La luce poetica della carità

Pasquale Di Palmo

NOTE IN MARGINE
di Marco Marangoni

Il tema della carità quale centro tematico del nuovo libro del veneziano Pasquale Di Palmo, in realtà è forse l’asse poematico attorno al quale ruota da sempre il suo lavoro. Infatti in precedenti libri (Ritorno a Sovana, Edizioni l’Obliquo, Brescia, 2003; Trittico del distacco, Passigli, Firenze, 2018) aveva dichiarato e ripetuto quale fosse per lui la funzione della poesia; ossia, parafrasando: nel donare poesie gratuitamente a chi non sa che farsene. Si tratterebbe di una forma, la poesia, estrema di pietà, una specie di compassione rivolta dunque a chi nemmeno se l’aspetta.  Poesia o compassione per la nuda vita in cui siamo consegnati nei giorni dell’esistenza.

Con le poesie ne verrebbe un linguaggio in cui far passare una certa comprensione di noi, che ci rivela a noi stessi, e che se non ci salva, almeno ci decanta in quel tanto di bene che sta proprio nel lavoro curativo del verbo poetico.  Di questo tenore sono i versi di Maternità Dolfin: in questa luce agonizzante di San Francesco/della Vigna disertata dai turisti[]abbassi lo sguardo mentre lo sguardo/superbo di Sebastiano ci fronteggia […] anche se riappacificati con questa luce/di naufragio, non con il mondo/ che schernisce il mondo”. (La carità, op.cit., p.66).  Ma per giungere a quest’esito di decantamento si dovrebbe affrontare,tutto insieme, il teatro della crudeltà e della meraviglia che è lavita”– P. Lagazzi , dalla prefazione a La carità, op. cit., p. 15.  L’osservazione del critico (che allude ad Artaud, surrealista amato e studiato dal Nostro) è coerente peraltro con la citazione diE. Levinas che troviamo in esergo alla sezione di La caritàintitolata “Il colore dominante”: “Contro la vita, è nella vita che cerchiamo rifugio”.

E’ proprio, infatti, dal modo radicale di guardare alla vita, al fondo della sua precarietà, che ha inizio qui il linguaggio. In altri termini, nel “capire che perfino nella morte c’è vita” (P. Lagazzi, op. cit., p.15) si realizzerebbe quel difficile passaggio verso l’unica serenità che la stessa scrittura in versi consente.

In un abbandono creaturale all’esistenza dunque si compie il gesto di questo poeta, tra i “più originali e umani” (Lagazzi) del presente panorama. La carità, che lo investe, è una luce di comprensione, volta a tutti e tanto più a coloro che, in fondo alla scala del sociale riconoscimento, non sono considerati affatto, o rifiutati perché giudicati ultimi, reietti, “diversi”. E forse (tenendo conto del riferimento testuale a Levinas) è proprio nel tentativo di restituire un “volto” all’altro” che più ci tocca  La carità. Così mentre, nella globalizzazione, si diffondono indifferenza e nuove solitudini, come ci invita a pensare Bauman, una resistenza può levarsi, superstite: “che ci rimette in gioco, che ci rilancia, come poveri funamboli del quotidiano” (P. Lagazzi, op. cit., p.16). Questo pare essere il traguardo poetico di Di Palmo, vicino per stile a una poetica del “dopo”; aperto all’inserimento di prose poetiche (ma anche di una certa narratività), all’uso (intermittente)del dialetto, nonché ad un significativo e spaesato “senso del luogo”: “guardandomi/senza capire/chi siamo dove siamo cosa facciamo/fermi in questo reparto per ore e ore” (La carità, cit. p.29). E circa questa Stimmung lirica Giancarlo Pontiggia ha parlato appunto di “ senso di spaesamento dei luoghi, denunciando una comune condizione di smarrimento, se non di infelicità” ( in Prefazione  a Trittico del distacco, op. cit., p.9).

Volendo approfondire questo approccio stilistico, sarebbe utile leggere l’antologia, curata proprio da Di Palmo, del meglio del corpus poetico di Beppe Salvia ( I begli occhi del ladro, Il ponte del sale, Rovigo, 2004). Col poeta potentino, in effetti, Di Palmo condivide una presa netta di distanza da una poesia eventualmente ideologica, come dal concetto “nominalista” del segno, approssimando una “dimensione – come egli scrive nel saggio introduttivo a I begli occhi del ladro (op. cit., op. cit.11) – sublime, che non necessariamente disconosce il lato apparentemente dimesso delle cose, ma da quello trae alimento per propagare il suo fuoco divino”. Il linguaggio che qui comunque si viene affermando, pur richiamandosi al valore nobile della parola poetica, fa scarto decisamente dalla letterarietà, muovendo all’uso di parole “nude e luminose, aspre e tenere (P. Lagazzi, op. cit.,p.9) dove si realizza un programmatico distacco da ogni “intento estetico. Il limite estremo in questa direzione è stato forse toccato dal Nostro in Marine e altri sortilegi -Il ponte del sale, Rovigo,2006- : “linguaggio da referto” lo ha definito Pontiggia, in Prefazione a Trittico del distacco, op. cit., p.9).

Il linguaggio, che comunque ne La carità ci parla, manifesta la volontà di aderire alle cose e alle persone in situazione, o meglio nella loro circostanza, favorendo un’espressività che se talora evoca certa carica espressionista (“travolge, deformatrascina”, La carità, op. cit., p.55; ma anche si veda il riferimento a Giacometti, p. 48) sembra vocato piuttosto a un dire-essere. A un dire-abbandonato, spogliato, per aprirsi, per quanto è possibile, “a ciò che esiste” (P. Lagazzi, op.cit., p.14). E’ così che già Maurizio Casagrande terminava la sua postfazione a Trittico del distacco, fino a interpretare la poesia di questo poeta “all’insegna di una gratuità dallo spiccato sapore evangelico o francescano” (L’dentità negata dalla Storia, postfazione a Trittico del Distacco, op. cit., p.81). Ed è così che il meglio delle poesie di La carità ci viene incontro, tra distacco dal mondo, “che schernisce il mondo”, e abbandono all’uso di parole come una specie di smemorante salvacondotto, verso un non-dove che pur dev’esserci, una località poetica che il linguaggio trova dislocato nei luoghi degradati e periferici, dentro una luce allucinata, quasi “surreale”. Insomma si tratta di scrivere ad esempio del “Somigliare a quello più alto e imbranato, a cui tutti in allenamento effettuano il tunnel […]immerso nella consultazione del cellulare affinché nessuno lo chiami, squadrando appena la signora che ogni sera viene in bici a portare cibo ai gatti, dietro il campeggio Jolly, vicino al ritrovo dei tossici. Qui, nel buio febbricitante di via della Fonte.” (La carità, op.cit., p. 39).  

E scrivere può significare anche scrivere dei ricordi come resti alla deriva del tempo, in una nostalgia, specialmente della gioventù, che si illumina, nel ricordo, di una qualche autenticità da comprendere ora, alla luce della distanza: “Casa del Fanciullo, San Pio X, Cristo Lavoratore: erano questi i nomi degli oratori dove compivamo le nostre scorribande adolescenziali […] Le partite potevano durare ore. A volte impazzavano le sirene delle fabbriche “(La carità, op.cit., p.41). Di questo passo si giunge a quell’apice icastico della poesia intitolata  La salamandra; in essa si dice di quanto si può trattenere e tramandare , da padre a figlio,se le verità dell’esistenza non passano per la griglia logica , ma solo per speculum in aenigmate: Mi fermai a guardarla, forse al momento/ non compresi fosse una salamandra./Avrei potuto accarezzarla/avrei potuto schiacciarla./Rincasai per chiamare mio figlio./Quando tornammo non c’era più./Sparita, tornata al suo medioevo,/estinta al fuoco interno che l’ardeva.”( La carità, op. cit., p.49).

Da La carità, di Pasquale Di Palmo- Passigli, Firenze, 2018

Adesso che sei qua
guardandomi senza capire
chi siamo dove siano cosa facciamo
fermi in questo reparto per ore e ore
adesso che non hai più parole
come se fossi diventato muto
da un giorno all’altro
crocifisso in questo povero letto
proprio adesso, papà,
penso che non ti ho mai capito
penso che non mi hai mai capito
che per tutta la vita, pur volendoci
bene, ci siamo solo sopportati.
Ma vorrei continuare a non capirti,
a non essere capito, adesso che ti tengo per mano
e ti domando in silenzio : <<Fammi un favore, non andartene>>.

**

La salamandra

Non mi ricordo che stagione fosse.
Immobile, di un nero
squillante, picchiettato
di minuscole macchie giallastre.
Tozza, lunga pochi centimetri.
Ne rammento l’umidore, le zampette
divaricate nel grigiore
di un androne,
appena dietro il portone di casa.
Avevo fretta, dovevo andare in ufficio.
Mi fermai a guardarla, forse al momento
Non compresi fosse una salamandra.
Avrei potuto accarezzarla
Avrei potuto schiacciarla.
Rincasai per chiamare mio figlio.
Quando tornammo non c’era più.
Sparita, tornata al suo medioevo,
estinta al fuoco interno che l’ardeva.

**

Maternità Dolfin

Luce di caverna che sembra provenire
dagli anfratti delle colline
che una monetina da venti centesimi
rischiara flebilmente
qui, dove idealmente sono nato,
in questa luce agonizzante di San Francesco
della Vigna disertata dai turisti
mentre ombre camminano fra le tombe del chiostro,
nascosta nella sacrestia
abbassi lo sguardo mentre lo sguardo
superbo di Sebastiano ci fronteggia
rimproverandoci di essere venuti ancora soli,
anche se riappacificati con questa luce
di naufragio, non con il mondo
che schernisce il mondo.
Il mese rappresentato è forse maggio.

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Pasquale Di Palmo (Lido di Venezia, 1958) ha pubblicato le raccolte poetiche Horror Lucis (Edizioni dell’Erba, 1997), Ritorno a Sovana (Edizioni L’Obliquo, 2003), Marine e altri sortilegi (Il Ponte del Sale, 2006), Trittico del distacco (Passigli, 2015)  e La carità (Passigli, 2018).

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