Francesco Tomada, un poeta di frontiera

di Giovanni Ibello

La poesia di Francesco Tomada trae origine dal nucleo stesso della parola, dalla sua funzione più minima e immediata: Francesco, goriziano nato nel 1966, è un poeta di frontiera e pertanto conosce l’importanza dell’unire, la fatica di costruire ponti. La sua attività di “nominazione” è certamente un rischio (anche se calcolato), poiché la “nuda parola” si presta al lirismo, alle cadute di stile e, più in generale, alla retorica. Tomada, invece, pur fiutando il pericolo, lo accetta, lo fa suo; anzi, si destreggia tra queste “mine” con grande disinvoltura. Del resto, basta veramente poco a far crollare una poesia (soprattutto quando, come in questo caso, si fa richiamo a una parola che è “origine”): un verso sbagliato, una parola distonica, un aggettivo che non aggiunge, un accento che stronca il suono. Ed è proprio in questo rischio – cercato prima e ammansito poi – che l’autore si esalta e riesce a declinare la sua visione delle cose. Il suo stile, ancorché narrativo, fuga ogni artifizio letterario e definisce, appunto, il confronto tra la parola e l’oggetto nella sua forma più essenziale. “A ogni cosa il suo nome”, recita – tra l’altro – il titolo di una sua superba raccolta di poesie. Tomada è un poeta vero, conosce l’arte della rastremazione, il peso delle parole; le lascia libere sul foglio rinunciando ai vincoli della punteggiatura. Sa creare legami elettrici col vuoto, perché non teme la mancanza di fiato, non teme di guardare nella bocca del fucile. La sua poesia è “kamikaze”, sfacciata, estroversa nella dolcezza e schiva nel disarmo. Rischia di travolgere il lettore proprio perché è estremamente materica. Eppure, questo poeta vive di insight, di guizzi improvvisi, di approcci epifanici che estendono i confini del reale. Non deve sperimentare perché i suoi versi sono elementari, nel senso più nobile del termine, privi di virtuosismi. Tomada, è dunque un “poeta del possibile”: riesce a censire tutte le fragilità della bellezza, la tenerezza degli affetti, ma anche il dramma della perdita, della morte prematura, della prigione del corpo. Ecco perché, nella sua estrema dolcezza, esiste un demone che giace supino, una bestia che non si fa scrupoli ed è pronta a ghermire la preda come a dire che “non si scende a patti con la poesia”.

Da L ‘infanzia vista da qui, Sottomondo, 20005

Oltre Savogna, verso l’Isonzo

(a Mario Carnelut)

So che tutto deve finire
come le strade quando si fanno sempre più strette
fino a confondersi fra i campi

oggi ho pensato alla morte e vorrei che somigliasse
a perdersi nell’erba come quando
dietro alla casa di mia madre
si camminava fino alla ferrovia
e vedere il treno era già l’idea di un lontano
dove un giorno si sarebbe andati

Il concepimento (visto da un uomo)

Non dire che non sapevi
non dire
che non avevamo coscienza
quando con la forza delle reni
abbiamo catturato il centro
pieno dell’universo
nel cavo del tuo ventre

Da A ogni cosa il suo nome, Le voci della luna, 2008

1920

C’è questa foto del millenovecentoventi
dove si vede distrutta la casa che adesso abitiamo
una granata italiana l’aveva colpita
proprio la casa proprio la camera
dove poi abbiamo concepito i figli
ma di quei momenti nostri non ci sono immagini
e la vita quando esplode dentro non fa nessun rumore
e anche io ti ho posseduta così si dice

ma in realtà non ho posseduto niente
sei come questa terra dove per lasciare un segno
è inutile combattere bisogna appartenere
diventare umili e abitare con pazienza
come fa il colore su una rosa

(parla lei)

Il figlio di mio figlio ha sette anni e chiede proprio a me
com’è sopravvivere a un infarto
e chissà come si vedono le cicatrici sul cuore
se si potesse appoggiarci le dita
le sentiresti come una linea un poco più dura del resto
è muscolo che non riesce più a pulsare
ma si tiene alle parti buone, le segue
ed è il suo modo di tornare a vivere
forse per questo d’istinto gli allungo la mia mano
e lui la prende

(parla lei)

Accendevamo le sigarette in auto con i figli sul sedile posteriore
pareva che bastasse aprire il deflettore della millecento erre
per cambiare aria
e che niente avrebbe davvero lasciato un segno
non il catrame nei polmoni non gli schiaffi
che coprivo con il fondotinta sulle guance
ma non era più il colore vero della mia pelle
non era più l’odore delle mie mani ma nicotina
non era
non era
vedi, ho imparato a pensare per negazioni
non era la scelta giusta costruire
una casa nuova per andarci a vivere
la scelta giusta è stata quella
di lasciarla vuota

Da Portarsi avanti con gli addii, Raffaelli, 2014

Portarsi avanti con gli addii

E se domani io non ci fossi più
per un incidente o qualsiasi cosa che ora non immaginiamo
o perché la rabbia mi ha formato un coagulo nel cuore

dopo il tempo che ti serve tu comunque vai avanti
trova un altro uomo che sia un padre
se possibile migliore per i nostri figli

per favore non far recitare quelle messe
a cui tutti devono venire senza averne voglia
non tenere i miei ricordi in un cassetto
perché di buio allora ne avrò già abbastanza

e non dire a nessuno se mi pensi
piuttosto custodiscimi come una seconda adolescenza
qualcosa che ti porti sempre dentro
anche se non sei più tu

Le donne della Seleco

Le ho viste uscire alla fine del turno
camminando ma senza toccare il suolo
guardando i lampioni ma senza vedere
la luce e mentre svanivano le ho
immaginate aprire la porta
baciare i figli scaldare inf orno
la cena e poi ripulirsi e a volte
giacere sotto un marito qualsiasi
con l’aria di chi da anni ha imparato
che manca sempre mezz’ora di troppo
alla fine del giorno

Francesco Tomada

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