
Mario Benedetti, credits ph Dino Ignani
Povera umana gloria, quali parole abbiamo ancora per noi?
di Claudia Crocco
Quando ho incontrato per la prima volta Mario Benedetti, era appena morto Mario Benedetti. Mi è tornato in mente leggendo i post Facebook di chi segnalava l’errore di «Repubblica». «Repubblica» ha pubblicato un articolo sulla morte di Mario Benedetti poeta italiano, ma corredato dalla foto di Mario Benedetti poeta uruguaiano. Mario Benedetti poeta uruguaiano è morto nel maggio 2009, quando io ho conosciuto Mario Benedetti poeta italiano. Mario Benedetti poeta italiano ci rideva su, aveva ricevuto chiamate che chiedevano conto di quella presunta morte. Chissà cosa direbbe oggi, vedendo la foto sbagliata associata al suo nome su un giornale nazionale. Penso che si arrabbierebbe, perché si arrabbiava spesso per cose del genere – per il mancato riconoscimento dato a lui e alla sua poesia. Per ricordarlo, ho deciso di scrivere di questo.
Ci sono varie idee di poesia oggi, spesso concorrenti fra loro. Benedetti non fa nulla per sembrare à la page: non esita a usare la prima persona, parla di ricordi privati e personali, talvolta si rivolge a un tu femminile. Per il pubblico della poesia italiana del ventunesimo secolo tutto questo è terribilmente fuori moda. Umana gloria, infatti, non ha ancora avuto il riconoscimento che merita. Eppure Umana gloria è uno dei libri cult fra i venti-trentenni che appartengono alla ristretta cerchia di cui sopra. Come si spiega? Credo che, alla base, ci sia un’originalità che Benedetti condivide con pochi altri: da Umana gloria a Tersa morte, ci mostra come sia possibile scrivere poesia lirica senza essere desueti. Questo esercita ancora un certo fascino su chi inizia a scrivere versi oggi. Ecco un esempio:
I monti del Cantal
In fondo ai monti del Cantal, di sera,
guardiamo la casa più vecchia di Saint-Flour.
È stato un uomo a tenere la casa per noi.
A poco a poco ha comperato
le cose che sapeva di un tempo e di un altro. E adesso è così.
Siamo entrati l’indomani. In basso
c’era un po’ di archeologia del posto,
e poi del legno, pavimenti, armadi
dei contadini del Cantal.
Poi ho voluto comperare le fotografie di Jacques Dubois, Les Auvergnats.
La notte abbiamo dormito bene per l’aria fresca
che c’è sempre anche d’estate. E ho visto un carro con i buoi
che andava via per l’occidente:
solo hanno le musiche e sanno sognare con forza i giorni
nell’Europa dell’est, credo di averti detto.
Abbiamo mangiato cose delicate e cercato di ricordare il vino,
poi ti ho parlato, mi hai detto senza capire cosa,
la mattina quando ti sei svegliata
triste e come disperata per la mia vita.
Una delle ossessioni di Benedetti è stata l’incapacità del linguaggio di esprimere appieno la realtà («poi ti ho parlato, mi hai detto senza capire cosa»), e di sottrarre il ricordo, le emozioni, i gesti, le cose, le persone e il paesaggio allo scorrere e al deperimento del tempo («credo di averti detto», «cercato di ricordare il vino»). Non è un tema nuovo: la non referenzialità del linguaggio è il tema della cultura e della letteratura europea negli anni Sessanta e Settanta (e potremmo andare ancora più indietro).
Il punto è che, per quanto riguarda la poesia italiana, una consapevolezza teorica del genere viene attribuita principalmente alla Neoavanguardia e a quegli autori che hanno scritto nel solco di Balestrini, Villa, Sanguineti; oggi, viene riconosciuta principalmente alla scrittura asemantica, di ricerca. Ma Benedetti ci riflette dagli anni Ottanta, dalla tesi di laurea su Michelstaedter; in parte, queste riflessioni sono registrate nelle pagine di «Scarto minimo», in dialogo con quelle di Stefano Dal Bianco e degli altri autori vicini alla redazione. Si può dire che fin dal primo libro, fin da Moriremo guardati (1982), sono già presenti i fulcri teorici della poesia di Benedetti: la letteratura è uno sforzo continuo di rendere conto di quel complesso di sensazioni, esperienze e impressioni soggettive che, per ognuno di noi, costituisce la realtà; lo stile – tutto improntato alla mimesi dello stupore, nel suo caso – deve renderne la finitezza e l’essenza caduca. La capacità linguistica è ciò che rende possibile il ricordo; lo sguardo e le parole permettono di fissare la presenza di cose e persone perdute o destinate a terminare. L’altro grande tema della sua poesia è il confronto costante con l’idea della morte, conseguenza inevitabile della caducità di ciò che compone la vita. Anche l’idea che le dimensioni temporali comunichino in qualche modo nella mente di chi le vive o rivive, e attraverso la poesia, è presente fin dai primi libri: già in Il cielo per sempre (1989) si leggono versi come «È successo un tempo / ma è come fosse adesso / perché anche adesso è un tempo». Oppure:
Strada che sarà ancora
pagina con le altre
hai costruito ceste, fiori e una
ragazza nata nel 1905 e morta
nel 1936, paese
che si curva e piange
in un pomeriggio di sole.
La calligrafia di mio padre
e correrebbe la bicicletta nera…
Mi sembra domani la pioggia sulle tegole,
l’autocarro con la legna, mia madre
che guarda tutto quello che accade. […]
Frasi come «Mi sembra domani» e «una / ragazza nata nel 1905 e morta / nel 1936» sembrano uscite da Tersa morte, mentre sono datate 1989. Sia in Tersa morte sia in Il cielo per sempre la compresenza di vivi e morti, e di piani temporali diversi, è ottenuta attraverso una mescolanza di tempi e di soggetti, che non sempre concordano come dovrebbero: i soggetti si scompongono e l’io può essere qualcun altro, nella scrittura.
Mario Benedetti è un grande poeta per vari motivi. Uno di questi è che la sua riflessione sui limiti del linguaggio e dell’arte non rinuncia mai a parlare dell’essere umano – «povera umana gloria / quali parole abbiamo ancora per noi?». È il primo autore che abbiamo inserito nel progetto di un’antologia della poesia italiana contemporanea; abbiamo iniziato a preparare il suo profilo, per portarlo come esempio all’editore. Non ho fatto in tempo a dirgli di questa novità, dunque la scrivo qui – è una cosa bella, no?