
Pietro De Marchi, con “La carta delle arance” ha vinto il Premio Gottfried Keller 2016 dotato di 25’000 franchi svizzeri
Nota di Rodolfo Zucco
Antichi aeroplanini al decollo, bolle di sapone… Non è infrequente, tra le metafore del fare poesia, l’immagine dello stacco da terra, della levitazione. Ma quella trovata da Pietro De Marchi nella poesia che sigilla La carta delle arance e gli dà titolo ci porta assai peculiarmente dentro le ragioni e le pulsioni di un’esperienza di scrittura in cui hanno parte fondante, radicale, la consapevolezza dell’effimero e, ad avversarla, l’ostinazione che pretende l’iterazione del miracolo. Capiamo allora, giunti al punto apicale del libro e della trilogia che esso conclude, come De Marchi sia riuscito – accensione dopo accensione, verso dopo verso – a farci riconoscere, nel volto del bambino protagonista della poesia di congedo, il nostro stesso volto. Lo ha fatto alimentando il desiderio di esserci, di essere chiamati a testimonianza, di poterci affacciare sulla scena per una qualche minima battuta che ci perpetui: fino a che il desiderio si dissolve e insieme si realizza nell’affidamento alla capacità di ascolto di questo straordinario captatore di voci, detti, storie, ritmi. De Marchi è il poeta che è per questa sorridente pietas che gli fa sentire il nostro insopprimibile desiderio di essere accolti, amati, sottratti – per quanto sospensivamente – a un destino di cenere: noi, «tutti con dentro un capogiro / a pensare di ripartire / senza lasciare un segno / che siamo stati qui».
ESTRATTI
Un paesaggio invernale
About suffering they were never wrong,
The Old Masters…
W.-H. Auden, Musèe des Beaux Arts (1939)
Lo sapevano bene anche gli allievi
dei Vecchi Maestri fiamminghi:
tutto dipende dal punto
dove si posa lo sguardo.
Prendi Marten van Cleve, per esempio,
e il suo Paesaggio invernale
con la strage degli innocenti.
L’occhio corre alle lance, agli elmi,
alle armature lucenti, al cane
che abbaia dietro ai soldat a cavallo,
mentre sulla sinistra, in basso, un fante
rinfodera la spada e un altro,
più giovane, poco più che un ragazzo,
tiene stretto un pugnale e ha sul volto
un’espressione strana e guardinga;
al centro, proprio nel mezzo, un terzo,
un cavaliere smontato di sella,
dirige contro il tronco d’un albero
un fiotto potente d’urina.
Questo vediamo,
perché c’è questo in primo piano.
Ma se aguzzi la vista,
qualcosa scorgi e ben altro intuisci
sullo sfondo e nella zona più in ombra:
le porte spalancate con violenza, gli armigeri
che fanno irruzione, lo strazio
delle madri a cui strappano i figli dal grembo,
gli infanti riversi al suolo, a braccia aperte,
a disegnare una croce… Eppure
non c’è traccia del rosso del sangue
sulla neve innocente, tutto il vermiglio
Marten l’ha steso uniforme
sulle casacche dei soldati e sugli stendardi
che garriscono al vento.
Anche questo vorrà dire qualcosa,
non pensi?
La casa di Keats
Tutto il dolore del cuore m’arriva
con la pioggia che cade e il verde così verde.
Su queste vecchie carte niente ravviva
la lettera triste che col tempo si perde.
Vuote di te contemplo le stanze,
mi siedo al tuo posto nel reading room.
Niente attenua i rimpianti.
Non sento, dei tuoi anni, alcun profumo.
Furono vane le tue malattie
e le tante ore dolci di quei dì
con gli amici e Fanny nel giardino?
Non ci sono usignoli sul pruno,
la luce del sud sarà la luce estrema
– sorte migliore non spero per me.
(da Narcis Comadira)
La carta delle arance
e con ardente affetto il sole aspetta
Dante, Par., XXIII 8
Quella carta velina variopinta,
frusciante tra le dita
di chi la distendeva, la stirava con cura,
specie negli angoli, per innalzare
sotto i nostri occhi un fragile cilindro,
una precaria torre e poi incendiarla
con uno zolfanello, sulla cima;
e noi che aspettavamo intenti
di vederlo, quel sole di Sicilia
stampato sulla carta, sollevarsi
dal piatto con scrollo leggero
tramutantesi poi in volo tremulo –
Ma più saliva più si consumava,
e, rimasto un istante sospeso nell’aria,
ecco un pezzo di sole annerito,
un frammento di torre in fiamme
ricadere sul piatto;
e allora, mentre ancora volteggiavano
sopra di noi coriandoli di carta strinata,
anche senza più fame
chiedevo un’altra arancia da sbucciare,
imploravo di rifarlo, ripeterlo,
quel gioco col fuoco.
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Pietro De Marchi, (Seregno,1958) è autore di due libri di versi, Parabole smorzate (Bellinzona, Casagrande, 1999, con prefazione di Giorgio Orelli) e Replica (ivi, 2006, Premio Schiller 2007), e di una raccolta di racconti, anch’essa edita da Casagrande: Ritratti levati dall’ombra (2013). Suoi testi in versi e in prosa sono stati tradotti e pubblicati in volume in tedesco e inglese.
Con “La carta delle arance” ha vinto il Premio Gottfried Keller 2016 dotato di 25’000 franchi svizzeri.
Quel gioco col fuoco – fatto di nulla, d’aria e di colori -come il riflesso della parola poetica sul vissuto, anche meno consistente eppure prezioso…è strano incontrare in questi incroci così roboanti dei segni del vissuto di vento dei ragazzi dopo la scuola…