«Al cuor non si comanda»

Mario Benedetti, foto di proprietà dell’autore

di Roberto Galaverni

Se è vero che al cuor non si comanda, quella di Mario Benedetti è una poesia che non ho mai davvero amato. Lo dico con tutto il rispetto dovuto alla sua storia di poeta, e anche con un po’ di rammarico. Sono stati altri, tuttavia, i poeti della sua generazione, o comunque di anni vicini ai suoi, a cui ho guardato con più interesse. Non so nemmeno dire con sicurezza il perché. Forse è semplicemente una scintilla che non è scattata, forse invece non mi ha mai convinto del tutto quel suo capofitto nelle vicende personali, quel suo disinteresse per tutto ciò che non lo riguardasse in prima persona che aveva come rovescio una specie di priorità, di diritto di precedenza riservato alle sue stesse premure. Se il punto di forza della sua poesia è stata l’intensità, nei momenti migliori davvero disarmata, della sua spinta evocativa (per un lungo tratto, che poi è il suo migliore, i versi di Benedetti nascono da un continuo e ossessivo ubi sunt?), a me questa sua esclusività è sembrata sempre anche una scorciatoia, o comunque qualcosa che rischiava di esserlo.

Detto questo, è altrettanto vero che ritengo Umana gloria un libro notevole, in particolare per alcune poesie capaci di arrivare e lasciare il segno. Sono quelle, del resto, che più spesso vengono ricordate, tra cui ovviamente Che cos’è la solitudine. Ma a queste aggiungerei almeno Borgo con locanda, che è splendida, e Fine settimana. Per me Benedetti sta tutto o quasi in questo suo libro, il che poi significa nei suoi primi venticinque anni di poesia, e dunque nei vari libretti di cui Umana gloria costituisce la sintesi e insieme il coronamento. È una tipica poesia di fine secolo, la sua, una poesia, diciamo, del dopo Settantasette. Il riflusso ideologico, il ripiegamento nella dimensione privata, il ricorso alla poesia come possibilità di resistenza insieme derelitta e ultimativa, l’importanza delle amicizie poetiche, e via dicendo.

Direi anzi che Umana gloria, che pure l’ha collocata su un livello medio più alto di quanto non fosse in precedenza, è arrivato per certi versi in ritardo, quasi fuori tempo massimo, perché era la testimonianza di una stagione che si era ormai conclusa. Del secolo passato, in sostanza. Così qualcosa della temperatura storica, ma anche delle attese e della febbre poetica condivise con alcuni compagni di strada da cui le sue poesie erano nate, ha finito per non avere tutto il rilievo che di fatto aveva avuto.

In ogni caso, a questa altezza la poesia di Benedetti c’è senz’altro, anche se non mi sento di parlare di santa idiozia, di fanciullezza, di stupore e tant’altro, come si fa di solito. A meno che non si riconosca nella sua voce poetica anche tutta la malizia e la crudeltà di cui i bambini possono essere capaci. Insomma, come si fa a prendere in parola il suo candore o il suo attonimento? Persino nei suoi tratti espressivi più conclamati come le sgrammaticature e gli anacoluti quanto c’è di voluto, quanta astuzia che si pretende genuina? «Vengono a vedere la partita e io potevo non venire se volevo»: può sembrare persino un prodotto della scuola del «Semplice». Ho visto però che negli interventi dei giorni passati Andrea Cortellessa ha parlato di aggressività. Con molta ragione, mi sembra. Penso allora che se il consenso ottenuto dalla poesia di Benedetti, che è piuttosto ampio e convinto (so da tempo che nel suo caso il mio è un rapporto di minoranza), fosse dovuto al primato del sentimentalismo e di quel sovrappiù di pathos che occhieggia perfino nelle sue riuscite migliori (un poeta e una poesia, diciamo così, in odore di bontà), si farebbe non poco torto alla insidie, alle contraddizioni e, in sostanza, all’oscuro fuoco che l’hanno generata e nutrita.

Da quegli anni la poesia di Benedetti non è mai riuscita a uscire, se non al prezzo, almeno, di perdere quasi del tutto se stessa. Pitture nere su carta a me sembra un libro costruito tutto a tavolino, pretenzioso e alla lunga stucchevole. Il Benedetti essenzialista, definitivo e sapienziale, il Benedetti in versione Celan insomma, a me non convince proprio, tanto più per la sua presunzione di genuinità. Penso infatti che tra coloro che hanno guardato a Celan (quanti nefasti gerghi poetici e critici ne sono derivati però), altri abbiano fatto comunque meglio. È vero, le vicende della sua vita a un certo punto si sono terribilmente complicate, ma, ecco, se il poeta di Umana gloria e dei libretti precedenti veniva posseduto e come spaesato dalla sua stessa occasione poetica (il Benedetti migliore non è un bambino ingenuo, ma un uomo adulto che si è arreso, malgrado o al di là di se stesso, a ciò che semplicemente è e accade; come qualcuno che strada facendo abbia perso il proprio orientamento e la propria intenzionalità), il poeta di Pitture nere e di Tersa morte (che comunque ha il merito di riaprire un po’ il gioco: qualche zampata di classe in quest’ultimo infatti non manca) le sue occasioni invece le cavalca, le mette a frutto, alla lettera, se ne approfitta. Questo non è più un poeta stupito, visto che di stupore per la sua poesia spesso e volentieri si parla, ma un poeta che vuole stupire. Quella del secondo Benedetti, per concludere, è una poesia che fa fede della propria autenticità, ma sulla cui totale buona fede non mi sentirei di scommettere.

Per me dunque Mario Benedetti è e resta il poeta di Umana gloria, o meglio fino a Umana gloria. Un poeta unius libri. Il che non è certo poco, tanto più pensando che non sono molte le raccolte di poesia degli ultimi decenni che possiedono le qualità per restare. È soprattutto per quel libro, è per quella poesia che anch’io sono qui a celebrarlo.

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