Da Adesso e nell’ora della nostra morte
Written in Portuguese by Susana Moreira Marques
Tradotto in italiano da Marta Silvetti
Sul comodino, un orologio segna l’ora delle cure. Nessuno sembra notare l’ironia di un orologio al capezzale di un moribondo.
—
Nel paese in cui è emigrata si dice che le persone volano in cielo. A casa sua, da piccola, sentiva dire: è morto, e non torna più. Preferisce andare a morire a casa sua.
—
L’Uomo ha le mani sporche di sangue, ma Dio di più. L’Uomo ha i morti nella memoria, ma anche Dio. L’uomo ha gli incubi di notte, ma Dio non dorme.
—
La paura negli occhi dell’uomo che non vuole camminare. Ha paura di cadere. Ha paura di rimanere per terra e vedere dal basso sugli scaffali alti i libri che non può più leggere; o in cortile, sdraiato sulla terra fredda, vedere la cima degli alberi da frutto e gli uccelli avanzare, avvicinandosi ai suoi occhi. Pensa che la moglie non riuscirà ad alzarlo. Pensa che dovrà chiamare qualcuno, e altri lo vedranno per terra e lo alzeranno, puliranno la cacca degli uccelli o, nel caso si trovi dentro casa, lo trascineranno sul divano che in fondo è così vicino. Trema ancora di più quando ci pensa. Smetterà di parlare per non tremare di più. Smetterà di pensare per non tremare di più. Poi si dimenticherà la parola Parkinson.
—
… prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen.
—
Il bambino va in bicicletta su una strada senza macchine, che gli sembra lunghissima. Alla fine della strada, un’altra strada, e poi il campo, ossia, il mondo con il possibile e l’impossibile. Tra molti anni, quando tornerà al suo paese, se ancora ci sarà un paese, vedrà come in fondo era corta quella strada e il campo, poco più grande di un bel cortile. È possibile che tra molti anni non vedrà nessun bambino rendere grande quel mondo; e che si sentirà parte di una specie in via d’estinzione.
—
Adesso e nell’ora della nostra morte.
—
Nell’ultima settimana, ha cominciato a pensare tutte le notti che sarebbe stata l’ultima notte; che non avrebbe più visto il marito respirare il giorno seguente. Alla fine di certe giornate, era così esausta che ha cominciato a desiderare che accadesse rapidamente, e subito dopo si era sentita in colpa, e aveva pianto perché lui non aveva mangiato lo yogurt a colazione.
—
Adesso.
—
Le ultime note che scrivo sono su un uomo che canta per la moglie. Ha imparato di nuovo a suonare la chitarra dopo che lei si è ammalata di leucemia. Quando la moglie tornò a casa dall’ospedale l’anno prima, M. pensò che sarebbe morta di lì a poco. Ma una volta a casa migliorò e i due iniziarono una seconda vita insieme.
Tutti mi vogliono io voglio qualcuno / voglio il mio amore / non voglio nessun altro. Lui suonava e cantava, e lei, seduta sulla poltrona in salotto, batteva il piede, e canticchiava, perché nonostante i vuoti di memoria, ancora ricordava le melodie. Quando lui andava a suonare alla radio locale, le dedicava le canzoni.
Non avevano avuto figli. Quando si sposarono lei già non era più in età per fare figli. Dato che lui era molto più giovane, aveva sempre saputo che un giorno si sarebbe occupato di lei ma forse non aveva immaginato che sarebbe stato così difficile. Lei non ha più nessuno.
In queste ultime note, M. non suona la chitarra perché è debilitato in seguito a un’operazione alla colonna. Adesso vive perennemente nella paura che gli succeda qualcosa e che lei rimanga sola. Ma non dice nulla di questo. Dice che ha promesso cento euro alla Madonna — l’ha vista sulla porta della sala operatoria —, e l’operazione è andata bene e tutto tornerà a essere il più normale, il più vivo possibile, e il più musicale. Per evitare di parlare, M. fa risuonare la sua voce in una cassetta, in un vecchio registratore portatile.
—
E anche se le parole sopravvivessero, per quanto sono vecchie, sarebbero incomprensibili.
—
La ragazza impiega molto tempo a scendere le scale, le gambe come quelle di una bambola di pezza, una mano ferma davanti al petto. Impiega del tempo a uscire di casa e a sedersi sulla panchina lì fuori, al sole, con le vecchie.
—
Manuale di sopravvivenza:
5 — Seguire i circoli delle aquile e immaginare i nidi.
—
Dove sta Ivan Ilitch? Dove sta l’agonia, come ha scritto Lev Tolstoj? Dove stanno gli uomini che si guardano indietro, verso il momento in cui si sono fatti uomini? Dove sta il pentimento e il perdono? E la soddisfazione, se c’è stata, degli anni felici? I malati soffrono e sembrano non avere la forza di pensare, di porsi questioni morali — e neanche sembrano più preoccuparsi (sarà un segno dei nostri tempi?) del paradiso, dell’inferno, del giudizio finale. Vogliono solo un altro po’ di vita, vogliono un po’ più di tempo per credere che il corpo vince; tutti vogliono, con una forza sproporzionata, forse delirante, rimanere con gli occhi aperti.
—
E poi, l’amore, il grande sopravvissuto al disastro.
—
Se tornerò, se busserò di nuovo alla porta, e poi di nuovo e di nuovo ancora, se avrò tempo, tempo senza fretta, omettendo il fatto che sono nata in città, se sapessi ascoltare meglio, con ogni parola che si sente coccolata e compresa, se sapessi cosa fare con le mani e non scrivessi note, le persone aprirebbero e mi direbbero a cosa pensano veramente nelle lente e solitarie ore della notte?
—
E infine, le mani che scrivono contro le immagini accumulate.
—
Erba della dimensione di un bambino che danza sul ciglio della strada. All’orizzonte i monti che si uniscono come degli amanti. Tutto questo in viola intenso nei secondi successivi al calare del sole.
Translated into Portuguese by Susana Moreira Marques
Pensa nisto: chegas a uma cidade nova, a um país diferente, a uma parte do mundo diferente. Tentas compreender uma realidade em poucos dias, escrever sobre ela, condensá-la. Queres construir uma ponte e ao mesmo tempo atravessá-la, embora possas estar separada por tanta cultura e história. Queres apreciar o calor, os trópicos. Mas também queres ser lúcida em relação ao sofrimento de um povo.
Pensa que chegas com um romance como único guia, e que um romance pode iluminar mas também pode induzir em erro. Chegas pela mão de um escritor morto que, depois da morte, ainda consegue captar o terror e a beleza de carregar uma herança, tanto como indivíduo quanto como colectivo.
Queres encontrar um ponto de partida para compreender como cem anos se transformam em outros cem anos e depois em outros cem, e a natureza humana continua estranhamente reconhecível.
*
A praça (la ciudad):
A Plaza de los Coches é um sítio tão bom como outro qualquer para começar a falar de heranças e dos estranhos mecanismos da passagem do tempo.
De um lado da praça fica a Torre do Relógio, o Big Ben colombiano, do outro, edifícios de estilo colonial antigos, bonitos, bem conservados, pintados em tons de amarelo e vermelho.
É difícil fazer uma lista de todos os nomes que a praça teve ao longo dos tempos: Plaza del Juez, a partir do juiz que condenou e tomou o lugar de Pedro de Heredia, o fundador da cidade; Plaza del Esclavo, a partir do mercado de escravos africanos; Plaza de la Hierba, a partir do mercado de comida para cavalos, mulas e outros animais; Plaza del Puente, a partir da passagem sobre as águas que faz a ligação com a zona de Bocagrande; Plaza del Rollo, a partir da coluna onde se colocavam anúncios para serem vistos por toda a população: sobretudo, listas de acusados pela Inquisição e listas de escravos – homens, mulheres e crianças – para serem levados a leilão.
Na praça, há sempre movimento. Vendedores de rua – normalmente homens negros – vindos de subúrbios distantes vendem chapéus, óculos escuros ou malas artesanais típicas da região. Outros empurram carrinhos de gelados ou carrinhos que vendem sumos de fruta espremida na hora. As mulheres negras usam longos vestidos exóticos, coloridos, para venderem banana, manga ou abacaxi, os cestos de fruta equilibrados na cabeça. Alguns homens mostram fotografias de praias a brilhar ao sol – las islas, gritam – para venderem excursões de um dia.
Ao cair da noite, junta-se todo o género de pessoas na esplanada do Donde Fidel. Sentam-se a beber cerveja e a ouvir a salsa que chega aos berros do bar. As prostitutas – normalmente mulheres negras – esperam, encostadas à muralha antiga. O movimento continua pela noite fora: músicos tocam batuques; vozes cantam. Nos momentos de silêncio, o som dos cascos dos cavalos contra a calçada, enquanto puxam carruagens de estilo antigo, é audível e dá a impressão de que estamos noutro tempo.
A Plaza de los Coches é uma praça tão boa como outra qualquer testemunha das transições do poder para pensar sobre a forma como o colonialismo e o racismo moldam uma cidade e as pessoas que a habitam.
*
Porque procuras imagens que confirmem as tuas suspeitas, encontras: por exemplo, ao deixar a cidade a caminho do campo, as estruturas frágeis construídas por pescadores no meio da água, cada uma ligeiramente afastada da outra. Um homem pode não ser uma ilha mas certamente passa uma vida a construir uma ilha para si mesmo; o seu próprio quarto, o seu próprio mundo, quer seja um escritor ou um pescador.
A imagem da solidão confunde-se com a imagem da persistência e da independência. E, claro, da criatividade.
*
La casa: é uma casa de aldeia. Parece ter sido construída em diversos momentos, um lego começado e recomeçado, alterado. Pintaram-na toda de azul por fora. Por dentro, é um espaço aberto até ao telhado, os quartos saindo directamente da sala e da cozinha. Um rapazinho funde-se com uma poltrona, quase encostada aos desenhos animados na televisão. Um casal, provavelmente os pais da criança, descansa no quarto. O avô acaba de chegar a casa e senta-se no pátio. A mulher, bastante mais nova, olha para ele. É magro, de uma magreza rija. Foi apresentado como a personagem que podia ter entrado na obra do grande escritor colombiano e não entrou. Mas é um homem com uma história aparentemente banal – vida a trabalhar a terra, duas ou três mulheres, dois filhos ilegítimos, muitos em casa, e os netos e bisnetos -, e a sua excentricidade parece dever-se apenas a uma saúde de ferro, uma longevidade genética e uma alegria inocente, talvez desbragada, que certamente esconde um mal.
*
A praça (el pueblo):
Como em todas as aldeias, há uma praça em Aracataca, a aldeia onde cresceu Gabriel García Márquez, e é em redor da praça que gira toda a vida da povoação. A praça tem uma igreja, lojas, cafés, bares, e vendedores de rua nas esquinas. No centro há uma velha estrutura redonda que parece não ter outro propósito a não ser o de as crianças correrem à sua volta, em círculos.
Um ecrã e filas de cadeiras foram postos em frente da igreja para a projecção de um filme escrito por Gabriel García Márquez. As mulheres de meia-idade vestiram as suas melhores roupas. As mulheres jovens vestiram as melhores roupas aos filhos. Os homens velhos sentam-se, concentrados. Os homens jovens andam pela praça de cerveja na mão. Duas meninas, com laços a condizer nos cabelos, brincam uma com a outra, batem as mãos e cantam enquanto o filme começa. Um menino ensonado esfrega a cabeça contra as costas da irmã. A irmã está de patins. Sorri para mim. Pouco depois, patina até à cadeira ao meu lado para me perguntar de onde venho e para me dizer que gostaria de conhecer lugares distantes.
Um daqueles homens em pé, um pouco afastados, sossegados, deve ser escritor. Disseram-me que a aldeia está cheia de escritores, cada um deles esperando ser o próximo nobel colombiano, atirando palavras à sorte como bilhetes de lotaria.
Aracataca talvez tenha sido Macondo um dia, mas agora é Aracataca.
*
Procuras ficções e encontras factos; procuras fantasia e encontras História detalhada.
Aureliano Buendía, o coronel que recorda ver o gelo pela primeira vez com o pai enquanto espera ser morto por um pelotão de fuzilamento no início de Cem Anos de Solidão, parece-se bastante com líderes históricos de guerrilhas e grupos armados: homens entrincheirados nas suas lutas, teimosos perante a derrota, infectados pelo poder de liderarem outros homens a massacrarem ou a serem massacrados, inspirando medo e admiração, confiantes, paranóicos, homens obsessivos; e alguns deles – é o caso de Manuel Marulanda Vélez, fundador das FARC – até tiveram direito a morrer, como Aureliano Buendía, de morte natural, sem culpa.
Descobres como as palavras podem expressar com exactidão a imaginação absurda da violência, e também descobres como as palavras a podem tornar suportável.
*
Dicionário de morte:
Corte de corbata: cortam-te a garganta horizontalmente e puxam-te a língua para fora até ficar como uma gravata pendurada ao pescoço.
Picar para tamal: cortam-te o corpo, pedaço a pedaço, enquanto ainda estás viva. Isto tem a vantagem de facilitar o enterro do cadáver, pois ocupará um buraco mais pequeno na terra.
corte frances: escalpelizam-te o couro cabeludo, enquanto ainda estás viva.
bocachiquiar: fazem furos em várias partes do teu corpo e esperam que te esvaias em sangue.
Corte floreo: mutilam-te os membros e depois voltam a colocá-los pegados ao torso, como pétalas de uma flor.
Ver também: simples decapitações, enforcamentos, crucificações, morte na fogueira, morte por espancamento.
As lições de La Violencia – o conflito entre Conservadores e Liberais, entre o final dos anos 40 e o início dos anos 60 – foram mais tarde aperfeiçoadas pelos paramilitares e a guerrilla das FARC.
No total: quase setenta anos de conflito, aproximadamente meio milhão de mortos, cerca de sete milhões de deslocados.
*
Cem anos numa vida:
No início do século XX, a avó de Jorge Leal Molina veio de Espanha, de uma aldeia cujo nome já ninguém se lembra. Casou-se com um homem colombiano e ficou na Colômbia até morrer.
O pai de Jorge começou ainda jovem a trabalhar na plantação bananeira, propriedade da empresa americana United Food Company. Era uma empresa poderosa. O pai de Jorge mais tarde descrevê-la-ia como um polvo, um braço produzindo bananas, outro chegando a África, explorando minas de diamante, e assim sucessivamente, espalhando-se por todo o mundo.
O pai de Jorge casou-se com uma jovem mulher de uma aldeia próxima. Ela engravidou sete vezes, abortou duas: todos machos. Jorge foi o segundo a nascer e da mãe herdou apenas os olhos verdes e um carácter bondoso. Ela era uma mulher grande, forte, mais forte do que o marido, e tornou-se o homem da casa. Seria ela a tomar conta dos terrenos da família. Conseguia carregar sacos de café sozinha. Ele tratava das contas e decidia quais os novos investimentos a fazer. Era um homem caseiro. Ela era sociável e generosa, gostava de pessoas e mais tarde envolver-se-ia na política, uma decisão que haveria de conduzir à sua morte aos cinquenta e tal anos.
Jorge cresceu na propriedade da empresa: dez mil hectares geridos por um pequeno grupo de gestores e engenheiros americanos. Um destacamento do exército vigiava constantemente a propriedade e garantia a segurança. Quando era criança, ele e os irmãos brincavam com os miúdos americanos. Mascaravam-se no Halloween com disfarces pouco próprios para o clima tropical. Aprenderam a jogar beisebol e badmínton. Era um país diferente, não era nem a Colômbia nem os Estados Unidos; um país com as suas próprias leis, cuja base era o poder de poucos sobre muitos. A memória dos assassinatos de dezenas de trabalhadores no jardim mesmo em frente de casa, durante a greve de 1928, ainda estava fresca.
O pai de Jorge tinha comprado a casa a um gestor que se tinha ido embora, e foi nesta casa que ele nasceu e cresceu, e foi nesta casa que ele veio a saber da morte da mãe.
Jorge deixou a propriedade, o lugar de Sevilla, o distrito da Zona Bananeira, a costa caribenha e, por fim, a Colômbia. Viveu em Espanha, no Norte, onde os verões são frios. Tinha acabado de regressar e estava temporariamente a viver na casa de família, com planos de voltar para Espanha, quando aquilo aconteceu. Primeiro souberam as pessoas da aldeia, e depois as pessoas das quintas nas redondezas, e eles foram os últimos a saber. Alguém veio chamar o seu pai de madrugada.
Jorge encontrou a mãe morta, não muito longe da estrada, com uma bala no peito e outra numa perna. A poucos metros estava o corpo do irmão. Tinha sido executado de costas com um tiro na cabeça. A família conseguiu reconstruir os acontecimentos: como as FARC tinham raptado um familiar de um trabalhador em quem a mãe de Jorge confiava, e como ele a tinha matado.
Há muito tempo que as empresas de exploração de banana tinham partido, e a perda da mãe de Jorge reforçou a solidão da vida na propriedade. Anos depois – tendo sobrevivido sem enlouquecer à perda da mulher, de um filho, de parte das suas terras, também tiradas pela guerrilha -, o pai morreu. Os outros irmãos partiram, excepto Hugo.
Jorge nunca regressou a Espanha. Nunca casou, nem teve filhos. Nunca recomeçou a sua vida. Toma conta das terras que restam à família. Como a mãe, tornou-se um líder local e tenta ajudar outras vítimas de violência. Luta pela restituição de terras, por alguma espécie de justiça.
Vive com Hugo na casa. Os seus quartos ficam longe o suficiente para que ele às vezes tenha a ilusão de que vive sozinho.
O centro da casa é uma grande sala com cadeirões partidos, sofás com estofos antiquados, velhas cortinas corridas, belos conjuntos de loiça de porcelana eternamente postos na mesa de jantar, livros a desintegrarem-se, fotografias a preto e branco da família, impecavelmente penduradas na parede. Eles nunca usam a sala e mantêm-na assim na esperança de receberem vistas e de, um dia, fazerem um museu.
Lá fora, a casa está rodeada de ruínas e do verde intenso do terreno mal cuidado.
*
Não acreditas em fantasmas mas tens medo deles; acreditas em preservar a memória mas tens medo de te perder no teu próprio tempo.
*
“Aqui é o verdadeiro Macondo”, diz o homem enquanto segura um machete na mão. “Aqui. O verdadeiro Macondo.”
Macondo fica perto da antiga propriedade da United Food Company. Chega-se lá rapidamente, por uma estrada paralela à linha do comboio. Tem duas ruas e uma escola. As casas ficam perto umas das outras, em fila, e todas têm penduradas à porta uma gaiola com um pássaro. Uma casa igual às outras serve de igreja: na parede, colocaram um cartaz com uma citação da Bíblia acerca de como as palavras julgarão aqueles que não escutam, em João 12:48, escrita à mão. As ruas não são pavimentadas. Os pássaros nas gaiolas cantam constantemente.
Aqui, o tempo não parece ter qualquer papel. Não parece haver passado nem futuro; apenas o presente a repetir-se.
Na pequena aldeia chamada Macondo – o mesmo nome da aldeia ficcional de Cem Anos de Solidão, embora seja difícil saber o quanto García Márquez conhecia deste lugar – as pessoas vêm à porta para me observar, tanto quanto eu as observo a elas. As crianças seguem-me, e aos outros forasteiros, como se fôssemos os ciganos de García Márquez, trazendo de muito longe as últimas maravilhas, incontáveis novidades.
Durante a viagem de camioneta, vejo outras pequeníssimas aldeias assim, debruçadas sobre a estrada, apenas ligeiramente diferentes umas das outras, como frames de um filme que embaraça uma nação.
*
Verde, as folhas das bananeiras abertas como leques, verde, a estrada a cortar a paisagem ladeada pela Sierra Nevada, onde, algures lá em cima, filas de turistas vestidos em tons de caqui, com sapatos de trekking caros, tentam alcançar a ciudad perdida para contemplarem o fim da civilização.
*
Não és aventureira. Tens saudades de casa. Não gostas do clima tropical. Não és forte. Não és corajosa. E no entanto queres ficar, sentindo a atracção pela tragédia e pela possibilidade de redenção; e pela ignorância das plantas e a ciência dos corpos diferentes e magoados.
*
De regresso à cidade, a estrada aproxima-se da água: o Caribe, um campo vasto agitado apenas pelo vento e as marés.
O mar continua.
*
Uma vida, um dicionário pessoal:
Horror: o rosto de Neryle (como descrito por ela), aos cinco anos, a acordar para ver que os cadáveres ainda estão em exibição na praça da aldeia, em frente à sua janela.
Silêncio: o rosto de Neryle, aos sete anos, a olhar a partir da cama, no escuro, para o pai, escondido dos homens armados, entre o tecto e a mezanine da casa grande.
Mágoa: o rosto de Neryle, pouco depois de chegar à cidade, mais uma criança deslocada de mais uma família deslocada, a entender que a vida normalmente não melhora.
Fome: o rosto de Neryle, a beber água para ir para a cama com o estômago cheio.
Humilhação: o rosto de Neryle, quando uma vizinha lhe nega comida e outra afasta os filhos dela.
Saudade: o rosto de Neryle, quando pensa na casa grande e na quinta e no ar puro, memórias que se confundem facilmente com abundância e confiança.
Raiva: o rosto de Neryle, enquanto pontapeia e grita e bate nos colegas da escola.
Amizade: o rosto de Neryle, quando percebe que uma menina rompeu através da sua solidão.
Poder: o rosto de Neryle, aos nove anos, quando decide tomar o destino nas suas mãos; apanha uma camioneta sozinha e volta para a sua aldeia.
Resignação: o rosto de Neryle, quando regressa para a cidade e para os pais preocupados, sabendo exactamente onde pertence.
Amor: o rosto de Neryle, quando um rapaz se aproxima dela bondosamente.
Confusão: o rosto de Neryle, a dar à luz com quinze anos.
Amor maternal: o rosto de Neryle, a ver a filha a começar a fazer escolhas difíceis.
Identidade: o rosto de Neryle, quando um professor na universidade implica repetidamente com ela, porque ela é pobre, porque ela é negra, porque ela é uma rapariga, porque ela veio da província.
Consciencialização: o rosto de Neryle, quando descobre que não é a única e que há tantos outros a quem falta tratar bem.
Utilidade: o rosto de Neryle, quando mantém os miúdos do bairro onde vive ocupados todo o fim-de-semana, para que tenham mais esperança à qual se agarrar.
Sucesso: o rosto de Neryle, quando se lembra sem chorar.
Força: o rosto de Neryle (enquanto me conta da sua vida, sentada no claustro da Universidade de Cartagena), a explicar que a tragédia pode unir uma família, que as pessoas se podem tornar invencíveis nas suas pequenas unidades.
Alegria: o rosto de Neryle (como a imagino, noutro lugar), a dançar com um homem sobre o qual nada me conta, num baile, ao ar livre, debaixo de decorações de rua coloridas.
*
Procuras diferenças e encontras semelhanças. Procuras o passado e encontras o futuro.
Pensas nas palavras de Melquíades, a personagem do velho cigano de Cem Anos de Solidão, parte cientista, parte filósofo, parte feiticeiro, profetizando que um dia toda a gente, em suas casas, saberia o que se passa em casas distantes. Embora reste saber que responsabilidade vem com esse poder.
*
Consegues ver os truques do escritor. Identificaste padrões, repetições; um nome herda um nome antigo, um rosto parece-se com um rosto antigo, a narrativa encerra-se sobre uma personagem, sobre ti. No entanto, o truque mais espectacular é o escritor fazer-te esperar pelo melhor; e por mais tempo.
*
Embora acredites no acto de escrever como um acto contra desaparecimentos, nunca saberás porque algumas coisas são escolhidas para serem guardadas com palavras e outras não.
Esta podia ser a última imagem salva da viagem: Uma mulher leva uma garota ao colo e ralha com ela suavemente. Um homem olha, ausente, desde a porta de casa aberta. É meio da tarde de um dia de semana e o bairro está sossegado. O som de uma televisão chega à rua: uma telenovela. A mulher que leva a filha pára de caminhar, pousa a criança, a criança queixa-se, a mãe pega nela outra vez. A rua está cheia de flores que já desabrocharam. Talvez estejam sempre assim, eternamente floridas.
Susana Moreira Marques (20 August 1976) è una giornalista e scrittrice portoghese.
Il suo primo libro, Now and at the Hour of our Death, è stato pubblicato nel 2013.
Intensa e pulitissima Susana Moreira Marques. Pochi aggettivi, nessuna indulgenza alla retorica poetica. Finalmente una scrittura misurata, quasi disadorna. Ma il pensiero e le immagini ci sono eccome.
La ringrazio per le sue segnalazioni.
Un saluto cordiale
CAG
“E infine, le mani che scrivono contro le immagini accumulate”.
Davvero bello e vero. Un verso da non dimenticare.
CAG