Golan Haji, “Le poesie che scrivo iniziano, come me, ad allontanarsi dalla Siria. Sento che la fine si avvicina”

Golan Haji

di Luigia Sorrentino

Ho incontrato per la prima volta Golan Haji poeta curdo- siriano (migrato  in Europa nel 2011) a Roma, il 15 maggio 2017, in occasione dello spettacolo CANTI D’ESILIO, con musiche di David Lang, Carlo Galante, Carlo Putelli, Matteo D’Amico. Lo spettacolo proponeva per la prima volta al pubblico versi di Golan tradotti in italiano.

Poco tempo dopo, ho incontrato nuovamente Golan Haji a Parigi, città dove vive. Il nostro secondo incontro ha generato questa sorta di “Racconto autobiografico” che Golan ha scritto in inglese, qui riportato anche nella traduzione in lingua italiana.

Naturalmente prima di conoscere personalmente Golan, avevo già letto il suo primo libro di poesie pubblicato in Italia: “L’autunno qui è magico e immenso”, traduzione dall’arabo di Patrizia Zanella, a cura di Costanza Ferrini (ed. Il Sirente, 2013).

La lingua madre di Golan è il curdo, ma le sue poesie sono scritte in arabo. Qualche volta Golan le traduce in inglese.

Leggendo la poesia di Golan ho incontrato l’orrore e la disperazione della guerra in Siria, il silenzio che tutto copre, ma anche la bellezza e l’amore. La guerra è per il poeta siriano un colpo contundente che colpisce e ferisce la sua terra d’origine, ma la sua lingua è magica, lenisce le ferite e cammina, viene verso di noi e ci tocca, intimamente, ci tocca.

Scrigno di dolore

Ti sostengo,
seppure debole come te, io ti sostengo.
Non come una mano che sorregge il mento di un saggio,
né come un invalido che aiuta gli invalidi,
né come un bastone che un cieco
infila nelle foglie cadute sul marciapiede,
né una palla su cui i pagliacci stanno in equilibrio
come se fosse un unico pianeta
a ruzzolare su questo folle pianeta.

Io, che sono lontano,
ti sostengo nella solitudine,
come un dito che va sulla gota di una vedova,
vibrando come una freccia appena scoccata,
mentre gli brilla sulla punta un cristallo di sale
che risale all’occhio che l’aveva versato
inondato di ombre e ali.

 

di Golan Haji

La mia prima raccolta di poesie si intitola “Chiamò nelle tenebre” ed è stata pubblicata nel 2004. Ha vinto il premio Mohammad Al-Maghout.

Al-Maghout era un importante poeta siriano, considerato un pioniere del verso libero e della prosa nella poesia araba modernista. Prese parte al movimento che c’era dietro la rivista Poesia negli anni ’50. Quel movimento modernista cambiò profondamente la poesia araba nella seconda metà del XX secolo, sebbene Al-Maghout non dimostrò mai interesse per nessun movimento. Diceva che l’unica ragione per cui era diventato membro del Partito Nazionalista Siriano era il camino nel suo ufficio, per lui che nella sua città natale era uno senza un soldo.

La rivista “Poesia”, fondata dal poeta libanese Yusuf Al-Khal e pubblicata a Beirut tra il 1957 e il 1970, tagliò il cordone ombelicale con la poesia neoclassica e romantica e, cambiò per sempre il volto della poesia araba dove il verso libero e il poema in prosa prevalgono ancora oggi. Nello stesso periodo, il poeta siriano Nizar Qabbani pubblicava le sue poesie di stampo politico e satirico e i suoi versi d’amore, tutto in rima e metrica.
Queste poesie sono forse le più famose in molti paesi arabi, tanto che sono state trasformate in canzoni. Credo che molti le conoscano a memoria.

Adonis, forse il poeta siriano più conosciuto a livello internazionale, mise in dubbio la tradizione islamica che gettava ombra sulla lingua araba. Nella sua trilogia, Il Libro (al-kitab), immaginava Al-Mutanabbi come un veggente che attraversa la storia araba. In un vecchio numero della straordinaria rivista letteraria Al-Karmel, il cui direttore era il poeta palestinese Mahmoud Darwish, ricordo che Adonis rispose a questa domanda: “perché scrive?”; “scrivo per mettere per iscritto tutto quello che Dio ha detto ma non ha scritto” disse. Trent’anni dopo, in un’altra intervista, Adonis disse: “scrivo per un pubblico che arriverà tra duecento anni”. Queste due risposte indicano come occasionalmente visitasse il presente, per lo più come ospite d’onore. Io rispetto molto tutti gli autori fin qui citati, ma raramente li leggo o li rileggo. Sono diventati canonici, nel senso che andiamo avanti partendo da loro e non verso di loro. Non mi incuriosiscono più. Magari preferisco leggere il poeta marocchino Abdallah Zrika, il siriano Nazih abu Afache o l’egiziano Imad Abu Saleh, che parlano delle loro opere ricche di luci ed ombre. Tuttavia, continuo a leggere poeti classici, come Al-Ma’arri che visse e morì nella Siria nord occidentale e la cui opera “L’epistola del perdono” potrebbe aver influenzato la divina Commedia di Dante.

Nel 2008 ho pubblicato la mia seconda raccolta di poesie “Qualcuno ti vede come un mostro”. Adulteri (Adulterers) è stato pubblicato in danese nel 2011, tradotto dal poeta danese Jesper Berg che ha vissuto tra Aleppo e Damasco per quasi 15 anni, prima di essere cacciato dal suo secondo paese. Questo libricino in danese conteneva alcuni dipinti del pittore curdo Bahram Hajo, la cui opera aveva ispirato quella lunga poesia. Nel 2013 è uscito un mio libro di poesie “L’autunno qui, è magico e immenso”, un’edizione bilingue in arabo e in italiano, pubblicato da Il Sirente a Roma. Sogno di imparare l’italiano.

Penso che i libri che ho scritto si sommano gli uni agli altri, c’è una sorta di continuazione tra loro, nonostante le divergenze. Sono complementari ma anche opposti. I versi coesistono con poesie narrative e versi liberi sperimentali, poesie in prosa aperta e fiabe. Le poesie, come gli esseri umani, si presentano in forme e colori diversi. Per quanto mi riguarda, scrivere poesie non è un atto completamente involontario. La revisione è ineluttabile, perché credo che spesso non riusciamo ad esprimere esattamente quello che avevamo in mente o cercavamo di dire. Ogni poeta ha il suo filo di Arianna. Nel flusso che scorre sotto ogni poesia, dove il passato e il futuro si intrecciano con il devastante presente della Siria, scrivere diventa come un edificio crollato, battuto dai quattro venti, da dove si può vedere il cielo, ma dove non si può abitare e dove non si trova riparo.
Sono molto interessato alla forma delle poesie in prosa. Credo che siano molto allettanti e soddisfacenti. La cosa che mi sta più a cuore, sempre, sono le parole. Rispondo ad un altro “nuovo” mondo che abito, ad esempio la Francia, e la poesia va avanti, oltre tutte le intenzioni già articolate.

 

I morti vengono sepolti,
ma come seppellire il dolore?
A che serve maledire la maledizione?

Che opprimente la vita
e pesante questo silenzio!
Che lente le parole
che fluiscono e riecheggiano nella notte sanguinosa
o salgono come linfa sui fogli impolverati.

Rami bisticciano e si agitano
ma non v’è neppur un filo di vento.

Ora ora, solo come te,
come nostra madre, come quest’albero,
ha spiccato il volo un altro uccello che non vedi.
La casa delle urla s’è squarciata.
È un diamante fende il vetro sporco del mondo.

Le poesie che scrivo iniziano, come me, ad allontanarsi dalla Siria. Sento che la fine si avvicina. Vivo con questo ambiguo senso di fine in quello che scrivo. Comunque, quando la poesia funziona, vive, parla meglio da sé. Sono consapevole della lettura riduttiva che si fa della letteratura in esilio, un genere di lettura che punta al contenuto politico. Non è facile cercare quello che si ama. Questi anni di dolore continuo non hanno dato modo a nessun siriano di pensare in pace, ma ho visto posti molto diversi da quelli in cui sono cresciuto. Sono stato molto colpito dalla migrazione. Quanti ambienti estranei ho incontrato in condizioni tutt’altro che normali, cercando di recuperare o riscoprire cose perse o dimenticate, cose insignificanti e quasi invisibili in questi viaggi intermittenti. In questa violenta disintegrazione non riesco a dimenticare l’inquietante sensazione di essere sradicato, frequentemente, da dove vivevo. Ho sempre vissuto litigando con le parole. Ho passato parte della mia infanzia a cercare di cambiare il mio accento curdo all’interno di istituzioni dove si parlava arabo. Più tardi, con altri trasferimenti forzati in vari paesi, ho smesso di provare ad avere l’accento del più forte. Ho conservato il mio accento, diventando così uno straniero in ogni lingua che parlavo, perfino il curdo, tranne che nel silenzio della scrittura.

Per la prima volta, in collaborazione con il poeta inglese Stephen Watts, ho recentemente tradotto dal curdo alcune poesie del giovane poeta Ciwan Qado. E’ stato difficile.

Non ho potuto imparare il curdo perché era una lingua vietata dalla dittatura nazionalista araba durante la famigerata epoca della censura e della soffocante repressione culturale. Parlo solo la mia lingua madre e penso e sogno nella mia lingua madre. Il suoi racconti popolari e la storia della tradizione orale sono una parte vitale dei miei ricordi. Questi sono stati I primissimi impatti. A volte utilizzavo alcuni detti e proverbi curdi, o perfino delle parole nella traduzione letterale araba. E quella è una miniera di immagini surreali. Ad esempio, ho chiamato una lunga sequenza di prose “Cinema di Dio” che nel linguaggio comune si riferisce all’assurdo o all’imperscrutabile. Ciononostante, ho la sensazione di scrivere in modo approssimato, come se avessi un accento in tutte le lingue che parlo. L’unico luogo in cui convivono tutte queste differenze, senza timori o troppa esitazione, è la scrittura dove attraverso l’arabo ricorro a più di una lingua. Questo naturalmente spiega in profondità che ogni tipo di scrittura è una sorta di traduzione. Ho trascorso tutta la mia vita a tradurre da una lingua all’altra, anche scrivendo, fino a quando non ho avuto più certezze su nessuna lingua. Fanno eccezione i primi cinque anni della mia infanzia quando tutto il mio mondo era in curdo. La scuola è stato il mio primo distacco dalla mia lingua. Forse è questo il motivo per cui considero I miei ricordi curdi come un mondo immenso, proprio per i suoi limiti, poiché provengo da una comunità che ha una letteratura limitata nella sua lingua. Da ragazzo, ho studiato in profondità i versi arabi e per me è stato inizialmente un grande piacere. Poi ho smesso perché era come esercitarsi su una musica formale che può essere utile per la scrittura e mi sono dedicato ad una forma più personale di musica partendo da zero e seguendo il respiro e il movimento congiunto dell’anima e della mente. Ho smesso molto presto di scrivere versi metrici.

Mi viene in mente il poeta poliglotta curdo sufi, Malaye Jaziri, che ha trascorso la sua vita sull’Isola di Botan sul Tigri. Ha vissuto durante il Sedicesimo secolo ed è stato sepolto nella Red School di Botan dove aveva studiato. Riuscivo a vedere quella scuola dall’altra parte del confine senza poterci mai andare. Jaziri scrisse delle poesia in una serie di alfabeti utilizzati all’epoca da quattro lingue: curdo, curdo ottomano, persiano e arabo. A volte, riusciva ad utilizzare quattro lingue in un distico. I curdi recitano e cantano ancora I suoi versi. Questa coesistenza di lingue era abbastanza naturale, la musica affascinante era convincente sebbene a volte non capissi assolutamente nulla. Le lingue non disegnano mai confini geografici. Questo caos linguistico ha delimitato la scrittura con cui mi sono confrontato e ha superato I limiti tra le forme. Ci sono molti esempi di poeti curdi che scrivono in arabo, turco o farsi. Non possiamo dimenticare il poeta e scrittore siriano curdo Salim Barakat, cresciuto nella stessa regione curda della Siria da cui provengo io e che ora vive in Svezia.

Ovviamente, la traduzione della poesia mi ha permesso di entrare in mondi più ampi, soprattutto la poesia Americana che ho iniziato a tradurre a metà degli anni Novanta. Attraverso delle letture casuali che è proprio il mio modo preferito di leggere, ho scoperto le poesie di Mark Strand che ho tradotto in arabo. Il suo Selected Poems è stato il primo libro che ho pubblicato nel 2001, sebbene avessi iniziato a pubblicare le mie poesie a partire dai primi anni novanta nei giornali e nei periodici in arabo.
Ho sempre sentito questa inclinazione verso ciò che viene scritto in altre lingue, non necessariamente da nomi molto noti. La traduzione è fondamentale per l’immaginazione comune, per la comprensione reciproca tra gli esseri umani. Ciò che arriva dall’immaginazione appartiene a tutti.

Mi piacerebbe ora parlare di alcune poetesse nel mondo arabo, a prescindere dai nomi più noti. Mi viene in mente Iman Mersal o Sanyyah Saleh, ma vorrei parlare di Da’ad Haddad morta nel 1991. Una volta, dieci anni fa, ho cercato di organizzare le sue poesie inedite in una piccola raccolta, There’s Light. Da’ad è uno dei personaggi assenti in un documentario girato dal regista siriano Hala Alabdalla che vive a Parigi. Il titolo del film “I am The One Who Carries Flowers to Her Own Grave” è tratto da una delle sue poesie. Da’ad era stata abbandonata dalla sua famiglia nella città siriana del mediterraneo chiamata Lattakia, visse poi a Damasco, ospitata dai suoi amici. La sua ingenuità appare a volte sorprendente, come dei dipinti grezzi di art brut. Negli ultimi anni della sua vita soffriva di una grave depressione. A volte elemosinava del pane dai fornai, portando un cestino di verdure vecchie. Questo era ciò che mangiava. Trascorreva le sue notti nella tipografia del ministero della cultura e a volte dormiva nei giardini pubblici. Una volta era stata vista camminare sotto la pioggia di notte, con la sua camicia da notte strappata nel souk sovraffollato di Al Salihyya, nel cuore di Damasco. Quella sera, uno dei suoi più cari amici mi ha raccontato che una volta accompagnando alla porta degli ospiti che stavano andando via, l’aveva trovata addormentata sull’uscio di casa sua. Forse non aveva osato suonare al campanello perché aveva sentito dei rumori provenire dalla casa. Ecco una delle sue poesie:

Black is this night
Black is the window
Nothing is more just than the sky
In this moonless black night
A little green plant
Is weaving this black prolonged night
Another plant wants to grow
Inside the grayish-yellow room
And these books, eaten away by time,
Want to live inside me
Like this water, like this timeless bread.

Faccio parte di una tradizione, che mi piaccia o no, che è sia araba che curda. Adoro molti poeti stranieri, ma queste poche parole e questi nomi non riescono definire ciò che voglio o ciò che faccio e non considerano i numerosi effetti e le influenze provenienti da tutto il mondo.

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Golan Haji, poeta e traduttore. È Nato nel 1977 ad Amouda, piccola città curda del nord della Siria, Golan Haji ha studiato medicina all’università di Damasco e si è specializzato in istopatologia. Ha esercitato la professione di medico fino al 2009 per poi dedicarsi alle attività letterarie.
Nel 2009-2010 ha insegnato recitazione e analisi dei testi teatrali all’istituto “Teatro” di Damasco, concentrandosi in particolare su testi di Brecht, Shakespeare, et Saadallah Wannous.
Nel 2004 ha ricevuto il premio Mohammed Al Maghout per la sua prima raccolta di poesie « Il appela dans les ténèbres ». Esce poi : « Il y a quelqu’un qui voit en toi un monstre », in occasione dell’evento « Damas, capitale de la culture » nel 2008. Nel 2011, pubblica « Adultères », in traduzione danese a Copenhagen, edito da Korridor. Nel 2013 : “L’automne, ici, enchante et grandit”, in edizione bilingue arabo-italieno, edito da Il Sirente. La sua raccolta «Peser l’outrage » è stata pubblicata in arabo nel 2016 edita da « Al Mutawassit », a Milano. La sua ultima raccolta Un arbre dont j’ignore le nom, è stata pubblicata in inglese nel 2017 da A Midsummer Night’s Press, NY. Le sue poesies ono state tradotte in più lingue.
Nel 2016 ha pubblicato a Beirut edito da Riad El-Rayyes un’opera in prosa “jusqu’à la guerre”, redatta partendo da alcune interviste con le donne coinvolte nella rivoluzione siriana.
Traduce in arabo la letteratura inglese, scozzese e americana. Oltre a numerose traduzioni per la stampa e le riviste letterarie arabe, ha tradotto i seguenti autori: Mark Strand (2001), Alfred Hitchcock (2005), Robert Louis Stevenson (2008), Dan Wylie (2010) e Alberto Manguel (2016).
E’ autore di studi e di testi sull’arte plastica. Ha scritto per la mostra « Ce que raconte la solitude », La Friche Belle de mai, a Marsiglia nel 2014, e i testi dell’opera « l’art syrien en temps de guerre », a Beirut nel 2015.
Attualmente, Golan Haji vive a Saint Denis, in Francia.

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By Luigia Sorrentino

I met for the first time the Kurdish-Syrian poet Golan Haji on May 15, 2017 in Rome on the occasion of the show CANTI D’ESILIO, with music by David Lang, Carlo Galante, Carlo Putelli, Matteo D’Amico. The show was inspired by some verses written by Golan, who arrived in Europe from Damascus in 2011.
I met Golan Haji again in Paris, the city where he lives and this time he wrote in English this kind of “Autobiographical tale”, that you can read below translated into Italian.

Before meeting Golan personally, I had already read his first book of poems published in Italy: “Autumn here is magical and vast” translated from Arabic by Patrizia Zanella, and edited by Costanza Ferrini ( Il Sirente, 2013).
Golan’s mother tongue is Kurdish but he writes his poems in Arabic and sometimes he translates them into English .

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Golan Haji, poète et traducteur . Né en 1977 à Amouda, petite ville kurde du nord de la Syrie, Golan Haji a étudié la médecine à l’université de Damas, et s’est spécialisé en histopathologie. Il a exercé la médecine jusqu’en 2009, puis s’est consacré aux activités littéraires.
En 2009-2010, il a enseigné la récitation et l’analyse de textes théâtraux à l’institut « Teatro » de Damas, principalement autour de travaux de Brecht, Shakespeare, et Saadallah Wannous.
Il a reçu en 2004 le prix Mohammed Al Maghout pour son premier recueil de poèmes « Il appela dans les ténèbres ». Paraît ensuite : « Il y a quelqu’un qui voit en toi un monstre », lors de l’évènement « Damas, capitale de la culture » en 2008. En 2011, il publie « Adultères », en traduction danoise à Copenhague, chez les éditions Korridor. Puis paraît en 2013 : “L’automne, ici, enchante et grandit”, en édition bilingue arabe-italien aux éditions Il Sirente. Son recueil «Peser l’outrage » a été publié en arabe, en 2016 aux éditions « Al Mutawassit », à Milan. Son dernier recueil Un arbre dont j’ignore le nom, a été publié en englais en 2017 chez A Midsummer Night’s Press, NY. Ses poèmes ont été traduits en plusieurs langues pour de nombreux dossiers de poésie.
Un travail en prose “jusqu’à la guerre”, rédigé à partir d’entretiens avec des femmes impliquées dans la révolution syrienne, est paru en 2016 à Beyrouth aux éditions Riad El-Rayyes.
Il traduit en arabe la littérature anglaise, écossaise et américaine. En plus d’un grand nombre de traductions pour la presse et les revues littéraires arabes, il a traduit les auteurs suivants : Mark Strand (2001), Alfred Hitchcock (2005), Robert Louis Stevenson (2008), Dan Wylie (2010) et Alberto Manguel (2016).
Il est l’auteur d’études et de textes sur l’art plastique. Il a notamment écrit pour l’exposition « Ce que raconte la solitude », La Friche Belle de mai, Marseille 2014, et les textes de l’ouvrage « l’art syrien en temps de guerre », Beyrouth, 2015.
Actuellement, Golan Haji habite à Saint Denis, France.

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