Milo De Angelis, “L’infinito presente”

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Milo De Angelis, (Credits / Viviana Nicodemo)

di Luigia Sorrentino

Per comprendere il percorso poetico di Milo De Angelis è necessario soffermarsi sulla familiarità e sulla relazione che il poeta ingaggia tra la potenza di una voce maschile e un’altra, femminile, caratteristica essenziale e centrale dell’intero discorso poetico. Spesso questa presenza si manifesta in una fugace apparizione o in una traccia improvvisa e drammatica del verso, percepita da una lontananza, da un luogo mitico e leggendario che il poeta rivive nella modernità assoluta dei suoi versi, in un infinito presente.

In Somiglianze, l’opera prima di Milo De Angelis, è possibile identificare l’essenza femminile nel volto delle borgate, in “quell’assolutamente/ oltre/ che dai libri usciva nella storia” , nell’esperienza collettiva degli anni Settanta, ma anche solitaria e taciturna vissuta dal poeta, gli anni delle bande, delle squadre di calcio, dell’algebra minuziosamente cercata nei primi versi. Quell’essenza femminile è sempre stata lì, nello slancio improvviso compiuto dall’azione della poesia quando la incontra per la prima volta con “un filo di gioia/ nelle mani” . Ma lei è, per De Angelis, anche la cacciatrice imperativa e dispotica, la vincitrice , oppure l’isola lontanissima e compresa come unica nel flusso di un eterno ritorno: “un secolo intero scorreva/ nei suoi movimenti/ perché era l’unicità.” Ne La corsa dei mantelli la presenza femminile ha le sembianze di Dàina, una giovane e rigorosa atleta “figlia di Artemide e non di Venere” , guerriera coraggiosa capace di gesti dolcissimi, ma pure improvvisamente violenti. Altrove è la disadorna , statuaria e austera, priva di artifizi e ornamenti che compie il tempo oltre il tempo; altre volte è una porta, “sempre abbandonata ai cardini”, una bocca sanguinante e silenziosa, in altre, è l’agile schermitrice o la creatura fragile che “esegue la caduta”. E ancora: lei è un’ora che raccoglie tutte le ore” , la notte percepita in un’altra notte “negli intervalli di una sola e grande morte”, ma è anche “una donna sola,/ nella dolcezza delle nebbie.”

Con la poesia Donatella la presenza femminile assume una caratteristica grandiosa: emerge dal dialogo fra due persone in un luogo apparentemente insolito, una palestra in cui ci si allena per prepararsi alla gara sportiva, grande metafora della vita, in cui lei appare, fin dai primi versi, come un’essenza antica e immota che assume una fisicità totalizzante nella poesia sebbene non sia lei a parlare in prima persona. Così, mentre Milano si è trasformata in una città-oceano che custodisce la linfa femminile e arcaica eretta a mito fondante dell’anima popolare delle periferie, Donatella è stata “donata”, e, proprio lì, nel gesto atletico che si è compiuto, lei ha raggiunto territori di confine e si è avverata. Su quella frontiera Donatella è solo la traccia di ciò che è stata nella giovinezza, nel tempo del vigore che la vide fiorire nella danza. Donata non c’è più, eppure la grande velocista, morta a se stessa, è ancora lì. La sua figura dimessa appartiene a un tempo cancellato e intoccabile, che vive nello scarto della memoria di chi l’ha conosciuta. E’ come una deità greca, numinosa e sinistra, è immota, delicatissima, sfigurata, mutata e immutata, eternamente presente e perennemente perduta, è, al tempo stesso, imminente e distante. E’ sempre qui – ripete la voce –. E’ la Donatella che ha corso su lunghe strade di asfalto, tra carcasse di auto abbandonate, tra gli altiforni; ha brevemente sostato agli incroci di strade industriali, poi è ripartita, fulminea, per donarsi all’ombra degli idroscali, con la miracolosa forza delle sue ginocchia quando è in pista, e “sfolgora agli ottanta metri”.

Nell’osservazione puntuale della poesia Donatella, non possiamo ignorare il punto esatto in cui l’autore l’ha collocata all’interno del libro: nella sezione Capitoli della storia, dopo Cartina muta, una poesia tesissima, carica di segnali e premonizioni e Idroscalo, che contiene l’immagine di una giovinezza ferita, un’ora dolorosa. E’, quindi, evidente, confrontando le scene e i personaggi dei tre testi, che siamo dentro un tessuto narrativo continuo all’interno del quale si inserisce la poesia Donatella. I versi degli elaborati che precedono e che seguono, conducono sempre a lei perché questa poesia anticipa il discorso poetico e diventa il nucleo centrale di tutta la sezione. Si osservi Cartina muta. De Angelis scrive: “entriamo adesso nell’ultima giornata” con “la gola ancora calda”. Questi versi preannunciano che qualcosa è già avvenuto, siamo frontali alla fine, siamo già nella morte. E allora il poeta chiede: “dove sei stata/ per tutta la mia vita” e risponde: “nel pianto di una poesia che non ha potuto dire”… In Idroscalo, poi, “la giovinezza ha già preso la forma/ di un passo oscuro, di una rosa / appesa alla finestra”, dunque, anche qui, la vita si è già conclusa. Entrando nei versi di Donatella ci si accorge che De Angelis in realtà ritorna a un tempo e a una realtà già cancellata nelle due precedenti poesie: “… Eccola guardi nella rete del martello… (n.d.r. rete utilizzata per gli allenamenti alle gare sportive per il lancio del disco o del martello) – dirà l’enigmatico custode – la prego… parli piano… con una mano disfa quel che ha fatto l’altra mano.” Donata è cancellata e intoccabile. L’inverno è entrato in lei, la sua gola non è più ancora calda come avveniva in Cartina muta, ma è fredda, perché ha ingoiato l’inverno. Siamo arrivati a Donatella da una distanza incalcolabile e alla fine dell’ultima giornata. E’ lei che “ha deciso di ospitare tutto il gelo”, dice il poeta, ha preso un passo buio, è venuta meno, è crollata nella sua carcassa d’amore. Il colloquio fra i due si fa commosso, il custode spiega che a chiunque vada lì, chiede di baciare la ragazza – per risvegliarne la bellezza e la potenza mitica – ma nessuno riesce a farlo. Questo spiega che De Angelis ha messo nella morte di Donatella il gesto atletico della giovinezza e lo ha rinchiuso in una memoria collettiva tanto lontana nel tempo da essere irraggiungibile. Il finale vale la pena di riportarlo integralmente: “Lo dica già stasera in cielo e in terra, dappertutto,/ lo dica alle persone di avvicinarsi: ne sentiranno/ desiderio: è così bella – e capiranno che la luce/ non viene dai fari o da una stella, ma dalla corsa/ puntata al filo, viene da lei, la Donatella.” La luce della giovinezza viene da lei, la Donatella, ed è come un lampo, una freccia che è già arrivata al traguardo ancora prima di essere partita.

[Testo critico pubblicato in: Passione Poesia, Letture di poesia contemporanea 1990-2015, progetto a cura di Sebastiano Aglieco, Luigi Cannillo, Nino Iacovella (CFR, 2016)]

DONATELLA

La danza fiorisce, cancella il tempo e lo ricostruisce
come questo sole invernale sui muri
dell’Arena illumina i gradoni, risveglia insieme agli anni
gli dei di pietra arrugginita. “C’è Donata Di Giovanni?
Si allena ancora qui?” Come no, la Donatella,
la velocista, sta semper da per lé.”

Mi guardava fisso, con l’antica dolcezza milanese
che trema lievemente, ma sorride. “Eccola, guardi,
nella rete del martello… la prego, parli piano…
con una mano disfa ciò che ha fatto l’altra mano.”
“Chi è costui? Un custode, un’ombra, un indovino…
quali enigmi mi sussurra?” Si avvicinò
a Donata, raccolse una scarpetta a quattro chiodi.
“La tenga lei, signore, si graffia le gambe…
… povera Donata… è così bella… Lei l’ha vista…”

“Forse il punto luminoso della pista
si è avvitato a un invisibile spavento, forse
quest’inverno è entrato nella gola insieme al cielo:
era sola, era il ventuno o il ventidue gennaio
e ha deciso di ospitare tutto il gelo.”

“O forse, si dice, è successo quando ha perso
il posto all’Oviesse, pare che piangesse
giorno e notte… per non parlare di suo padre…
i dottori che ha chiamato… mezza Milano.”

“Io signore, sbaglierò, le potrà sembrare strano
ma dico a tutti di baciarla, anche se in questo
quartiere è difficile, ci sono le carcasse dell’amore
c’è di tutto dietro le portiere. Sì, di baciarla
come un’orazione nel suo corpo, di baciare
le ginocchia, la miracolosa forza delle ginocchia
quando sfolgora agli ottanta metri, quasi al filo
e così all’improvviso si avvera, come un frutto.”

“Lo dica già stasera, in cielo, in terra, dappertutto
lo dica alle persone di avvicinarsi: ne sentiranno
desiderio – è così bella – e capiranno che la luce
non viene dai fari o da una stella, ma dalla corsa
puntata al filo, viene da lei, la Donatella.”

Estratto da: Milo De Angelis, Poesie, Oscar Mondadori, Milano, 2008; “Biografia sommaria”, Donatella, pag. 223

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Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna in un carcere di massima sicurezza. Ha pubblicato Somiglianze (Guanda, 1976); Millimetri (Einaudi, 1983); Terra del viso (Mondadori, 1985); Distante un padre (Mondadori, 1989); Biografia sommaria (Mondadori, 1999); Tema dell’addio (Mondadori, 2005), Quell’andarsene nel buio dei cortili (Mondadori, 2010), Incontri e agguati, (Mondadori, 2015). Ha scritto un racconto fiabesco (La corsa dei mantelli, Guanda, 1979, ristampato da Marcos y Marcos nel 2011) e un volume di saggi (Poesia e destino, Cappelli, 1982). Ha tradotto dal francese e dalle lingue classiche: Racine, Baudelaire, Blanchot, Eschilo, Lucrezio, Antologia Palatina. Nel 2008, presso La Vita Felice, è uscito Colloqui sulla poesia, dove appaiono le sue principali interviste, a cura di Isabella Vincentini. Nello stesso anno viene pubblicato un volume che raccoglie tutta la sua opera in versi (Poesie, Oscar Mondadori, a cura di Eraldo Affinati).

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