SUSAN STEWART, “C E N E R E”

Susan Stewart

‘Dimmi, cantore devastato,

come la cenere generi il seme.’

Nota e traduzione a cura di Maria Cristina Biggio

Le poesie qui presentate sono tratte dal nuovo libro di Susan Stewart, CENERE (New and Selected Poems, GRAYWOLF 2017). Il volume raccoglie una sezione di nuove composizioni (Pine: New Poems) e un’ampia retrospettiva di testi precedenti che abbracciano oltre trent’anni di poesia. Salutata dalla critica come uno dei maggiori intelletti delle lettere americane, la poetessa statunitense si conferma, con questa raccolta che re-incanta il mondo, come una delle voci più originali degli ultimi cinquant’anni e autentica pietra miliare nel panorama della poesia contemporanea.

Il titolo della raccolta, CENERE, riprende quello di una poesia inclusa nella silloge La foresta (1995), cronologicamente centrale nel corpus poetico di Susan Stewart. Nei versi finali di quel testo, l’io narrante chiede al cantore – devastato dall’attraversamento della selva oscura e della materia che fa erraredi dire ‘come la cenere generi il seme.’ La ripetizione di quel titolo reitera, facendola nuova, l’istanza etico-conoscitiva de La foresta: nella nuova raccolta si procede a ritroso nel tempo che ricorre e si tenta, secondo l’idea di reminescenza platonica, di delucidare l’elemento trascendentalmente preesistente senza il quale non ci può essere conoscenza accertabile. Il ricorso controcorrente del poeta-Pellegrino, che ha attraversato l’oscurità della foresta, porta con sé anche il progresso conoscitivo della marcia in avanti: quell’essere in cammino dell’homme qui marche, che è consapevole del lavoro perseguito e deciso ad avanzare ‘nel tempo che emerge.// Mentre il passato si accresce, il futuro diminuisce / e la paura assume i tratti dell’amore.’  La potenza di voce della poetessa ci conduce con sicurezza fino a quel punto di incandescenza sotto la cenere in cui il passato si è fatto seme del futuro e getta una luce ‘come un lento scoprire, o un drappo / scostato con tutta la magnificenza di una benedizione.’ Fino a quel punto vivo e pullulante dell’origine continua dove, con Luzi, il mutevole e il durevole sono mescolati nella stessa sorgente, nella consapevolezza che non c’è morte che non sia anche nascita. Il sapere della morte è infatti quello di creare segni, ovvero presenze che restano mute sotto la cenere, in attesa del loro riconoscimento e ritorno alla vita palpitante del presente, nel respiro del vivente. Il poeta-Pellegrino che ha saputo attraversare l’impenetrabilità buia e insieme accecante della foresta, ha anche imparato a guardare oltre ‘la nerezza che sfigura’, che impedisce cioè il generarsi di quelle figure che rendono possibile la conoscenza delle cose. Sa di dover e poter arrivare alla ‘bulbosa fosforescenza delle radici’, a quell’originario fare senso del mondo, che invoca un senso e una visione del mondo, precisando nel contempo i modi del fare poetico. Il cui compito etico si traduce in un vitale errare che esercita lo sguardo a farsi soglia nell’accadere di ogni ulteriore figura di verità, riconoscendo tuttavia sempre l’errore: il poeta sa che per avere il mondo in figura nell’analogon della scrittura, occorre accettare il tramonto della figura stessa, in un continuo trapassare di significato, che può essere colto da una scrittura gestuale capace di intrecciare tatto, ascolto, vista, rendendo in questo modo ‘tangibili, udibili, visibili i contorni della nostra umanità condivisa.’ Senza avere la pretesa di riassumere in sé l’evento del mondo che transita, affidandolo invece al futuro di altre interpretazioni e all’atto d’amore della carità percettiva che porta a vedere le cose oltre il loro limite, in una continua dislocazione dello sguardo verso l’oltre, che è principio di conoscenza e insieme teoresi: ‘Credendo che ogni cosa semplice passi da una percezione che è meno chiara / a una che è, finalmente, più chiara. Credendo che ogni cosa semplice contenga // dentro di sé un’unità minima oltre la quale qualunque altra cosa possa essere / esiste.’

La sezione delle nuove poesie sottolinea fin dal titolo la centralità del testo Pino e delle sue diramazioni. Dell’oggetto Pino – l’originale pine è anche forma verbale che ha in sé il significato, tra gli altri, di consumarsi-essere abbattuto o giù di spirito – si ricostruisce una brillante genealogia congiunta a quella di noi viventi che la interpretiamo, iscrivendo i pini nel gotha di ‘musicisti e rivoluzionari’, tra gli ‘agitati e i tormentati’. L’idea bergsoniana dell’attaccamento dinamico della materia alla memoria permette alla poetessa di riflettere sull’a priori degli antecedenti di ‘pine’. Il turbinare di pine-pin-pining rintraccia nella radice dell’etimo i molteplici slittamenti di significati (torturare-tormentare-far soffrire-pungere-languire-struggersi-consumarsi…), i quali, pur se prettamente umani, vengono attribuiti anche ai pini.  In un percorso di graffiti ancestrali – tracciati dal grafista del passato che ha inciso sulla roccia il suo graphein in una misteriosa lingua visiva, ripetendo nei triangoli le figure stilizzate dei pini – il lettore si ritrova di fronte alla stessa soglia e agli stessi slittamenti percettivi di chi racconta, i quali finiscono per trasformare la natura di quei segni, comunque già da sempre presenti, in una nuova dimensione del loro essere-segni. Quest’ultima implica una conoscenza non limitata all’esperienza di ciò che si mostra (il visibile, il faneron), ma capace di cogliere la distanza tra l’oggetto presente e le sue condizioni di possibilità, grazie a una tensione costitutiva, uno strutturale aver da colmare quella distanza originaria nella quale ogni cosa appare: una distanza da ricercare a partire dalle sue condizioni trascendentali che rendono possibile cogliere quell’‘alfabeto di alberi’, con il quale i pini bianchi possono iniziare a compitare ‘il loro nome’. Mentre la fragranza dell’albero di Natale originale – privo di ‘ornamenti e angeli’ e dunque spogliato della sua immagine abituale – si confonde con la ‘nauseante, fedele imitazione’ del detergente al pino, la voce che ci ammaestra ci ricorda che ‘uno dei modi per conoscere la cosa reale è il falso che si trova a scuola’, nella ‘soffocante prossimità dei radiatori’ (e di un sapere scolastico privo di elaborazione personale). I versi dispongono nei palchi dei loro rami la genealogia del pino, suggerendo il possibile percorrimento di una via condivisibile tra gli esseri umani e il mondo naturale, capace di risvegliare l’attenzione, la sensibilità e la visione verso una comune provenienza che si illumina retroflessivamente per noi, permettendo al presente di interpretare potenzialmente all’infinito il passato per l’avvenire. Nel contempo, tale genealogia dice l’incontro della nostra vita con le pratiche conoscitive, esplicitandosi come prassi o etica: come quella sorta di postura coscienziale, in grado di tracciare le coordinate della nostra vita, e del nostro dover essere illuminati nel nostro vivere da una consapevolezza filosofica (o un pensare) che è pur sempre arte dell’armonia tra la vita e la morte (Sini). L’imitazione – intesa come steineriana ripetizione originale, indotta dal ‘puro potenziale’ dell’albero di Natale, poggiato nudo ‘in un angolo’ – diventa albero genealogico che via via prende campo, si fa presenza, prossimità dell’altro/Altro da noi, nella forma di una differenza o del diverso da noi che si umanizza nella nostra accoglienza e nella nostra ospitalità, preservando tuttavia la propria estraneità e diversità. Il tema dell’ospite – nel duplice significato, insito nell’italiano, di ‘chi ospita’ e di ‘chi viene ospitato’ – rimanda al tema quanto mai attuale degli immigrati e dei rifugiati, che viene ripreso e reinterpretato all’interno della raccolta, come nei versi di Se fossi uno dei viaggiatori, uno degli ospitati, nei quali si riflette su quanto potrebbe essere facile invertire i rispettivi ruoli e ritrovarsi da ospitanti a ospitati; e su come, più profondamente, la soggettività sia essenzialmente ospitalità, da ricomprendere e reinterpretare nel suo rapporto con l’alterità: come ciò che può accogliere il faccia a faccia con l’altro, modificando il proprio sé nell’altro, in quel volto che abbiamo di fronte a noi e che mai riusciremo ad afferrare per intero, riconducendolo a noi stessi.

L’eidos poetico di Pino si conferma come eccellente ‘ricettacolo di sinestesia’, in grado di fondere in un’unica sfera sensoriale le percezioni di sensi distinti; ma anche ‘archivio della storia di come la forma sia servita come un mezzo per risolvere le reciprocità delle relazioni correnti tra la natura e gli oggetti esterni e la necessaria articolazione del sé dell’ego, sia in quanto separato dal mondo sia trasformato dal mondo.’ (Stewart, The Lyric Eidos). Il linguaggio poetico di Pino riesce a veicolare con leggerezza la filosofia novecentesca del volto, dell’altro, dell’ascolto che (da Buber a Lèvinas a Jabès) si dà come ricezione, disposizione all’ospitalità, come relazionalità intrinseca di un sé orientato verso l’altro/Altro, di un Io che diventa Tu. Con le parole di Ricoeur, citate da Stewart nell’incipit del suo saggio La libertà del poeta, occorre tenere a mente che: ‘Una genuina trascendenza è più di un concetto limite. È una presenza che apporta una vera rivoluzione nella teoria della soggettività. E introduce in essa una dimensione radicalmente nuova, la dimensione poetica. Per lo meno tali concetti di limite completano la determinazione di una libertà che è umana e non divina, di una libertà che non postula assolutamente se stessa perché non è trascendenza.’ Di fatto, il fare poetico, libero da la visione ordinaria del Pino, si è reso libero di accogliere un nuovo essere (del segno). Il linguaggio poetico-metaforico si è attestato come apertura e scoperta del mondo perché, da un punto di vista ontologico, il linguaggio immaginifico ha attinto alle molteplici possibilità del reale, mentre il movimento dinamico del dire metaforico ha imposto una verità tensionale che ci insegna a vedere-come-cosa il ‘pino’ sia. L’enunciato metaforico, espressione viva dell’esperienza viva, ha offerto al discorso filosofico nuove prospettive di dilatare il discorso speculativo, il cui recupero spetta all’ermeneutica. Nel contempo, la poetessa ha sfiorato con grazia la fragilità e la durabilità dell’esperienza umana nel verde mondo che gira, usando con maestria la natura relazionale delle strutture poetiche per rendere facile l’assolutamente difficile (Nancy).

 

 

Pine

 

a homely word:

a plosive, a long cry, a quiet stop, a silent letter

              like a storm and the end of a storm,

the kind brewing

            at the top of a pine,

                      (torn hair, bowed spirits and,

                                later, straightened shoulders)

who’s who of the stirred and stirred up:

          musicians, revolutionaries, pines.

 

A coniferous tree with needle-shaped leaves.

Suffering or trouble; there’s a pin inside.

The aphoristic seamstress was putting up a hem, a shelf of pins at her pursed mouth.
“needles and pins/ needles and pins/ when a man marries/ his trouble begins.”
A red pincushion with a twisted string, and a little pinecone tassel, at the ready.

 

That particular smell, bracing,

           exact as a sharpened point.

 

 

 

The Christmas tree, nude and fragrant,

            propped as pure potential in

the corner with no nostalgia for

           ornament or angels.

 

“Pine-Sol,” nauseating, earnest, imitation—

          one means of knowing the real thing is the fake you find in school.

Pent up inside on a winter day, the steaming closeness from the radiators.

At the bell, running down the hillside. You wore a pinefore.

The air had a nip: pine

            was traveling in the opposite direction.

 

Sunlight streaming through a stand of pines,

            dancing backwards through the A’s and T’s.

 

Is it fern or willow that’s the opposite of pine?

 

An alphabet made of trees.

 

In the clearing vanished hunters

          left their arrowheads

         and deep cuts in the boulder wall:

                      petroglyphs, repeating triangles.

Grandmothers wearing pinnies trimmed in rickrack.

One family branch lived in a square of oak forest, the other in a circle of pines;

           the oak line: solid, reliable, comic; the piney one capable of pain and surprise.

 

W-H-I-T-E: the white pine’s five-frond sets spell its name. (Orthography of other pines

         I don’t yet know.)

 

The weight of snow on boughs, lethargic, then rocked by the thump of a settling crow.

 

Pine cones at the Villa Borghese: Fibonacci increments,

            heart-shaped veins, shadowing the inner

                           edges of the petals.

Like variations at the margins of a bird-feather.

           Graffiti tattooing the broken

                        water-clock, a handful

                                   of pine-nuts, pried out, for lunch.

Pining away like Respighi with your pencil.

 

For a coffin, you’d pick a plain

pine box suspended in a weedy sea.

 

 

No undergrowth, though, in a pine forest.

 

Unlike the noisy wash

of dry deciduous leaves,

the needles blanket the earth

pliant beneath a bare foot,

stealthy,

           floating,

a walk through the pines.

 

Silence in the forest comes from books.

 

 

Pino

 

una parola familiare:

un’occlusiva, un grido prolungato, un pausa di quiete, una lettera silente

          come una tempesta e la fine di una tempesta,

una sorta di guaio in arrivo

          in cima a un pino,

                      (chioma strappata, giù di spirito e,

                             più tardi, spalle raddrizzate)

il gotha di agitati e tormentati:

          musicisti, rivoluzionari, pini.

 

Una conifera dalle foglie a forma di ago.

Sofferente o in difficoltà; ha uno spillo dentro.

 

L’aforistica cucitrice appuntava un orlo, una serie di spilli nella sua bocca contratta.

“aghi e spilli / aghi e spilli / quando un uomo si sposa / iniziano i cavilli.”

Un puntaspilli rosso con un cordoncino e una nappina a forma di pigna, pronti per l’uso.

 

Quel particolare aroma, tonificante,

         esatto come una punta  tagliente.

 

L’albero di Natale, nudo e fragrante,

           poggiato come puro potenziale

in un angolo senza nostalgia per

          ornamenti o angeli.

 

‘Pine-Sol’, nauseante, fedele imitazione—

          uno dei modi per conoscere la cosa reale è il falso che si trova a scuola.

Chiusi dentro in un giorno d’inverno, nella soffocante prossimità dei radiatori.

Al suono della campana, correvamo giù per la collina. Si indossava un grembiule.

Faceva un freddo pungente: il pino

          si portava nella direzione opposta.

 

La luce del sole si irradiava nel folto dei pini,

             danzando all’indietro attraverso le A e le T.

 

Ѐ la felce o il salice a essere l’opposto del pino?

 

Un alfabeto di alberi.

 

Nella radura cacciatori scomparsi

          lasciavano punte di freccia

          e profondi solchi nella parete di roccia:

                       petroglifi che ripetevano triangoli.

Le nonne indossavano grembiuli ornati di passamaneria a zig-zag.

Un ramo della famiglia viveva nel riquadro di una foresta di querce, l’altro in un cerchio di pini;

         la linea delle quercia: solida, affidabile, briosa; quella del pino capace di dolore e sorpresa.

 

W-H-I-T-E: la serie di pini bianchi a cinque fronde compita il proprio nome. (Ancora non so l’ortografia

       degli altri pini.)

 

Il peso della neve sui rami letargici, fatti poi dondolare dal tonfo di  un corvo che si posa.

 

Pigne a Villa Borghese: successioni di Fibonacci,

            venature a forma di cuore, che ombreggiano i bordi

                 interni dei petali.

Come variazioni ai margini di una piuma d’uccello.

          Graffiti che tatuano la clessidra d’acqua

                 in frantumi, una manciata

                       di pinoli, tirati fuori per pranzo.

Che si consumano come Respighi con la sua matita.

 

Come bara, si dovrebbe scegliere una semplice

cassa di pino sospesa in un mare erboso.

 

Tuttavia, nessun sottobosco in una foresta di pini.

 

Diversamente dal fruscio crepitante

delle foglie secche decidue,

gli aghi  ricoprono  la terra

cedevoli sotto il piede nudo,

furtivo,

            fluttuante,

a spasso fra i pini.

 

Il silenzio nella foresta viene dai libri.

 

 

Susan Stewart

Il fascino ipnotico di Campo d’inverno introduce il lettore in un paesaggio onirico, letargico nella sua coltre bianca apparentemente indifferente a essere penetrata più in profondità. L’inclinazione fiamminga di Susan Stewart per la vastità ha appena disposto un punto di fuga che catalizza l’attenzione percettiva, dando risalto alla drammaticità di un colonnato di olmi spiranti. Non è dato sapere dove il campo si trovi, né cosa si nasconda sotto la sua bianchezza. Possiamo tuttavia percepire la pelle ipotermica del mondo, ‘museo di se stesso’, il rallentamento del battito cardiaco e del respiro degli olmi morenti. I rintocchi dell’originale dying sono come un cupo bussare che interrompe il silenzio e incute paura, gettandoci in uno stato di turbamento per qualcosa che potrebbe scomparire. Per un attimo siamo come sospesi nell’immobilità di un dipinto di Böcklin: il campo è una figura femminile vestita di bianco che ci guida dalla prua di una barca verso il fitto bosco di un’isola, attraverso una distesa d’acqua incantata. I versi profondamente musicali risuonano fino alle inarcature degli a capo, equilibrati da una punteggiatura sapiente che li dispone in gradini, creando differenti piani prospettici che accolgono la scansione suasiva di uno spazio intimo e raccolto, puro concentrato simbolico dell’invenzione poetica. Dalla voce che ci parla sappiamo che ci verrà dato di accedere a quello spazio a condizione di abbandonarci al sonno e allo stupore del sogno. Ed ecco: siamo dentro un vortice di prossimità e relazione con l’altro da noi: ci ridefiniamo nelle reciproche metamorfosi a cui siamo entrambi sottoposti. Ci ritroviamo a tracciare mappe instabili, cartografie mutevoli di territori che spostano continuamente i loro confini: abbiamo rizomi e rami, sperimentiamo altri sensi, anche inversi. Ci intrecciamo mentre facciamo spazio a qualcosa di più vitale. Scopriamo, con Shakespeare, di essere fatti della stessa sostanza dei sogni: sogni d’amore affidati alla carità percettiva. Il nostro sé come un altro, come luogo di relazione che rende possibile l’accoglimento e la venuta dell’altro. Ci trasformiamo via via in campi nel campo. Il campo, a sua volta, ci invade; prende a pulsare del nostro stesso battito, impallidisce per il freddo, trema. La bianchezza sfiora i contorni dei nostri corpi e, in ugual modo, i bordi delle cose. Ogni cosa – esposta dal discorso che la racconta e che articola le sue proposizioni come forma logica del giudizio percettivo – adesso vive nella prossimità del nostro sguardo. Siamo nel mezzo di un campo d’ immanenza insieme umano e campestre, capace di evocare una memoria di luoghi rarefatti e pallidi sotto la sua dormienza e sotto la nostra pelle. Il campo ha assunto la valenza di segno da interpretare, delineando nel contempo una modalità del pensare la sua superficie come un percorso, o un sorvolo, in grado di superare la complessità del mondo. Ogni cosa, raggiunta oltre la sua coltre concettuale che separa come una pelle il mondo dal mondo, finalmente si apre, trasparente nella trasparenza. Ci guarda con il suo occhio chiaro e canta la contemporaneità di passato-presente-futuro. Il poeta ha sospeso e spazializzato il tempo, facendone una fenomenalità indipendente: un tempo organizzato, musicale, che può andare simultaneamente verso il passato e verso il futuro e in direzioni opposte, come un canone inverso, risuonando fino alla virgola che tutto sospende. Nel verso, come nella vita, l’inserimento della virgola cambia non solo ciò che viene dopo, ma anche tutto ciò che c’era prima. Nella durata del tempo sospeso, dice Bergson, il passato fa valanga con se stesso. L’élan vitale del passato diventa pura forza creatrice, sempre capace di dar vita a qualcosa di nuovo: intacca l’avvenire e si accresce nel suo progredire. E poiché si accresce continuamente, il passato si conserva indefinitamente e la valanga concresce senza perdere i pezzi iniziali. Il vitalismo bergsoniano porterà il lettore da un Campo d’inverno a un Campo di primavera. Lo sguardo attento alla primavera che sfolgora potrà percepire i germogli spuntare dal buio come fregi, i piccolissimi puntini di una coccinella. Lo stratagemma, suggerito dalla voce che parla – di porre uno specchio orizzontale verso la pioggia primaverile nel vento che la muove – lo aiuterà a comprendere che si può raddoppiare, con la pioggia, anche il mondo figurato nell’analogon della scrittura. Ma, nel mentre, il canto sarà quasi del tutto cantato e le figure svanite: per vedere quello che si muove occorre muoversi (occorre deterritorializzarsi, direbbe Deleuze, spostando mappe e confini).

 

 

 

Field in Winter

 

The world, a museum of itself.

The cold colonnade of dying elms.

You cannot will a dream, though you, too,

can fall, and fall asleep, and wake

in wonder. There is nowhere

the whiteness has not

touched—take

                    a look and

see. The corners, the edge, of each

thing exposed:

you walked into a new transparency,
 

Campo d’inverno

 

Il mondo, un museo di se stesso.

L’algido colonnato di olmi spiranti.

Non puoi importi un sogno, tuttavia, anche tu

puoi cedere, cedere al sonno, e svegliarti

nello stupore.  Non c’è nessun luogo

che la bianchezza non abbia

sfiorato—dài

                  uno sguardo e

osserva. Gli angoli, gli orli, di ogni

cosa esposta:

sei entrato in una nuova trasparenza,

 

 

 

Field in Spring

 

Your eye moving

left to right across

the plowed lines

looking to touch down

on the first

shoots coming up

like a frieze

from the dark where

pale roots

and wood lice gorge

on mold.

Red haze atop

the far trees.

A two dot, then

a ten dot

ladybug. Within

the wind, a per-

pendicular breeze.

Hold a mirror, horizontal,

to the rain. Now

the blurred repetition

of ruled lines, the faint

green, quickening,

the doubled tears.

Wake up.

The wind is not for seeing,

neither is the first

song, soon half-

way gone,

and the figures,

the figures are not waiting.

To see what is

in motion you must move.

 

 

Campo di primavera

 

Lo sguardo che si muove

da sinistra a destra nelle

linee arate

cerca di posarsi

sui primi

germogli che spuntano

come un fregio

dal buio dove

pallide radici

e onischi del legno divorano

la muffa.

Foschia rossa in cima

agli alberi lontani.

I due puntini, quindi

i dieci puntini

di una coccinella. In seno

al vento, una brezza

perpendicolare.

Tieni uno specchio, orizzontale,

verso la pioggia. Adesso

la ripetizione offuscata

di linee rette, il verde

pallido, palpitante,

le lacrime raddoppiate.

Torna presente a te stesso.

Il vento non aiuta il vedere,

non è nemmeno il primo

canto, presto sarà

quasi passato,

e le figure,

le figure non aspetteranno.

Per vedere quel che è

in movimento devi muoverti.

 

 

 

Una giovane donna che sembra pesare nei piattini vuoti di una bilancina o nel tempo sospeso qualcosa di prezioso: forse pezzetti di monete d’oro o perle sparsi sul tavolo. Il celebre dipinto del maestro di Delft, La pesatrice di perle, offre lo spunto per una riflessione sulla circolarità del tempo, in cui è difficile distinguere l’andare a dal venire da, così come nel duplice significato insito nel nome di Vermeer. L’andare e venire in tondo dei concetti, la rotondità delle perle che rotolano, forse di un ventre con dentro un figlio. Qualcosa di importante, a caccia di ‘cose da nulla’, si rivela in minime concrezioni iridescenti come arte (poetica) del creare qualcosa dal niente.

 

Two Poems on the Name of Vermeer

 

toward the lake

 

 

Morning light, light at dusk, now

and then a step

from each other, the endless tuning of one string

against another.

Perfection in the first means the second

slips down

an entire key only to be keyed

up again,

and so on…

                    Light is patience and falls

in profile,

a pearl necklace strung by gradations

and the smallest,

at the moment of the clasp, rolls away

lost between

the floorboards forever, the strand left gaping

forever.

If I had a yellow dress and an open

window,

I am sure as much music could float in

on the wind

as could float out on the air,

and so on…

                     The great map

hangs above a leather chair studded

with silver rivets.

I can barely remember the word we use

for the map’s crest,

that square that sets the ratio

and symbols.

It’s posted there, obvious, and

oblivious to

the sea, but not of the sea, forever.

The fist of Spain

juts down, triangular.

 

I was happy there

in legend:

legendary sails of real

ships, a monster’s

fins leaping, leaping past the beach,

a compass rose,

and so on…

 

from the lake

 

 

In the middle

of the night, to count up what is missing,

taking out

the wiry scale, holding it suspended like

a puppeteer

in a play about the ghost of nothing

chasing something.

Moonlight shines in on the scene.

A Last Judgment

looms from a frame on the wall.

Does allegory

then, start at the start, or come forward

on the glaze

of surfaces? In the middle of the watery

night, the plumb-

line snags in the eelgrass . The lecturer

said the name

meant coming and going, just the same,

though how

could that be true? You find yourself looking

for a clue.

You find yourself

looking for a clue. Why do

lost causes

always stretch toward the future when

the rest of them,

retreat, in silence, to the past? It’s all

equivalence,

deferred. A set of substitutions.

A coin for all

the flecks that made the coin. Much farther south

the diver dreams

by lamps propped on the mast. The sea teems

with somethings chasing

nothings all around, and minor irritations,

iridescent.

 

 

Due poesie sul nome di Vermeer*

 

verso il lago

 

 

Luce del mattino, luce al tramonto, di tanto

in tanto un passo

dell’una verso l’altra, l’incessante sintonia di una corda

sull’altra.

La perfezione nella prima comporta che la seconda

decresca

di un tono intero solo per essere accresciuta

ancora,

e così via…

                   La luce è pazienza e si irradia

di lato,

una collana di perle infilate per gradazioni

e la più piccola,

al momento del fermaglio, rotola via

perduta per sempre

tra le assi del pavimento, il filo lasciato aperto

per sempre.

Se avessi un abito giallo e una finestra

aperta,

sono sicura che così tanta musica potrebbe entrare

fluttuando nel vento

come potrebbe uscire fluttuando nell’aria,

e così via…

                  La vasta mappa

domina su una sedia in cuoio ornata

di borchie d’argento.

Posso appena ricordare la parola usata

per lo stemma della mappa,

quel riquadro che compone ratio

e simboli.

È segnata lì, evidente, e

incurante del mare,

ma non immemore del mare, per sempre.

Il pugno della Spagna

poco distante, triangolare.

 

Ero felice laggiù

nella legenda:

leggendarie vele di navi

reali, le pinne di un mostro

che balzava, che balzava oltre la spiaggia,

una rosa dei venti,

e così via…

 

dal lago

 

 

Nel mezzo

della notte a soppesare quel che manca,

tirando fuori

la bilancina metallica, tenendola sospesa come

un burattinaio

nel gioco del fantasma del niente

a caccia di qualcosa.

Il chiaro di luna brilla nella scena.

Un Giudizio Universale

incombe da una cornice sulla parete.

Dunque l’allegoria

inizia all’inizio, o avanza

nella luminosità

delle superfici? Nel mezzo della notte

d’acqua, il filo

a piombo s’impiglia nella zostera marina. Lo studioso

diceva che il nome

significava in ugual modo andare e venire

ma come

poteva essere vero? Ti ritrovi a cercare

un indizio.

Ti ritrovi

a cercare un indizio. Perché

le cause perse si protendono sempre verso il futuro

mentre il resto di esse

si ritrae in silenzio verso il passato? È solo

questione di equivalenza,

differita. Una serie di sostituzioni.

Una moneta per tutti

i pezzetti che fanno la moneta. Molto più a sud

il pescatore di perle sogna

accanto alle luci sorrette all’albero maestro. Il mare pullula

di qualcosa a caccia

di cose da nulla tutt’attorno, e di minime concrezioni,

iridescenti.

 

 

*Vermeer (Van der meer, dall’antico ‘mere’, mare, lago) significa sia ‘andare verso il lago’ sia ‘venire dal lago’.

Sonetto atavico ripropone la fortunata e duratura forma metrica così ben radicata nella tradizione letteraria. Tredici versi, movimentati dagli enjambement e dagli a capo del ricordo, mimano rime e gorgheggi, proiettando sulle pareti di una vecchia stanza il loro gioco di ombre cinesi. L’ombra di una vecchia fiamma cliccata su google, l’ombra di un areo come quella di un gabbiano, poi di un escavatore che ricolma il solco dove ‘il vagabondo dormiva’. Ombre di figure fittizie messe in movimento da suoni e ricordi. O da qualcosa d’altro di più nascosto che appronta i suoi ritratti limitati ad affusolate silhouette: lato fantasmatico del visibile o residuo necessario e razionale del passato, dell’amore, il suo ricordo.

 

 

Atavistic Sonnet

 

Shadow of the gull on the airport wall, lunging

as the fuselage vaults above the meadow. Hollow in

the cornrow where the hobo slept, then a backhoe

filling up the furrow. Misery of clocks in neon

glare, whereabouts of warblers and island foxes,

an old flame googled from the dead letter office—simple

as the still-warm bench at dusk. Typing or sewing,

or bringing down a fever through a length of knotted string

and a rusted staple gun. Here comes the tattooed

witch with her drum while the royals wait by the limousine

grinning. Shadow of the gull on the airport wall,

shallows in the stairs where we fell and stepped, hollow in the

cornrow where the hobo slept, a backhoe filling the furrow.

 

 

 

Sonetto atavico

 

 

L’ombra del gabbiano sulla parete dell’aeroporto, in un affondo

mentre la fusoliera volteggia sul campo. Un calco nelle

solcature, dove il vagabondo dormiva, poi un escavatore

a colmare il solco. Tristezza degli orologi nel bagliore

al neon, un luogo di gorgheggi e volpi delle isole, un’antica

fiamma cliccata su google dall’ufficio posta inevasa, unica

come l’ancora calda panchina al tramonto. Scrivendo o cucendo,

o spegnendo la febbre grazie a un pezzo di cordicella annodata

e una cucitrice arrugginita. Ecco che arriva la strega tatuata

col suo tamburo mentre i reali aspettano sorridenti accanto alla

limousine. L’ombra del gabbiano sulla parete dell’aeroporto,

incavature nelle scale dove cadevamo e passavamo, un calco nelle

solcature dove il vagabondo dormiva, un escavatore a colmare il solco.

 

Acclamato poeta e critico, Susan Stewart (Pennsylvania) vive tra Filadelfia e Princeton. I suoi libri di poesia coprono un arco di più di trent’anni: Yellow Stars and Ice (1981); The Hive (1987, 2008); The Forest (1995); The Elements (2002); Columbarium (2003), insignito del National Book Critics Circle Award; Red Rover (2008) e il più recente CINDER New and Selected Poems (2017). In Italia ha pubblicato Columbarium e altre poesie (Ares 2006, trad. italiana di M. C. Biggio, prefazione di G. Mazzotta, postfazione di M. C. Biggio) e Red Rover (Jaca Book 2011, postfazione di M. C. Biggio). Tra i suoi volumi di critica letteraria si ricordano: On Longing (1992); Poetry  and the Fate of the Senses (2002, trad. cinese, 2011), premiato con il Christian Gauss e il Truman Capote; The Open Studio: Essay on Art and Aesthetics (2005); The Poet’s Freedom: a Notebook on Making (2011). Le sue traduzioni e co-traduzioni includono: (con Wesley D. Smith) Andromache (Andromaca) di Euripide, 2001; Love Lessons: Selected Poems of Alda Merini (Lezioni d’amore: poesie scelte di Alda Merini, 2009); (con S. Teardo) The Reprisal (La rappresaglia) di Laudomia Bonanni, 2011; (con P. Ceccagnoli), Theme of Farewell and After-Poems (Il tema dell’addio e poesie successive) di Milo De Angelis, 2011. Susan Stewart ha spesso collaborato con numerosi artisti, tra i quali Sandro Chia e Ann Hamilton. Chancellor of the Academy of Poets and MacArthur Fellow, Stewart è Avalon Foundation Professor alla Princeton University dove insegna discipline umanistiche.

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