di Leonardo Guzzo
Fin dal primo approccio – come un contatto elettrico – L’altro limite di Maria Borio rivela un’innata, suadente “complessità”. Ricchezza, efficacia di immagini, sapiente architettura metrica, profondità di pensiero formano un disegno a strati che si muove con l’armonia inesorabile di un gorgo. Si guarda dentro, si comincia a girare nelle spire e si finisce avvinti.
Per il momento che separa la notte
restavi allo scoperta nell’erba alta e azzurra.
Gli occhi la scrivevano in qualche spazio
e l’obiettivo della macchina fotografica la catturava
nuda e magra: qualsiasi vita voglia apparire.
Se scrivi l’istante si di stende? Ma la camera
di ciò che scrivi molto lentamente raggiunge
la vita degli altri e questa fotografia come una bocca
vera più del vero già a tutti farebbe chiedere
dove sei, l’ora, perché raccogli
il cielo impallidito tra gambi cerulei.
Tutto concorre a formare un mosaico di tasselli esatti, accuratamente disposti. Maria Borio, perugina, dottore di ricerca in Letteratura italiana e saggista e autrice per i tipi di Marsilio di Poetiche e e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (2017), dispiega già in questo esordio tutto un armamentario di sapienza, esperienza, introspezione. Un sentire preciso, plasmato in una “cova” profonda e appartata, e ora vigile in ogni paesaggio, ogni transito dell’esistenza. Un tocco intensamente originale e insieme figlio di tanti padri nobili. C’è in questa poesia inesorabile una misura “classica”, un senso di levigatezza formale, di luminosità, di bellezza insita nelle parole, nello svolgimento – a volte sinuoso ma sempre cristallino – del pensiero poetico. Non sono versi che rincorrano estremismi ed esasperazioni, non hanno una vocazione “carnale”, non si contaminano nel “lato oscuro”, pur toccandolo: restano fedeli a un’idea consolidata, alta e catartica, della parola poetica ed esprimono (a dispetto di questo, e anzi in forza di esso) una vitalità intensa, ribattuta tra la materia e il segno, una dialettica articolata e sofferta che si snoda tra “accidenti” e “puro pensiero”.
La forma, solo l’immagine, mi hai detto, ma la cancello
e la riscrivo: lettere, vi dico, pensatele, in ogni lettera
guardate una parola come un piede di bambino
appoggiato alla mano della madre e quella mano
alla pancia e la pancia a un pensiero.
A volte seguo questo percorso perché una scena accada
e non sia forma sola, ma pancia, mano, piede
che non vedete, anche nelle immagini disordinate
nell’etere come libro delle facce sempre vi seguo,
un aereo silenzioso che rientra nell’hangar
o il cieco che arriva all’ultimo segno del braille.
C’è, nella poesia di Maria Borio, una “potenza calma” che non ha bisogno di esasperazioni e artifici. Si imprime solo col tratto netto e il ritmo fluido – fluido anche quando è più, “jazzisticamente”, spezzato – come se ogni pausa, ogni salto, ogni circonvoluzione riflettesse, un’inclinazione, una sfumatura precisa dell’anima e nell’anima del lettore trovasse rispondenza. Le spire del gorgo sono a volte intricate, un gioco di rimandi, suggestioni, visioni che si sollevano oltre se stesse per diventare simboli, ma il corso di questa corrispondenza, di questo incantamento, è sempre piano. La grazia, il senso di meraviglia che si prova di fronte a una creazione che ha il dono dell’immediatezza: questo possiede la poesia di Maria Borio. Questo suscita nel lettore, per una sottilissima via di comunicazione. La complessità si scioglie in una fascinazione istantanea, che è sapore di cose (colline, radure,campi al crepuscolo, città sottratte alla frenesia dell’istante, case popolate di silenzio), l’eco della migliore tradizione poetica italiana (da Montale a Sereni a De Angelis) e il librarsi, insieme composto e fremente, di un’anima sensitiva.
Guardo i nomi, sono ancora qui dentro,
stanno per sbilanciarsi sul
mio sangue mio
che non può parlare né suggerire,
ma lascia un’emozione in ognuno
di voi, per finire con me
all’interno, ma sempre meno
sempre meno fino a sparire,
nessuna traccia di me,
un alone che dal platano torna all’albero
dalla linfa alla foglia dall’arenaria alla terra
dall’edificio alla casa, da io e te
a una donna e un uomo,
dal nostro conoscerci sui desideri
all’amore – dal mondo al mondo
a un altro mondo, senza storia
eppure lungo nella storia, un mondo
attraverso tutta questa verità
che c’era prima, che c’è sempre stata.
Il prodigio dell’immedesimazione, la stigmata dell’arte che è arte, si compie sul momento. L’attrazione immediata, insensata, e l’impulso che spinge ad addentrarsi nel gorgo si mettono subito al lavoro. E vanno oltre i confini di questa raccolta, testimonianza di un percorso poetico in fieri, dichiaratamente pensata come il primo assaggio di un’opera più articolata e completa (nella nota finale l’autrice annuncia un lavoro più ampio, scisso in tre tempi intitolati Il puro, L’impuro e Il trasparente). L’assaggio, intanto, svolge appieno il suo compito: la rivelazione di una poesia necessaria (nella sua classica, naturale “complessità”) e celeste, di uno sguardo che penetra il vetro, la sabbia sciolta delle cose, di una vocazione all’essenza che si confronta col bene e col male, col puro e l’impuro, l’identità e l’alterità, il mistero della morte e dell’amore, e punta nel trambusto dell’esistente al miraggio di una “luce cosmica”, di uno “zero incorruttibile”.
Non esiste approdo stabile, per il momento: solo “la felicità del processo e non del fine”, l’eternità dell’istante come un sole che esplode. Regna un’inquietudine feconda che prova continuamente a ricomporsi nell’equilibrio della bellezza, dello sguardo che la bellezza coglie e che si sposta come una “cosa infinita”, una “linea senza giudizio”. Il risultato è un intreccio di nuvole nel cielo, che suona come un messaggio al lettore. Il meglio che si possa fare, sulle orme dell’autrice, è battere naso all’insù, come fosse un volo di aquilone o una esalazione di etere, il curvo sentiero che porta all’altro limite.
Finiranno, finiranno –
ho pensato a questi momenti,
la sospensione, la verità
per tutti – questi secondi
nutrienti come il latte.
Ma il cielo segue il corso dei rami,
è una realtà dipinta
che si muove senza paura
fino a quando non sento che è vero
più di me –
le penne che brillano tra i rami per dirmi
la perfezione è fuori, fuori.
Allora torna la morte come il cielo
su tutte le cose trasformate –
ecco che il cielo ha tutti i colori,
li spinge in alto, li perde,
li fa nuovi, il cielo
cambia ogni giorno – il mondo
resiste solo in parallelo.