Le parole hanno fatto il loro corso

Mario Benedetti, poeta italiano

La pietas di Mario
di Alberto Casadei

 

Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità
commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Gli ospedali non hanno corsie. Dal cimitero dei cani
vicino alla discarica di Limbiate escono i morti al guinzaglio.
Non si addensa nulla, si disperde al telefono il mio petto.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Sei solo stanco, ripete una voce qualunque

(da Tersa morte, Mondadori, 2013).

 

Questo componimento rappresenta Mario Benedetti attraverso i nuclei generatori della sua poesia. Il primo gesto è quello del separare o disperdere o disgregare: l’essere unito in una determinata condizione, per esempio quella data dal proprio nome, è solo un caso o un errore. Bisogna credere alla coesistenza di realtà diverse, non ai tentativi di fonderle per dare loro una “continuità”, ossia un senso. Così, fin dall’apertura di Umana gloria (2004), “Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi”.

È un atteggiamento riconducibile ai filoni schopenhaueriani in vario modo consolidatisi nel XX secolo. A Mario erano cari Michelstaedter e Bataille: seguendoli, riflette tra l’altro sul valore di “morcelé”, la condizione del frammento, l’essere frammentato in sé (Materiali di un’identità, 2010, p. 12). Il primo gesto della sua poesia non è l’“esporre i frammenti”, come nella grande tradizione umanistica alla Eliot, è “diventare un frammento”, proporsi nella condizione di verità che non è data dall’esterno, da un credere ad Altro o anche alla razionalità autosufficiente, ma è raggiunta dal toccare ogni volta il nadir, il “subietto dei nostri elementi”, il pezzetto casuale e irriducibile.

In questa direzione è andata tutta la poesia di Mario con Pitture nere su carta (2008), il libro più celaniano della sua opera. Nella ricerca dei fondamenti disgregati, capita di doversi confrontare con l’idea di Dio. Le due Supernove sono il frutto di questo incontro, mediato dal Dante dell’Empireo (pochi altri artisti hanno osato confrontarsi con quella parte del poema sacro), e il risultato è una semplice e perentoria riscrittura: “de l’alta luce che da sé è vera” diventa “eco di luce che non da sé è vera”. Quanto creduto per fede non esiste più, ma una qualche verità resiste come eco.

Il secondo gesto è il curarsi de minimis. I frammenti sono inutili, in apparenza, quando li abbiamo tra le mani cosa possiamo farcene? In Pitture nere, prevaleva la valenza estetica, nel senso più alto: lo stupore del vedere quel frammento, dell’amarlo: “Estate cara. Dove nulla / tiene la vita, e traspare la nostra” (p. 43, c.vo mio). I frammenti possono riformare una serie, come ha fatto Goya con i suoi incubi, con il suo “amour de l’insaisissable” (così Baudelaire, citato in esergo).

Ma il curarsi dei frammenti è anche altro, è il primo passo verso l’amarli, il volere che almeno loro possano salvarsi. “Le iscrizioni neolitiche sono state / sulla mia mano” (Umana gloria, p. 83). Tutta la vita umana può ancora ritrovarsi nelle linee di una mano, della nostra mano. Per questo bisogna cercare un contatto con ogni altra vita, intesa come un frammento inesplicato, un destino che “non da sé è vero”. Il poeta dovrebbe raccoglierli tutti, in qualunque modo: “L’ho letto in un foglio di giornale”, come dice uno dei testi più straziati di Mario, Che cos’è la solitudine. E poi, persino il pudore di aver disturbato, il poeta che ha guardato come la donna che si è uccisa, dicono: “Scusatemi tutti”.

Nel nostro testo, sembra che la ricerca di questi frammenti da curare sia finita. “Le parole hanno fatto il loro corso”. E nemmeno il nulla si addensa, in versi visionari degni del Baudelaire degli Spleen: “Dal cimitero dei cani / vicino alla discarica di Limbiate escono i morti al guinzaglio. / Non si addensa nulla, si disperde al telefono il mio petto”. Eppure in Mario, sino alla fine, sino all’analisi dell’appressarsi della morte, resta una pietas, il terzo grande gesto della sua poesia.

“Io le chiedo: cosa mangi?” (Umana gloria, p. 111). Una profonda condivisione dell’esistere può superare la frammentarietà. Può dare un senso a quello che, subito dopo, sarebbe l’elenco senza senso: “Ha le brioss del supermercato, lo yogurt, / le mani, la bocca dei defunti”. Ma qualcuno ha chiesto “cosa mangi?”.

Così, anche in questa condizione estrema, alla fine delle parole, può arrivare una voce: “Sei solo stanco”. Sarebbe troppo facile pensare che qui Mario volesse solo sottolineare la totale lontananza fra chi sta morendo e tutti gli altri. “Sei solo stanco” può essere il segno di una compassione, può essere l’accettazione anche di chi non ha e non è più niente. Potrebbe essere una frase ‘di circostanza’, oppure essere la frase ‘in circostanza’. Potrebbe essere la verità che si cercava, semplicissima.

Finire come Ivan Il’ič o come Gregor Samsa? La pietas di Mario, comunque, esiste. La sua poesia, come la grande poesia oggi, cura i minimi frammenti di tutti, e vuole che raggiungano una massima condivisione.

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