Il sogno di vivere di Mario Benedetti

L’ultima foto di Mario Benedetti postata sul suo profilo di facebook, nell’estate 2014

di Fabrizio Fantoni

Sta solo fermo nella tosse.
Un po’ prende le mani e le mette sul comodino
per bere il bicchiere di acqua comprata,
come tanti prati guardati senza dire niente,
tante cose fatte in tutti i giorni.
Intorno ha una cassettiera con lo specchio,
due sedie scure, un armadio, l’incandescenza minuscola di una stufa.
Dei centrini, la stampa di una natività con il rametto di ulivo,
un taccuino, dei pantaloni, delle cose sue.
Davanti il cielo che è venuto insieme a lui,
gli alberi che sono venuti insieme a lui. Forse una ghiaia di giochi
e dei morti, che sono silenzio, un solo grande silenzio, un silenzio di tutto.
A volte l’acqua del Cornappo era una saliva più molle,
un respiro che scivolava sui sassi.
A volte tutto era l’uccellino del freddo disegnato sul libro di lettura
vicino a una poesia scritta in grande da imparare a memoria.
A volte niente, venire di qua a prendere il pezzo di cioccolato
e la tosse, quella maniera della luce di far tremare le cose,
gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male.

La prima impressione che offre questa poesia Per mio padre, tratta da Umana gloria (Mondadori, 2004) è di sfogliare un vecchio album di fotografie, lasciato abbandonato da qualche parte , e poi ritrovato.

I paesaggi, le case, gli interni delle stanze dove si consuma l’intimità familiare, gli oggetti della vita quotidiana, si dispiegano sulla pagina  come su una scena, convocati dal poeta in una dimensione fuori del tempo e del reale e si fanno, nello spazio della poesia, “fiaba” intesa come dimensione della bellezza sul punto di scomparire, della grazia per un attimo intravista e poi persa, proprio come le apparizioni trascoloranti che popolano le storie.

Si racconta che il faraone Micerino, essendo condannato dagli dèi a vivere una vita breve, decidesse di illuminare con migliaia di fiaccole i suoi palazzi e i suoi giardini in modo da trasformare le notti in giorno ed avere la percezione di vivere più a lungo.

Questa è la metafora più bella del poeta perché, del resto, cosa fa il poeta se non cercare di trattenere, quanto più possibile, quel poco che gli è dato di vivere?

Mario Benedetti, di certo, va in questa direzione,  ponendosi, tuttavia, ad una “distanza”dalle cose – la distanza propria del sopravvissuto, di chi può narrare ciò che è stato prima del naufragio- che gli permette di  imprimere all’oggetto della sua rievocazione un carattere simbolico che si fa specchio di un paesaggio metafisico interiore in cui l’essere umano appare costantemente sul punto di dissolversi:

“solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi”

Ciò che apprezzo  maggiormente della poesia di Benedetti è l’assoluta mancanza di speranza, intesa non certo in senso religioso, ma laico e profano: la speranza legata al “domani”, la speranza stagionale – agricola “dell’autunno che offra tre volte le sementi”. Nei versi di Benedetti non c’è posto per il conforto: tutto è indirizzato verso lo sperdersi, tutto appare oscurato da “una luce della notte che si perdeva fuori, fino a dove riuscivamo a guardare, fino a dove non eravamo più”.

Questo è il “sogno di vivere” di Mario Benedetti ed è un sogno che si scontra con la lotta che il poeta ingaggia con la parola e con la capacità della poesia di nominare l’esperienza della perdita.

 

Ho guardato tanto un viso, gli occhi che aveva.
Quello che avevamo…, la casa, il tempo che cambiava di fuori

l’andare via delle stagioni….
Adesso che è autunno.

E ho qualunque vita da vivere. L’autostrada dei week-end,
La strada turistica dei vini….

Io che sono delle cose negli occhi,
ma no so dire come sono quando le guardo.

 

Espressioni come quella usata nel verso finale (“ma non so dire”) ricorrono di frequente nella raccolta e preludono alla constatazione – in Tersa morte – dell’inesorabile arresto  della parola difronte alla morte: “le parole non servono per chi non c’è più”.

La poesia di Benedetti non vuol nominare le cose, nel loro sé, quanto piuttosto rievocarle per un’ultima volta. Vengono alla mente prepotentemente le parole di Cristina Campo in Parco dei cervi:

Un tempo il poeta era là per nominare le cose: come per la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi loro, per ricordale  agli uomini teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte. Per scrivere i loro nomi sull’acqua: forse su quella stessa onda levata che fra poco le avrà travolte.
Un parco ombroso, il verde specchio di un lago corso da bei germani dorati, nel cuore della città, della tormenta di cemento armato. Come non pensare guardandolo: l’ultimo lago, l’ultimo parco ombroso?
Chi oggi non è conscio di questo, non è poeta d’oggi.”

Dall’equilibrio tra esperienza e pensiero scaturisce un testo di corposità vibrante caratterizzato dal ricorso a forme ritmiche cangianti, ora brevi e concentrate, ora lunghe e ampiamente distese con l’inserimento di tratti in prosa che rendono “Umana gloria” uno dei libri più originali, intensi e commoventi della nostra epoca.

Con Pitture nere su carta la poesia di Benedetti si rinnova senza contraddire le sue origini, ma al contrario, confermandone i tratti fondamentali.

Oggetto della sua ricerca è sempre l’esperienza che  si condensa in un verso che si spezza, si frantuma in una gamma infinita di illuminazioni.

È una poesia che assume la grazia drammatica  e la ruvida eleganza di un non finito michelangiolesco: il testo entra in dialogo con la cancellazione o soppressione della parola facendo emerge la chiara impressione di un’assenza  che irrompe sulla pagina con momenti di inattesa violenza espressiva,  in un flusso di materia verbale.

Si badi che per Pitture nere su carta si può parlare di “frammento” ma non di frammentarietà dal momento che i testi ambiscono ad una unità tematica, ad una visione del mondo offerta con lacerti di verità in cui la fusione tra l’intensità dell’esperienza emotiva e l’aderenza alla realtà è affidata al valore semantico del colore (“colori” è il titolo di una sezione del libro) ed in particolare al contrasto bianco/nero.

Il dramma interiore del poeta si proietta all’esterno, diventa paesaggio, contrapposizione di colori e, nel ritmo della scansione poetica, si trasforma in visione universale.

Ancora una volta il poeta avverte il senso di precarietà della vita, la condizione di transitorietà dell’uomo destinato ad essere cancellato dal tempo. La fanciullezza viene vista come l’unica età in cui “l’idea di vita pervade, trionfa” ma ancora una volta il “sogno di vivere” s’infrange
di  fronte alla morte, alla consapevolezza del disperdersi dell’uomo.

Appare evidente, in queste poesie, l’influsso del pensiero di Carlo Michelstaedter – autore di imprescindibile riferimento per Benedetti –  che già nel 1910, nel suo celebre saggio “La persuasione e la rettorica”, postulava l’abbandono dei meccanismi psicologici e sociali che portano l’individuo alla subordinazione al “sistema”’e all’alienazione (rettorica) e a conquistare l’autenticità personale attraverso il riconoscimento della finitezza del destino mortale dell’uomo (persuasione).

E ora è stupore, il bambino.
Guarda negli occhi i suoi occhi.

Si aggrappa alla terra, col bianco dei fiori.
Libro della via Pál, melograni davanti,

tra noi che non eravamo.

Nato da visi, da corpi, da tenera coppia.
Dentro, inseparati, oh, ma gli altri uguali insieme.

Spaccati, già morti, a uno a uno, a due.
E l’idea di vita pervade, trionfa.

Mondo non mondo, mio mondo nero.

Le immagini di Pitture nere su carta hanno una tale forza evocativa da assumere  densità pittorica. Già in precedenti interventi su questo blog , sono state avanzate proposte di accostamenti tra la poesia di Benedetti e le opere pittoriche di Francisco Goya o di Alberto Burri. Io ho sempre ritenuto che i componimenti di Benedetti entrino in dialogo diretto con le pitture di Enzo Cucchi, artista scelto dal poeta per le copertine dei suoi libri. Tale accostamento si esemplifica non solo nella disarticolazione del paesaggio, che in entrambi si fa materiale emotivo, ma anche per la  predilezione per l’ombra ed il buio.

 

Così vera era l’estate.
Marciapiede, inferriata, sentiero, colchici,
noci, arbusti, lucignoli, ombre,
ombre.

Solo all’ombra l’uomo può percepire i veri contorni della realtà perché le cose si mantengono solo al buio.

In un’intervista di qualche tempo fa il famoso artista Enzo Cucchi dichiarò:

Sai il buio mantiene, mantiene le cose. Tutta la qualità delle esperienze va messa all’ombra o al buio, perché si deve conservare. Ma conservare non nel senso stretto con il quale intendiamo “conservazione”. Conservazione come definizione va a rabbuiate tutte le cose, va a inaridire tutte le cose.

Mario Benedetti non vuole “conservare” le cose, ma guardarle per un’ultima volta, per poi scivolare via con esse.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *