di Maurizio Cucchi
In questi nuovi testi di Mussapi vediamo la forza di un progetto felicemente realizzato: quello di portare sulla scena la parola poetica, senza diminuirne l’energia espressiva. Compito difficile, che ha affrontato con successo e in modo coerente con la sua idea di poesia. Qui lo vediamo portare in scena figure appartenenti a culture, letterature, mitologie diverse, in un fluire narrativo che investe il lettore come potrebbe coinvolgere un pubblico teatrale. Personaggi che appartengono al mondo greco e alla tragedia shakespeariana, come al tardo medioevo francese del grande François Villon, cantore maledetto. Componimenti di ampio respiro e liriche più concentrate, epoche e luoghi svariati, protagonisti a tutto tondo, storie archetipiche dell’umana avventura.
Un capitolo nuovo e interessante nell’opera di uno dei nostri maggiori poeti, un libro che tende a uscire dalla pagina per farsi teatro, ma che sulla pagina trova la sua validissima collocazione naturale.
BALLATA DELLA FORTUNA
“Fortuna mi chiamarono i sapienti
che tu, François chiami assassina.”
Così mi fece parlare nei suoi versi
il grande poeta, così altri morituri
mi maledicono nell’invocazione.
Villon, lo so, so com’eri:
povero, dannato, ladro e ruffiano
nella Parigi dopo la guerra che moriva di fame,
e tu con il tuo baccalaureato e la poesia… Villon
ti ho tante volte chiamato, ma il vento e la neve
portavano via la mia voce,
tra la città e la campagna dove gli impiccati…
Fortuna ti condannò all’impiccaggione
per l’omicidio commesso da un altro,
per lei la prigione infossata e l’attesa
Del rintocco finale è l’arrivo del boia…
“GIaccio qui in questa fossa, non sotto le frasche,
In questo esilio dove mi ha spedito
Fortuna, come Dio le concesse.
Qua in fondo dove giaccio non entra luce né vento,
m’hanno fasciato con muri ben stretti.
Lo lascerete qui, Villon, lo sventurato?”
Dal tempo della mia nascita sulle rive di Roma
(gli antichi Pontefici, i riti Tiberini
il re vecchio gettato alle acque fiume,
l’età del ferro, il sacrificio umano)
io sola ho saputo resistere al Fato,
non opponendomi a lui come farebbe
un dio del nulla e della disperazione:
da sempre lo accompagno, tormento
il suo disegno con le pene mortali.
Il fato non è cieco come pensavano gli antichi
presso cui nacqui e quelli ancora prima:
l’amore lo può modificare.
Non era il Fato il mio vero nemico
nel mondo dei primi re, dei consoli, poi dell’impero,
altro era il tarlo che rodeva il cuore
di Ovidio e di Catullo, e di Virgilio e Properzio,
il cuore traboccante dei grandi poeti
che resero celebre l’imperatore
il tarlo si chiamava certezza della fine.
Dopo la morte tutto cessava, e ogni luce,
chiuse le palpebre, svaniva, scompariva.
Un’incessante eternità di buio, il regno atro
di Ade e di Acheronte, ombre opache
quelle che erano state le forme mortali.
Catullo non era solo un grande amatore
e un uomo che si disperava per amore:
voleva vivere interamente la scena
nell’unica vita concessa in piena luce,
prima che il buio sciogliesse il respiro.
Io soffiai nell’anima dei poeti,
io contrapposi al nulla fatale
il necessario incanto della Poesia.
Che non fu mai una decorazione della vita
ma suo prolungamento e moltiplicazione.
Lo sa Villon, che mi chiamo assassina,
Villon che mentre mi malediva mi invocava
e dal fondo della sua tana imprigionato,
scriveva versi, non cedeva
al peso della terra e all’ombra del boia.
Fortuna lo vide una notte liberare
all’improvviso da uno sconosciuto
giunto nella notte e da non si sa dove
con un mandato regale, Fortuna
lo vide alzarsi e fuggire nel buio
tre ore prima dell’impiccagione.
Fatemi vostra, seguite l’esempio del poeta
che mentre mi bestemmiava mi implorava,
che intuì il mio segreto è comprese
che io non posso agire da sola.
Un’altra, invisibilmente, mi accompagna.
Speranza è il nome della dea
segreta è innamorata, priva di altari
e riti, e feste, e celebrazioni.
Senza di lei, mite, segreta,
il cui altare è nel cuore dell’uomo
io non potrei nulla contro il dolore e il buio.
Invocate, umani, ma pregate
che non debba mai agire da sola.
Chiamatemi con il mio nome nel suo nome,
Fortuna che Speranza nutre e sostiene.
Roberto Mussapi vive e lavora a Milano. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia, tra le quali ricordiamo “La gravità del cielo” (Jaca Book, 1983), “Luce frontale” (Garzanti, 1987), “Gita meridiana” (Mondadori, 1990), “La stoffa dell’ombra e delle cose” (Mondadori, 2007). È anche autore di teatro con drammi in versi e in prosa (Resurrexi è del 2009) e ha tradotto, tra gli altri, testi di Stevenson, Melville, Walcott, Heaney e Shelley. Ha scritto numerosi saggi da “Inferni, mari, isole. Storie di viaggi nella letteratura” (Bruno Mondadori, 2002) a “Tusitalia, il narratore. Vita di Robert Louis Stevenson”(Salani, 2007), “Volare” (Feltrinelli, 2008), “La grande poesia del mondo” (2010) dove sceglie, traduce e legge poeti da Omero a Yeats; il poemetto illustrato “Il capitano del mio mare” (2012) e “Le metamorfosi”, racconto del capolavoro di Ovidio. La sua opera poetica è raccolta nel volume “Le poesie” (2014). Nel 2015 ha pubblicato “The conversation of voices”.