Stefano Vitale, “Saggezza degli ubriachi”

La saggezza ebbra dei poeti. Stefano Vitale

di Marco Marangoni
             “ perduti nello specchio infranto del suono”

Con Saggezza degli ubriachi – La vita felice, Milano 2017- Stefano Vitale ci introduce sempre più addentro al percorso poetico che da tempo lo impegna, tra ricerca etica e stilistica. Un percorso che si inquadra nell’esigente sentire della poesia coeva e che merita attenzione, sia per le doti di intensità espressiva, sia per il senso del cammino che vi ritroviamo. Il “mal di vivere” montaliano appare come il più evidente “presupposto” di questa poesia, da cui si diramano altri rinvii, espliciti/impliciti, tanto in direzione della tradizione italiana che di quella europea, soprattutto francese: “prend garde à la doucer des choses” (citazione presente in Il retro delle cose, puntoacapo, Novi Ligure (AL)2012, p.28).

Si evidenzia uno stile in cui è caratteristico, come già è stato recepito in sede critica, l’espediente della paranomasia (e di altre affini figure retoriche); ma anche non meno fungente, in esso, è l’impiego della paratassi, chiamata a sostenere il flusso magmatico dell’esperienza, nella speranza, anche luziana, di chiarificarlo, nelle verifiche e nelle illuminazioni della mente: “oro inatteso/ nella miniera della mente.” (La saggezza degli ubriachi, op. cit., p.36). Il linguaggio si fa luogo di un’ansia, di un combattimento (“Sempre ritorna l’ansia del combattimento”, op. cit., p. 37); in gioco è la ricerca della luce-forma (“Desideriamo tutti una forma, /ma c’è una forma?” (op.cit.p.81), che tanto si vorrebbe della parola quanto della vita, in un loro reciproco sovrapporsi: “Mi parla di sé/la sera/e non capisco le sue parole/ma ne comprendo il brivido sussurrato/nel fremito della rosa”( op. cit., p.60) . Si aggiunga la presenza di un principio attivo di responsabilità, nei versi di questo lirico, rispetto all’orientamento tecnico della nostra “civiltà”, comportante l’oblio della naturalezza. Ma non si tratta di un elemento che accidentalmente viene ad attribuirsi all’identità della sua poesia. Al contrario, il poeta sembra avere trovato, insieme a un passo stilistico più sicuro – gli stilemi più significativi del lavoro precedente vengono ripresi ora con risultati superiori di sintesi -, la messa a fuoco di un centro tematico che forse da tempo lo attendeva: quel linguaggio creaturale che bene emerge dai seguenti versi: “La lezione dei fiori è nel loro colore? /O forse è nel lento/invisibile viaggio verso la luce? /Nel silenzio del loro respiro/ di creature sagge e leggere?” (op. cit., p. 65). Il poeta ci invita a “sorvegliare le gemme” ad “abbeverare le foglie oppresse dal sole”, a “liberare i vasi dai fili d’erba, e infine a “sperare nel fiore”. Poesia che si intende come disciplina di umiltà, affinchè ci si accordi a una necessità, a una logica, quella del “meccanismo d’amore” che è anche “automatismo creaturale” (op. cit., p.64).

La parola, contestualmente, si fa strada, nella misura di un fondo ontologico connesso alla categoria della “singolarità”, e che il genere lirico è chiamato ad esprimere: “confine interiore/ della mia esistenza” (op. cit., p.71); “Ci guida il canto/piccola ostinata intima luce” (op. cit., p. 49); “quest’assenza/di noi a noi stessi/perduti nello specchio infranto del suono” (op. cit. p.78).

Ecco la “saggezza” cercata da S. Vitale, che si incrocia con l’etica espressa da tanta poesia odierna. Saggezza inascoltata, rispetto ad un’attualità che marginalizza il non omologabile e più in generale la cultura umanistica; ma è saggezza anche come ripresa di un classico essere-contro e altrove, rispetto ai “luoghi giurisdizionali” (per usare una bella espressione di Caproni): una voce che fa corpo con se stessa, senza per questo minimamente cedere a rispecchiamenti mendaci e regressivi. Coraggiosa e quale “luce instancabile” (op.cit.p.83), la voce che parla nelle corde di Vitale non può che essere ebbra, ma per ricordarci, dal suo stato di alterazione e di interrogazione, l’orlo del linguaggio, di cui Paul Auster (citato) dice: “La lingua/ci porta via per sempre/da dove siamo”.

 

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