Il “realismo arricchito” nella ricerca letteraria di Giovanni Agnoloni

Giovanni Agnoloni, scrittore

Giovanni Agnoloni (Firenze, 1976) è scrittore, traduttore e blogger. È autore dei romanzi Sentieri di notte (Galaad Edizioni, 2012; pubblicato anche in spagnolo come Senderos de noche, El Barco Ebrio 2014, e in polacco come Ścieżki nocy, Serenissima 2016), Partita di anime (Galaad, 2014) e La casa degli anonimi (Galaad, 2014) e L’ultimo angolo di mondo finito (Galaad, 2017), che fanno parte della serie distopico-letteraria “della fine di internet”.

In uscita nel maggio 2017, il suo romanzo breve Il liberto (Kipple Officina Libraria).
Ha inoltre pubblicato tre saggi imperniati sulle opere di J.R.R. Tolkien, ed è curatore di una raccolta internazionale di articoli sul tema.
Ospite di residenze letterarie, festival e conferenze in Europa e Stati Uniti, ha tradotto libri di Jorge Mario Bergoglio, Amir Valle, Peter Straub, Noble Smith e Christiane Taubira, e saggi su J.R.R. Tolkien e Roberto Bolaño.
Lavora con le lingue italiana, inglese, spagnola, francese e portoghese, e parla polacco. Conosce lo svedese a un livello elementare e studia chitarra classica.
Collabora con i blog La Poesia e lo Spirito, Lankenauta e Postpopuli.
Il suo sito è http://giovanniag.wordpress.com. 

Intervista a Giovanni Agnoloni
di Luigia Sorrentino 

Roma, 18 maggio 2017

Come si è sviluppata la sua ricerca letteraria?

È stato un percorso graduale, che è partito dalla saggistica, come studioso di J.R.R. Tolkien in chiave comparativa (con i classici greci, latini e italiani in Letteratura del fantastico – I giardini di Lorien e con vari autori del Novecento in Nuova letteratura fantasy), e psicologico-filosofica (su basi junghiane, con il raffronto con il medico Edward Bach in Tolkien e Bach. Dalla Terra di Mezzo all’energia dei fiori, e anche nel mio contributo alla raccolta da me curata e tradotta Tolkien. La Luce e l’Ombra). Quindi, più o meno nel 2008, ho sentito che ero maturo per cominciare a scrivere romanzi. Così ho iniziato la mia quadrilogia “della fine di internet”, orientata in senso distopico ma dalla sostanza filosofica e, soprattutto nella sua prima parte, espressione anche delle sonorità e dei concetti portati avanti dal movimento letterario connettivista, benché col tempo abbia acquisito un mio angolo visuale e sviluppato una mia poetica profondamente personali. I quattro libri, tutti editi da Galaad Edizioni, sono Sentieri di notte, Partita di anime, La casa degli anonimi e L’ultimo angolo di mondo finito.

I suoi romanzi possono essere considerati di fantascienza?

A mio avviso no, anche se degli stilemi fantascientifici ci sono, soprattutto in Sentieri di notte. Il fatto è che le vicende di cui parlo sono ambientate nel prossimo futuro (tra il 2025 e il 2029), ma si tratta di un mero pretesto narrativo per indicare una possibile evoluzione degli eventi sulla base del presente. In sostanza, ipotizzo quello che potrebbe succedere se internet, per una serie di fattori di natura tecnologica e politica, venisse meno. Il vero focus della narrazione, però, è porsi il problema della sostanziale colonizzazione mentale che specificamente il web, soprattutto attraverso i social media, ha attuato in molti, rendendoli di fatto incapaci di comunicare nella vita reale per “eccesso di uso” dei luoghi della realtà virtuale. Non solo, ma anche il bisogno di protagonismo, l’esaltazione di un ego spesso vacuo, esibito come “figo” in Rete senza un reale retroterra. La svalutazione della lettura attenta e della contemplazione del mondo a favore dello “scrolling” (scorrimento) di massime accattivanti ma prive di sostanza e di foto ammiccanti o “tenere”. La cultura (per modo di dire) del selfie. In sintesi, l’esaltazione dell’apparire a tutto danno dell’essere. Questo, al netto degli indubbi vantaggi e comodità che, soprattutto in campo professionale, la Rete offre. Ovviamente, al prezzo di un controllo sempre più intrusivo delle nostre vite da parte delle multinazionali della comunicazione e della tecnologia. Ora, mi dico, siamo sicuri di stare parlando di fantascienza?

Forse la sua narrazione è anche una chiave di accesso a un’altra dimensione di realismo. E’ corretta questa espressione?

È proprio questo il punto. A me piace palare di “realismo arricchito”, che è un’espressione che fa un po’ il verso (ribaltandone la portata) a un’altra in voga nel milieu tecnologico, ovvero “realtà aumentata”. Quest’ultima sta a indicare l’effetto prodotto da alcuni dispositivi e software che inseriscono in immagini del mondo reale figure virtuali, che finiscono per interagire con la percezione della realtà, come per esempio è accaduto con un ben noto giochino diffuso sugli smartphone tempo fa, e che per fortuna mi pare aver già esaurito la sua folata modaiola. Io parlo di qualcosa di ben diverso: “realismo arricchito” è una forma letteraria di percezione del mondo in cui viviamo, ma còlto, per così dire, in una chiave inconsueta. Penso ad esempio all’introduzione di elementi surreali, come – nel mio nuovo romanzo L’ultimo angolo di mondo finito – gli ologrammi-copia, che sono riproduzioni impalpabili ma identiche di ogni singolo individuo, che lo seguono ovunque suggerendogli sempre la cosa migliore per lui. Sono stati creati dai signori del Sistema tecnologico per rendere le persone isolate le une dalle altre, appagate di se stesse in una sorta di koros, e di vera e propria ybris (tracotanza), postmoderni, funzionali anche a compiere determinate scelte commerciali e politiche. Fantascienza? No, solo “esagerazione” – in chiave espressionistica – di qualcosa che, sia pur non esattamente così, esiste già: non solo, intendo dire, l’uso della tecnologia olografica, che per esempio in campo architettonico viene già applicata, ma soprattutto il fatto che la Rete tende a costruire identità falsate, spesso per diretta volontà dei soggetti interessati, che cercano di offrire un’immagine di sé migliore o più intrigante della realtà, o per induzione di un sistema di omologazione nella corsa all’apparenza, che è indotto da abitudini pigre e ripetitive, consistenti nell’imitare passivamente quello che fanno gli altri. Il risultato è l’appannamento delle facoltà critiche e il venir meno del presupposto essenziale della vera Conoscenza, che è appunto la conoscenza di sé. Uscire leggermente dagli schemi di un realismo “fotografico” per trovare, in queste sue versioni alterate, uno spunto per riscoprire se stessi e il mondo al di fuori delle finte verità preconfezionate e “di moda”, è opera di forte realismo.

La sua sembra essere una sorta di ricerca psicologica e spirituale che si inserisce all’interno di trame imprevedibili e avventurose.

Esatto, l’elemento avventuroso è centrale, perché uno scrittore deve prima di tutto raccontare delle storie. Il che non significa che lo stile, ovvero la prosa letteraria, non abbia importanza, anzi! Però il lettore scopre qualcosa, fa un passo avanti nella conoscenza di sé e del mondo con maggior efficacia se guidato attraverso un percorso narrativo del quale poi, in definitiva, diventa lui stesso il protagonista. L’abilità dell’autore deve consistere nel saperlo far sentire profondamente , nelle situazioni descritte, attraverso un linguaggio fortemente sensoriale e carico di risonanze non solo concettuali, ma emozionali. Attenzione, non sto parlando di sentimentalismi, ma di aspetti viscerali della psiche umana, che bisogna riuscire a far percepire dentro, o addosso, al lettore, affinché l’esperienza della lettura sia autenticamente trasformativa. Ecco allora che i percorsi interiori dei personaggi, ampie parti raccontate in prima persona o al tempo presente, la riflessione sulle dinamiche dello spirito e sugli archetipi dell’inconscio trasfusi all’interno della trama, diventano tutti ingredienti fondamentali per realizzare quello che, junghianamente, si potrebbe definire un percorso di individuazione, ovvero di presa di coscienza delle resistenze individuali alla piena manifestazione del Sé, l’identità pienamente realizzata.

Sembra poi che la cifra stilistica dei suoi romanzi sia legata anche a una chiave “musicale” che irrompe nella narrazione come espediente letterario e simbolico dello status vissuto dal protagonista.

Sì, e non solo per passione (penso al fatto che amo molto i Beatles, le cui canzoni e diversi episodi della cui carriera sono un ingrediente molto importante della trama de L’ultimo angolo di mondo finito), ma anche per scelta vocazionale. Studio chitarra classica col Maestro Ganesh Del Vescovo, e grazie a lui ho riscoperto un amore per lo strumento a sei corde che ormai va al di là della mera (e pur necessaria) tecnica esecutiva, che sto progressivamente migliorando. Si tratta della ricerca del suono come veicolo di significato ed emozione, considerando questi come due aspetti della stessa realtà-evidenza, del mondo esterno e del mondo interiore, che in effetti sono un holos (tutto) osmoticamente intercomunicante. Il suono detta l’opportunità di un termine piuttosto che di un altro, per veicolare un certo significato, passando perfino avanti, a volte, alla pura aderenza al livello semantico. Intendo dire: spesso nello scrivere posso rimanere bloccato anche per mezz’ora in cerca del suono (ovvero, della parola) giusto per rispettare l’armonia generale del discorso. Le parole sono, alla radice, insiemi di suoni. Sono – musicalmente – accordi, che possono o meno intonarsi al contesto, o a volte (quando serve) dissonare efficacemente. La scrittura è tanto più funzionale, nell’ingenerare la dinamica di individuazione di cui parlavo prima, quanto più corrisponde a queste armonie di suono e significato.

Lei è anche traduttore. Come si collega questo lavoro quello di scrittore?

Sono due attività che a volte collidono solo per un problema di gestione del tempo e delle scadenze. A parte questo, si completano e arricchiscono vicendevolmente, perché tradurre significa comunque portare avanti un discorso di tipo musicale – nel senso di cui sopra. Significa interpretare lo “spartito” dell’opera di un altro autore. E, in ogni caso, è evidente come la traduzione sia un prezioso esercizio di scrittura, soprattutto dal punto di vista stilistico. D’altra parte, anche scrivere è un po’ tradurre, in un senso molto speciale: tradurre, intendo, da un testo interiore, fatto di pure sonorità inespresse, vibrazioni energetico-emozionali che richiedono di essere trasposte in immagini e altre sollecitazioni sensoriali. Queste, poi, devono essere rese con la maggior immediatezza e forza di penetrazione possibili, in modo da entrare nel lettore e renderlo protagonista del viaggio archetipico di cui parlavo in precedenza.

La componente del viaggio è un elemento essenziale della sua ispirazione. Perché?

Io viaggio molto, soprattutto per partecipare a residenze letterarie all’estero e presentare i miei libri in giro. E i miei romanzi trasudano luoghi del mondo. Anche in questo caso, come per la musica, non è solo una passione, ma un’esigenza artistica e creativa. Il mondo ha tanti suoni, intendo dire una varietà timbrica articolatissima. Attraversando queste modulazioni, che sono le differenze tra un luogo e l’altro, e anche tra una lingua e l’altra (io lavoro con cinque lingue e spero di arrivare a farlo presto con altre due che parlo), si opera una fondamentale trasformazione interiore, che a mio avviso è un presupposto ineludibile per rendere la vita nella sua complessità e, ancora una volta, sollecitare il lettore da molteplici punti di vista. Spiazzandolo nel “portarlo in giro” (che non è “prenderlo in giro”), cerco di metterlo davanti alla complessità della realtà, che contraddice l’omologazione del mondo iperconnesso, dove ogni luogo è talmente “a portata di click” da sembrare erroneamente “tutto uguale”.

In quanti paesi sono stati tradotti i suoi romanzi?

Sentieri di notte è uscito in Spagna (come Senderos de noche) e in Polonia (come Ścieżki nocy), e la versione inglese è già pronta e al vaglio di alcuni editori. Uno dei due racconti inclusi in Partita di anime è uscito su una rivista olandese online.

L’attività di blogger è un complemento della sua attività di scrittore?

Diciamo che è necessaria per farsi conoscere, quando non si è famosi per altri motivi. Senza visibilità, come scrittori purtroppo si va poco lontano, e partecipare a blog collettivi (come per me sono stati fino a oggi e sono ancora La Poesia e lo Spirito, Postpopuli e Lankenauta) e averne uno personale sono modi per far emergere la propria personalità artistica – sia detto in una chiave puramente professionale, e non in senso egoico, sia chiaro. Tuttavia, tanti si creano in Rete un personaggio artificioso e “strizzaocchio”. Io, da sempre, cerco di farlo esprimendo il mio punto di vista sul mondo e la mia natura in modo integralmente autentico (che si tratti di recensioni di libri, interviste, saggi brevi o racconti). In questo modo, l’attività di blogger diventa veramente un laboratorio di scrittura e una forma di interazione virtuosa (qualcuna deve pur esistere!) sul web. Credo che il tempo dei personaggi artificiosi costruiti ad arte – anche in campo letterario – sia destinato a finir presto. Sono bolle speculative che si dissolveranno a velocità direttamente proporzionale al calo (in atto anche per questo motivo) del numero dei lettori, i quali invece hanno fame di cose belle e profonde – il che, salvo cadere nel più scontato dei luoghi comuni, non significa affatto “noiose”.

 

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