul topos della “penuria d’aria”, prendendo spunto da una antologia poetica appena uscita per i tipi di Samuele editore: Dal sottovuoto. Poesie assetate d’aria.
Nella sua prefazione, Matteo Bianchi riassume lucidamente la ratio della raccolta, facendola coincidere con le misure eccezionali imposte dalla pandemia e ponendo in evidenza quel contagio biologico e morale che ci minaccia invero già da tempo, ma che ora si manifesta in tutta la sua virulenza, mettendoci in quarantena e costringendoci all’isolamento. Il curatore insiste giustamente sull’opportunità che questa reclusione forzata può offrirci per una riflessone radicale sulla devastazione ecologica in atto e forsanche per un ridimensionamento durevole dei nostri stili di vita. Egli osserva peraltro che l’isolamento, lo sconcerto, il vuoto interiore, possono spingere i poeti, come sosteneva Ceronetti, a “pronunciare ogni parola vera come fosse un’agonia o un testamento” (7), rivelandoci, benché fugacemente, il senso della storia, così come lo si può apprendere solo nell’istante del pericolo. (Benjamin) Si insiste dunque giustamente sul tempo del contagio come opportunità di riconfigurazione immaginaria della polis (così come è già tante volte accaduto in passato nella letteratura mondiale, da Boccaccio a Shakespeare, da Manzoni a Garcia Marques, solo per fare dei nomi) che possa avere effetti sulla sua ristrutturazione reale. Questa è la ragion d’essere della silloge, dove “gli inediti sono stati ordinati quasi si trattasse di un sentiero, di un percorso per riappropriarsi del mondo”, (12) e dove “le clausure personali”, sembrano protendersi l’una verso l’altra, accomunate dalla medesima “fame d’aria”, quasi come anelli intrecciati di un’unica catena, testimonianze “dal sottovuoto” appunto, in precario, rischioso equilibrio tra il silenzio richiesto dalla elaborazione del lutto e il rumore bianco imposto dalla chiacchiera amplificata dai media. Più che mai plausibile suona dunque l’“appello alla costruzione di una testimonianza storica, oltre che sociale. Memore del passato, utile per il futuro.”
Ma questa testimonianza dovrà, a mio parere, fare anzitutto i conti, nel futuro prossimo, con la penuria d’aria, sintomo del morbo nella fattispecie ma anche e soprattutto effetto duraturo del disastro ambientale con cui le prossime generazioni saranno costrette a convivere. Ed è su quest’ultimo aspetto, su questo filo conduttore in sottotraccia, sulle sue implicazioni logiche e figurative, che vorrei insistere, dal momento che fra i quattro elementi naturali, l’aria è quello che dalla notte dei tempi, per la sua stessa scontata abbondanza, è stato il meno tematizzato nella fenomenologia dell’immaginario collettivo – dal mito alla filosofia, dal sentire comune alla invenzione poetica, che si sono piuttosto soffermati sulle polarità di amore e guerra, nascita e morte, parola e silenzio, ecc. Eppure lo stesso processo bio/poetico del respiro si svolge sul filo dell’aria, da cui il corpo trae quel minimo soffio vitale (psyché) che si suole chiamare “anima”. Dalle origini della cultura, fra i quattro grandi elementi naturali, l’aria è stata infatti sempre sottovalutata a partire dalle cosmogonie antiche che hanno disegnato l’orizzonte del nostro immaginario: quella ebraica della creazione attraverso la parola assume infatti l’aria solo come veicolo del divino flatus vocis, del miracoloso fiat dell’inizio. E quella greca fa delle nozze di Urano e Gea l’origine di tutte le cose. Ma Urano è il cielo stellato che discende ogni notte attraverso l’aria per impregnare la terra (Gea) che genererà infine la stirpe dei Titani, fra cui quel Crono che, evirando il padre, inietterà il principio del mutamento nel cielo eterno, dando inizio alla storia del mondo.
Così come nel mito, anche all’inizio della filosofia poi, l’aria è stata sottostimata per eccesso di offerta. I primi filosofi della natura infatti, come è noto, cercarono il principio di tutte le cose in uno dei quattro elementi naturali: Talete scelse l’acqua, Anassimandro l’infinito (apéiron), Eraclito il fuoco. La madre terra non fu scelta da nessuno forse proprio per la sua onnipresenza nelle titanomachie e nella religione olimpica (Gea, Rea, Demetra), da cui questi proto-filosofi cercavano di prendere le distanze. L’aria venne infine assunta come principio cosmico da Anassimene che fa consistere la generazione di tutte le cose dai suoi processi di condensazione e rarefazione, raffreddamento e riscaldamento, da cui derivano da un lato l’acqua e la terra, dall’altro il fuoco, dando origine poi alle altre sostanze. Nell’unico frammento che ci rimane delle sue opere, egli istituisce inoltre l’analogia fondamentale fra anima individuale e anima mundi, che verrà poi riassunta nella metafora del mondo come grande animale, nella cosmologia platonica del Timeo. Tuttavia Anassimene è passato alla storia come il meno prestigioso fra i presocratici, benché sia evidente che neanche il fuoco del divo Eraclito brucerebbe mai senz’aria. Fra il fuoco dell’uno e l’aria dell’altro si manifesta, credo per la prima volta, in ambito filosofico quella dialettica di signoria e servitù che regge la fisica e la biologia, prima ancora della storia dell’esserci.
Come è noto, poi la psicanalisi freudiana ha fatto tesoro della sapienza mitica e delle sue elaborazioni filosofiche, per cui non c’è affatto da sorprendersi se il ruolo dell’aria al suo interno si esaurisca per lo più nella funzione ancillare del volo. Nell’interpretazione dei sogni, Freud associa infatti i sogni di volo con l’eccitazione, l’erezione erotica e l’euforia per essersi liberati da limiti fisiologici. Nella sua topica della psiche d’altronde, i sogni di volo in quanto sogni lucidi (quelli in cui il sognatore è semicosciente di sognare) si situano nel preconscio, hanno contorni netti e si ricordano facilmente in dettaglio. E nella sua economia della psiche essi hanno una valenza nel complesso euforica, liberatoria e chiarificatrice delle pulsioni che li sottendono. Jung da parte sua, nella teoria degli archetipi dell’inconscio collettivo, li annette invece al processo di individuazione in generale, senza però chiarire a sufficienza il ruolo e le fasi che vi occupano. Gaston Bachelard, nella sua epistemologia poetica, rimprovera invece giustamente alla psicanalisi di non rendere conto abbastanza delle funzioni specificamente estetiche e cognitive dei sogni di volo, la cui analisi potrebbe invece fornire un contributo decisivo sia ad un’estetica dell’amore che ad una razionalizzazione dei viaggi immaginari. Ma, in ultima istanza, anche lui considera l’aria come mero sussidio dell’ispirazione e della sublimazione artistiche. Nel complesso dunque, sia nella psicanalisi come nella epistemologia e nell’estetica moderne, così come nei miti antichi, sono il volo o il vento ad essere tematizzati, piuttosto che l’aria docile e invisibile che vi funge da supporto. Come nella biologia umana, dove l’aria funge da carburante dei processi fisiologici, così anche nell’immaginario collettivo, la sua presenza appare pertanto nel contempo ubiqua e scontata. Nella storia dell’arte perciò la incontriamo per lo più connessa ai sentimenti di benessere, serenità e libertà, oppure ai processi di ascesi o di caduta, e ancora infine come tramite delle frecce di Eros in procinto di raggiungere il loro bersaglio, l’anima dell’amante. Ma quest’ultima, la psyké, “forma delle forme” per Aristotele, malauguratamente precipitata secondo gli orfici nella prigione del corpo, altro non è che una finzione d’aria, un’ipostasi della sua circolazione, ossia della funzione vitale del respiro. Insomma, per tagliare la questione dell’aria con l’accetta piuttosto che col rasoio di Occam, si potrebbe a ragione concludere che questo elemento, fra tutti il più essenziale alla vita, è stato da sempre sottovalutato in virtù della ferrea legge economica per cui il valore di un bene dipende soprattutto dalla sua relativa scarsità. Una legge che non si applica affatto solo allo scambio delle merci ma anche a quello delle immagini e delle idee.
Vale la pena soffermarsi, in conclusione di questa breve disamina, sul nesso cruciale, prima soltanto accennato, fra aria ed eros. Platone infatti (traducendo il pensiero presocratico della physis nei termini del logos), piuttosto che un elemento naturale, assume l’Eros come principio cosmico, senza del quale “il mondo si squadernerebbe da ogni lato” (Timeo). Ma nello splendido racconto di Diotima nel Simposio si avverte poi che Eros è un demone potente ma inaffidabile, essendo figlio della abbondanza (Poros) e della scarsità (Penia), per cui è sempre irrequieto e alla ricerca di ciò che intimamente gli manca. Insomma sulla costanza del desiderio, come su quella dell’ispirazione, non si può proprio contare, per cui il poeta per esempio, nelle pause fisiologiche del suo invasamento divino (énthousiasmos), deve necessariamente ricorrere all’aiuto della retorica che funge da rimedio-veleno (pharmakon) contro il disamore, così come la scrittura funge da farmaco rispetto alle lacune della memoria (Mnemosyne, madre delle Muse) oramai indebolita rispetto ai tempi del mito e dell’epos orali (Fedro). Questo è un punto nodale per il nostro discorso, perché l’Eros è quello che in Platone conduce la psiche a contemplare il bello-che-è-buono (kalokagathos), fulcro di quella sua teoria delle idee che sta alla base dell’intero pensiero occidentale. A ben riflettere, dunque, sia l’impianto concettuale quanto quello immaginativo della nostra cultura sono fondati sulla feconda incostanza dell’eros, perennemente in bilico sul precipizio del proprio esaurimento. Da ciò deriva anche l’incalcolabile valore psichico e poetico che gli viene attribuito, in quanto nutrimento dell’anima che lo riceve e lo veicola. Non altrettanto accade per il suo parente povero, l’aria, che costituisce il nutrimento docile e invisibile sia delle varietà del vivente come delle figure del nostro vissuto. La sua indispensabile presenza e la sua presunta purezza sono apparse sempre scontate, almeno fino a qualche tempo fa, quando insomma ci si è cominciati ad accorgere, forse troppo tardi, dell’inquinamento atmosferico oramai in atto. Si profila pertanto a mio parere nei prossimi decenni una di quelle svolte eidetico-immaginative per cui l’aria, che è rimasta sempre sullo sfondo dei drammi individuali e cosmici, verrà finalmente al proscenio. E sia nella prosa del mondo così come nella sua poesia, come già accadde per l’eros platonico, si dovrà cominciare a fare i conti con l’inaffidabilità dell’aria, cioè a metterne a tema la penuria e l’impurità.
Tanto già si annuncia nella raccolta di versi che ha dato lo spunto a queste mie considerazioni, facendo dello stato di eccezione una testimonianza corale e un laboratorio di pensiero. E ciò fin dal titolo (“Dal sottovuoto. Poesie assetate d’aria.”), del tutto esplicito e tuttavia portatore di una ambivalenza di fondo, poiché il termine “sottovuoto” richiama l’idea di un involucro ermeticamente chiuso e perciò la condizione di isolamento coatto, insieme a quella della fame d’aria. E come era prevedibile è la prima connotazione del termine a prevalere sulla seconda, costituendo il filo conduttore principale della silloge. Ma se l’isolamento e la solitudine sono condizioni esistenziali che travalicano questa occasione particolare, la sete d’aria è il sintomo specifico che meglio la caratterizza. Nella polifonia di questo corale che tenta una precoce presa di coscienza delle implicazioni (po)etiche della pandemia, si può dire dunque che il tema dell’isolamento costituisce la linea melodica dominante, cui quello della penuria d’aria fa da sommesso ma necessario contrappunto. Per i motivi che ho rapidamente passato in rassegna, mi è sembrato opportuno soffermarmi piuttosto su questo tema subalterno, in quanto più specifico all’occasione e più pregno di sviluppi per l’avvenire.
In questo contrappunto strutturale, se Pontiggia insiste per esempio, sul silenzio e l’isolamento, in questa “primavera che recalcitra” (27) e Bertoni sul senso di tempo chiuso, “fine della storia” e “perdita irreparabile”, (31) Lucianna Argentino già alza “lo sguardo al cielo” e “alla sua luce perpendicolare” per cercare di cogliere i profili iniziali di un nuovo mondo (47). Mentre Maria Borio da una parte tematizza la “zona rossa” dell’isolamento ma dall’altra evoca il “confine trasparente” aria-terra, dove possiamo forse lanciare agli uccelli un inaudito messaggio. (55-56). E mentre Arminio e Ruffilli declinano ciascuno a suo modo l’altalena fra il coraggio e la paura che caratterizza questa tragicommedia inedita (61-66), Franca Mancinelli pone in risalto finalmente il tema sotteso all’intera raccolta, quello del contagio fra acqua e aria negli alveoli dei polmoni, il tradimento dell’aria: “tra i rami dei polmoni/si sono posati i corvi. È/ ferma l’aria. Nessun battito/ che li richiami via.” (72). Stefano Simoncelli a sua volta coniuga i due temi, evocando la “solitaria quarantena” di chi “anela a una boccata d’aria” (74), Valentina Colonna registra “la paralisi dei respiri nelle strade” (75) e Flaminio Cruciani coglie il nesso cruciale, su cui tornerò alla fine, fra il ritmo del respiro e quello del passo umano che tende quasi a sollevarsi sopra la terra che pure calca lasciando labili tracce: “Non possediamo nulla, solo bocche/ d’aria e aureole ai piedi, impronte/ ammutolite.” (78) E se Umberto Piersanti coniuga la solitudine col “contagio dell’aria” (85), Tiziano Scarpa ci regala un sonetto di rara eleganza e umorismo dove la parola e la cosa si incontrano sull’impalpabile filo dell’aria: “Chiudersi in casa, come una parola/ costretta a stare dentro la sua strofa/ senza abbrutirsi. Anima mia, mia scrofa,/ non trasformare in fango la tua aiuola.” (103)
Vorrei concludere ora questa breve carrellata, soffermandomi sui versi di Luigia Sorrentino dalla cui lettura occasionale sul blog di Rai News, ha preso spunto questa mia nota. E ciò perché questi versi mi pare contengano implicitamente il controcanto (terra/aria, chiuso/aperto, cammino/volo, visione/respiro) che regge l’intera raccolta. Perché è aria quella che intride “la forza [che] si attacca ai vestiti”, sollevando il corpo dalle ascelle, reggendo “la suola delle scarpe” (80-81) veggenti che, come lievitando, pare vogliano seguire fra cielo e terra le labili impronte del “ragazzo dalle suole di vento” (Rimbaud). Perché sia a livello biopsichico che poetico, temo che nei prossimi decenni, oltre che con quelle dell’eros, l’anima dovrà fare i conti con l’inaffidabilità e la penuria dell’aria.
[1] M. Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere, Cortina, 2018.
M. Cometa, Letteratura e darwinismo. Introduzione alla biopoetica, Carocci, 2018.
Interessante e d intrigante la tua riflessione sul rapporto ambiente,ecosistema, pandemia e biopoetica. Molto coinvolgente l’exursus che parte dall’analisi della raccolta poetica “Penuria d’aria”,già esempio di biopoetica,secondo me, per sviluppare il tema dell’elemento “ARIA” nella filosofia,nella mitologia,nella psicoanalisi e nella poesia e arte. Concordo che l’elemento aria è quello meno rappresentato perchè di per sè più inafferabile dall’mmaginario e perchè più compresente nella sua varia simbologia. Come nella realtà nulla esisterebbe senza aria così nell’immaginario, Nella mitologia è rappresentata da Urania, Psiche e soprattutto Mercurio, la cui simbologia è più che mai i attuale :spirito vitale, vento, volo, comunicazione , mediazione , trasformazione e scambio.
In epoca di pandemia alla mancanza reale di aria, di spostamento fisico, di voli, si è supplito con un immaginario di scambi virtuali ,interconnessioni,musica e arte dominati dall’etere-aria. L’elemento aria poi ha sempre dominato l’arte basti ripensare al Botticelli con la sua “Primavera” allegoria di terra e aria, alla rappresentazione della Creazione Michelangiolesca etc.
Carissima Aurora, ho finalmente ritrovato il tuo commento. Sono stato un po’ assente mea culpa. Ma ti ringrazio per l’attenzione e accolgo il tuo suggerimento di considerare anche il ruolo di Ermes in questo dramma dell’immaginario. Certo Ermes dai calzari dorati, messaggero tra regni diversi, c’è dentro fino al collo. E le modificazioni nell’ermeneutica che a lui si rifà saranno la faccia complementare di quelle che interverranno nella poetica.
Una recensione molto bella, acuta e di amplissimo respiro. Nella versione cartacea dovrebbe venire pubblicata come postfazione
Grazie per l’attenzione. È un parere che conta.
Illuminante e molto interessante la disamina.
Purtroppo “l’anima sta già facendo i conti con la penuria d’aria ” vedasi tra i molti eventi già presenti purtroppo, la nube tossica causata dall”incendio di una fabbrica a Porto Marghera -Venezia venerdì scorso, evento passato quasi sotto silenzio a causa dell’emergenza sanitaria in atto.
Penso che tante altre volte, nelle sue innumerevoli forme, l’aria richiamerà a sé la nostra attenzione nei prossimi anni.