Giovanni Ibello, “Turbative siderali”

Giovanni Ibello

 

Quando tutto sarà finito
sarà il sonno a irrigidire gli occhi
ma prima della fine
c’è una retrospettiva lenta dell’infanzia
una campionatura degli amori.
Poi il respiro si risolve
in un orgasmo neuronale,
è come un’implosione
di pianeti nella mente
una turbativa siderale
del corpo che ritorna seme.

*

Torno allo stato embrionale della vita
nel sonno ibrido del feto,
dove un diagramma di materia nuova
riproduce fedelmente
il calco delle ossa
la nomenclatura delle vene
e un incavo d’ali nelle scapole.
Questa è la divinazione dei corpi.
Anche tu la chiami morte
questa armata silenziosa senza lume?
Questa rete di spade
incrociate sopra i corpi,
l’antilope che si ritira tra i canneti.
La preghiera del giorno: siamo muti.
Tutto si separa per venire alla luce.

*

Nei quartieri residenziali
i colombi sbucano dalle fogne
dalle cavità del tufo
dai tramezzi in cemento.
E mi piace pensare
al respiro dei cardini,
ai palpiti dei basamenti
ai rituali d’amore inascoltati
nell’endometrio delle case.

Nota di Eleonora Rimolo

Per intraprendere la lettura di Turbative siderali opera prima di Giovanni Ibello (Terra d’ulivi, Lecce 2017) occorre innanzitutto una vocazione al sensibile e ai suoi naturali paradossi: in questa sua raccolta d’esordio, infatti, fervore e generosità del linguaggio poetico si accompagnano spesso a crude sentenze e a dolci affetti, e così via, in un’alternanza puntuale di coppie oppositive. Il libro è diviso in tre parti, e questa non è una scelta arbitraria, bensì una manifesta esigenza di tracciare un percorso in cui ad una prima parte dedicata al sogno e alle sue atmosfere perturbanti ne segue una seconda nella quale la protagonista assoluta è la memoria, per poi approdare ad una terza parte dove il reale prende il sopravvento, inglobando e superando in sé la dimensione onirica del futuro supposto e quella memoriale del passato ormai lontano ed irrecuperabile.
Non stupisce dunque che il primo verso della Parte I (l’ultimo rantolo del sole) contenga il verbo sognare e ci cali immediatamente in un’atmosfera sfumata, notturna (non a caso l’opera Perturbante per eccellenza sono i Notturni di E T. A Hoffman), dove il teatro spaziale delle ombre nasconde inquietanti figure, come i gatti che si amano di notte/mentre l’acqua scanala nelle fogne, e mentre le stelle sono in fase di lenta recessione dentro pozzanghere. La presenza animale e il luogo putrido in cui essa si colloca (appunto fogne, pozzanghere) sono simboli tipici del Perturbante freudiano: nella poesia di Ibello compaiono numerose forme bestiali tra le quali maiali sgozzati/riversi su un fianco, insetti che ‘friniscono’ sulle mani, antilopi erranti, ratti, ragni, ma soprattutto il misero della cernia ermafrodita, animale simbolo per eccellenza del Perturbante in letteratura, se solo pensiamo a La trota nera di Montale, o alla cernia del surrealista portoghese O’Neill, tradito/pesce represso...
Queste scene sconcertano, inquietano: la loro esistenza è fonte di tormenti angosciosi, la loro fisionomia assurda è una forma inconscia di disagio e di insensatezza, e la loro genesi è nell’Altrove, nello spazio turbolento e oscuro del sogno. Ma l’Unheimliche è caratterizzato da un dualismo affettivo che non va sottovalutato: l’oggetto perturbante è considerato allo stesso tempo estraneo e familiare, ed è proprio da questa inconciliabilità di sensazioni che si risolve/l’equazione del volo, poiché malgrado tutto il male ricevuto/”io non ho paura”. Giovanni Ibello sta sognando e osserva allo stesso tempo la sua donna dormire, il suo è un sogno nel sogno, dove la notte profuma di arance, e dove non si teme la vastità del mare (Tu la chiami deriva/io dico che non c’è preghiera/più grande del mare) ma la si affronta con risolutezza (Non tutte le ferite possono rimarginare) navigando a vista in un banco di nebbia sottile che contribuisce a rendere ancora più fosca l’atmosfera di questa sezione. Il rimosso riaffiora dunque in superficie man mano che ci si avvicina al termine della prima parte della raccolta: il commiato/è un rito quieto, dopotutto, perché si celebra per sottrazione, e così le creature ibride dei primi testi scompaiono progressivamente, insieme alle ancestrali paure del poeta, dal momento che mai nessuno/ci ha chiesto di essere vivi. L’impossibilità della scelta è il prezzo della luce che ognuno di noi paga per proseguire nel cammino: tuttavia il peso della nostra insignificanza emerge nel momento ultimo della morte (Perché dopo la morte/resta solo il nome/e un silenzio irrisolto/uno sfrigolio di corpo/che si decompone). Ognuno di noi è dunque un feto/che per istinto/si difende, ma l’enigma è presto risolto: il sonno che ci annega nelle viscere del nostro buio inconscio è il solo fine previsto della nostra vita. Quando tutto sarà finito/sarà il sonno a irrigidire gli occhi, e sarà lì che tutto si ricongiungerà, in quello stato dormiente dello spirito che sogna, si terrorizza, si annulla, mentre il corpo ritorna seme, permettendo così al Perturbante di trasferirsi nel sogno dell’Altro.

È dunque una vita altra quella che nasceva prima che arrivasse la lacerazione: la Parte II (turbative siderali) si apre con la conferma di quanto detto in precedenza sul paradosso dell’esistere per opposti (Lo stupore della vita/è dentro il paradosso:/che si viene alla luce/con gli occhi serrati) per poi addentrarsi nel labirinto feroce della memoria lontana, una memoria di cera/sulle ascisse del sole, che è difficile da definire nel presente, perché tende a trasfigurarsi, tramite il sogno, ma anche tramite quella che la Rosselli definisce castità dell’ignoto, la quale permette al poeta di rimodulare i suoi ricordi sulla certezza che nulla è verità. E dunque Ibello ricorda, con innocenza o con distacco conquistato, dialoghi, volti, corpi, traendo in prestito da uno dei suoi personaggi una domanda retorica che diventa assoluto verdetto: Perché nessuno si appartiene veramente? Certo è che i ricordi sono pieni di momenti di contesa, dove Tenersi per mano, piangere,/cercare di non farsi vedere./Tirare su col naso, reidratare/la bocca, articolare due parole significa alimentare una Recherche che è spesso fonte di sofferenze, cauterizzate attraverso la scrittura poetica. Se la memoria ci aiuta ingannandoci o forse ci inganna per aiutarci (Julio Cortázar) allora bisogna tentare a tutti i costi di estrarla da quel non tempo/che adesso è divario incolmabile, bisogna che il poeta sia paziente, che trovi una feritoia/nella placenta degli astri da cui cavare le parole, i gesti e il calore di Leila, di Alejandra, di una madre, di Greta: presenze che hanno misurato le distanze coi respiri, e che hanno lasciato un solco profondo nel silenzio del presente dove non esiste/il peso dell’assenza, ma quello che manca/ è quell’esserci amati/una ed una volta sola. Tuttavia il ricordo ha in comune con il sogno la medesima inconsistenza materiale: è quindi necessario che esso si esaurisca nel giro di un paio di versi, che ad un certo punto si dissolva definitivamente (Lasciami andare./Come si lasciano andare i morti) perché il distacco non ha memoria e la dimensione temporanea del passato non è ancora, come quella del sogno, risolutiva di un presente che incombe ed esiste, senza che nessuno lo abbia mai chiesto per sé (Non voglio più pensare/a quell’amore/che ci ha messo al mondo/e ci chiede di scontare/la sua pena (sua e non nostra)). Al termine del viaggio interiore, infatti, la parola si riduce/a un’impronta del percorso/non porta nome, né volto, né voce/solo una parete divisoria/e due occhi sgranati che si scrutano/dal mezzo di una feritoia: dunque qui non trovi te stesso, anche chiuso a doppia mandata (Iosif Brodskij).

In questo stato di smarrimento della direzione l’Io del poeta non può che giungere spontaneamente alle soglie della realtà; dopo aver affrontato il lungo percorso della mente la Parte terza ci conduce nel bel mezzo di una realtà solida, tangibile, minacciosa. Ibello si è svegliato dalle oniriche turbolenze notturne, ha esaurito la forza emotiva del ricordo, si muove finalmente libero nella sua città, e già nella poesia che apre questa ultima sezione compaiono elementi riconoscibili e critici di Napoli: l’aroma sulfureo, la cenere, la diossina. Sostanze che lavorano quotidianamente per la nostra morte precoce mentre il mare viene deturpato da muri di tufo e lastre di amianto, e mentre una guerra intestina non finisce di certo solo perché noi non la vediamo. Immagini squallide e aride trovano spazio nell’osservazione coraggiosa e infelice di Ibello: Poco distante, due uomini rollano erba/sul sedile sbrindellato di una Panda,/con la fiancata rigata da una chiave/e il disco neomelodico che gira, mentre a Napoli est c’è un sole nero che brucia,/impenitente, senza perdono. Il poeta è in questa sezione un autentico flâneur che si muove per le strade di una città dalle atmosfere misere e sudicie, che ricordano molto quelle descritte da Dino Campana: anche Napoli è una piaga rossa languente, che sfida il tanfo dei copertoni bruciati/e i pannelli di eternit/sgretolati da una folgore e che allo stesso modo della perfida Babele di Campana spinge gli uomini a scontrarsi con la loro solitudine e con la loro impotenza. Di fronte ad una città che cambia, inesorabilmente (La forma di una città/cambia più in fretta, ahimè! del cuore di un mortale dice Baudelaire, la cui Parigi devastata dalla modernità rimanda alla Napoli distrutta da interessi malavitosi) il vulcano diventa il simulacro/di un sacramento proibito: la sua impronunciabile sentenza di morte incombe, giorno dopo giorno, mentre i vapori petroliferi/stordiscono le ultime falene e l’odore di marijuana/si dirama oltre le case popolari. È infine nella profezia di una donna che strappa una radice di gramigna dalla mano di Maradona che risiede il senso di questo proiettarsi totale e senza compromessi nel reale: l’amore perduto non ritorna, pronuncia la popolana, e per questo motivo l’unico modo di affrontare la vita è viverla hic et nunc, tenendo lo sguardo turbato ma fermo a metà tra lo spazio siderale e la madre terra. Il seme è davvero diventato nuovo corpo; dalle macerie delle mostruosità inconsce e dei labili ricordi si può veramente costruire una nuova, fatiscente, dimora: tu cerchi asilo/nella indissolubile/stella ereditaria – ti sarà/concesso. Ora/tu sopravvivi la tua seconda/vita (Paul Celan) nel tentativo estremo di restare, nel modo più leale possibile, il protagonista della scena madre su questo mondo.

Perché dopo la morte
resta solo il nome
e un silenzio irrisolto
uno sfrigolio di corpo
che si decompone.
Ma le unghie sono spade lucenti
ancora troppo legate alla vita
brandite dalla mano che cede
all’ombra adunca dei tulipani.
Il prete si guadagna da vivere,
ma la bocca che pregava
non era pronta a baciare le tempie
e le mani strette sul petto
sono quelle del feto
che per istinto
si difende.

*

Di quello che sognavi veramente
non resta che un silenzio siderale
una lenta recessione delle stelle
in pozzanghere e filamenti d’oro,
il riverbero delle sirene accese
sui muri crepati delle case.
Così dormi, non vedi e manchi
il teatro spaziale delle ombre.
Il desiderio è l’ultimo discanto.
Ma quanti gatti si amano di notte
mentre l’acqua scanala nelle fogne.

___

Giovanni Ibello è nato a Napoli l’8 febbraio del 1989. “Turbative siderali” è la sua prima pubblicazione.

2 pensieri su “Giovanni Ibello, “Turbative siderali”

  1. Mi colpisce, in particolare, come riesce a passare dal realismo alla visione, a coniugare concretezza e lirismo, al punto che l’una sfuma nell’altro e diventa non più possibile distinguerli

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