Conversazione con Maurizio Cucchi

cucchiA cura di
Luigia Sorrentino
Roma, 28 novembre 2016

Il penitente di Pryp’jat (2015) è la prosa poetica dell’ultima sezione dell’Oscar Mondadori di Maurizio Cucchi intitolata Antiche, rare, inedite. Il volume, pubblicato nel 2016, raccoglie, in una nuova edizione accresciuta e aggiornata, le poesie dal 1963 al 2015. Più di cinquant’anni di poesia si chiudono con un testo a metà fra prosa e poesia, un componimento che però s’inserisce a pieno titolo nell’Opera in Versi di Maurizio Cucchi.

Luigia Sorrentino.  Il penitente di Pryp’jat in qualche maniera ci riporta indietro nel tempo, alla sua prima opera, Il disperso (1976). Anzi sembrerebbe voler dire di più …. è come se ci fosse un grado di parentela fra il penitente e il disperso…

Maurizio Cucchi. Per essere sincero, non ci avevo proprio pensato. Credo di aver sparso personaggi vari un po’ ovunque, in quello che ho scritto. In realtà, poi, il penitente è un fantasma, e non sarebbe neanche a Pryp’jat, ma in una cittadina dell’attuale Ucraina, Ovruch, dove dicono si aggiri dietro una chiesa e compaia ogni tanto, probabilmente per effetto delle radiazioni di Chernobyl. Ovruch è il luogo di nascita di un mio antenato del Settecento, Stefano Ittar, un grande architetto. E allora, vedendo la vicinanza Ovruch – Chernobyl (e quindi Pryp’jat, la città costruita nel ’70 per maestranze e tecnici della centrale nucleare)mi sono documentato sul disastro e mi sono appassionato alla strenua lotta per sopravvivere di chi era tornato nei propri luoghi, che erano quelli della radiazione. Ma qui il discorso si farebbe troppo lungo …

Luigia Sorrentino. Sappiamo che Il disperso è un soggetto senza identità: non ha un’età definita, non parla una lingua precisa, non è una sola persona, a volte ha una voce femminile, altre volte maschile, in certi casi si esprime con la voce di un bambino. Una delle poesie più importanti in assoluto della sua produzione poetica è Coincidenze l’ultima de Il disperso. In questa poesia vediamo trasformarsi un personaggio in un altro, poi in un altro e poi in un altro ancora, fino a diventare una controfigura del soggetto scrivente, o un bambino. La poesia si conclude così: “Addio / caro adorabile piccolo tanghero ipocrita”. Siamo di fronte allo stesso bambino che si trova “Nel cortile delle giovani mamme” di Malaspina (2013), lo stesso bambino che abbiano trovato nel “cortile di pietra” di Pryp’jat, su un territorio di confine?

disperso

Prima Edizione del 1976

Maurizio Cucchi. No, appunto, sono soggetti senza identità, che si realizzano come nei meccanismi onirici attraverso combinazioni, sovrapposizioni, coincidenze varie. Tengo molto a distinguere la realtà biografica da quella del testo. Le giovani mamme degli anni Quaranta (io penso ai secondi anni Quaranta) erano le ragazze che uscivano dalla guerra con nuove aperture e speranze, con figli che avrebbero potuto mettersi alle spalle tanti orrori, che non ne avrebbero avuto esperienza personale.

Luigia Sorrentino. Il disperso (1976) è di sicuro quel personaggio che in Vite pulviscolari (2009) si trasforma in materia allo stato puro, una condizione ritrovata anche ne La maschera ritratto (2011) dove ad andarsene è un personaggio femminile e infatti lei scrive: “Se ne è andata così, all’oscuro di tutto. / Come sempre, come ognuno di noi”, riprendendo due suoi versi messi in epigrafe alla poesia che ha per titolo “Il bacio della buonanotte” in Vite pulviscolari , un’opera in cui nuovamente il protagonista si ricollega a un’identità femminile… Forse in questi due versi, che poi sono anche una sorta di conclusione e di sintesi, lei pone la questione dell’impossibilità di conoscere profondamente la nostra natura umana, chi siamo veramente, da dove veniamo, quale sarà il nostro destino. Un tema che ritorna anche nel suo libro in prosa: L’indifferenza dell’assassino (2012).  Qual è il collegamento con Il penitente di Pryp’jat?

Maurizio Cucchi. Sì, dalla condizione di ignoranza dei propri stessi dati personali, persinio anagrafici, volevo decisamente passare alla beffa di dovercene andare senza aver avuto le informazioni minime su ciò che siamo dentro l’universo, su ciò che regola l’immensa economia dell’universo. Quanto al nostro destino, non ne avremo alcun altro rispetto a quello che sappiamo. Destino è una parola che sopravvaluta la nostra povera e bellissima condizione. Nel penitente ciò che più mi interessa, come dicevo, è la conquista attimo per attimo dell’esserci, dando così a ogni attimo un senso. Un senso umano, naturalmente; che è poco. Ma altro non ci è dato avere.

Luigia Sorrentino. Sembra quindi che il motivo portante di tutta la sua opera in versi – ma anche di quella in prosa – sia contenuto nel germe della sua opera prima, ed è come se, in tutto ciò che lei ha scritto dopo Il disperso, ci sia stata la necessità di ricostruire con un procedimento di genere poetico e narrativo, la personalità e l’identità di tutti quei personaggi intravisti ne Il disperso… forse per restituire a ognuno di quei volti pienamente la loro natura umana e terrena?

disperso

Seconda Edizione del 2004

Maurizio Cucchi. Il disperso è all’origine perché di lì tutto parte, per me, cronologicamente. Ma il seguito mi ha portato su strade molto diverse. Siamo nel mondo e nella storia, e ne subiamo i mutamenti mutando noi stessi senza neppure volerlo o saperlo.
I personaggi che ho introdotto, come dicevo, sono figuranti che spesso cambiano il loro costume e la loro identità, che è sempre cangiante. Ma per quanto possa mutare, l’importanza delle differenze di identità è sempre minima, irrilevante anche solo all’interno della società umana.

Luigia Sorrentino. Il penitente di Pryp’jat è un testo che appartiene alla seconda fase della sua scrittura iniziata con la pubblicazione di Vite pulviscolari nel 2009. E’ da quel momento che nella sua poesia entra il ramo materno attraverso il recupero dell’elemento temporale dell’infanzia. Ma se in Malaspina (del 2013) il cortile di cui lei ci aveva parlato era quello delle giovani mamme qui, Il penitente di Pryp’jat ci conduce in un altro cortile, quello del collegio dei padri Salesiani e alle vacanze trascorse dal protagonista con la famiglia a Miramare di Rimini di cui lei ci ha riferito anche nel romanzo La maschera ritratto del 2011.
Qual è la differenza emotiva che il suo protagonista incontra nel cortile delle mamme di cui ci ha riferito in Malaspina e il cortile dei Padri Salesiani di cui ci riferisce ne Il penitente di Pryp’jat ?

Maurizio Cucchi. Sinceramente non vedo precise scansioni temporali o fasi in quello che ho scritto. Ho sempre pensato a un naturale svolgersi delle cose, delle esperienze e dei linguaggi. In ogni caso il passare degli anni ci spinge sempre più all’indietro, con una connotazione affettiva nei confronti del nostro vissuto remoto che mescola e rende simili le diverse situazioni che si sono depositate nelle nostra mente sotto forma di ricordi, e che preleviamo con il fondamentale diritto di reinventarne i dettagli.

Luigia Sorrentino. La mancanza dell’identità dei suoi protagonisti l’ ha portata sempre a indagare in altre direzioni alla ricerca di una definizione dell’identità… Ad esempio tornando a “Malaspina” c’è l’idea dello “scavare” nel passato che però urta contro la consapevolezza e il convincimento che l’unico tempo che davvero ci appartiene è il presente. Perché solo il presente?

9788804642824_0_0_1561_80Maurizio Cucchi. Il presente in quanto contiene, come mi sembra di aver scritto, tutto il passato. E non solo il nostro, di passato. Non solo, cioè, quello che abbiamo vissuto. Ma il passato di chi è stato prima di noi, il passato remotissimo in cui già si muovevano, in altri esseri, elementi che hanno condotto alla nostra, pur insignificante, esistenza. Penso al gene egoista di Dawkins, che, fuso con altri geni, passa intatto nei secoli e nelle generazioni e arriva in noi, in me, che altro non siamo, non sono, che meccanismi per la sua sopravvivenza. Ma la meraviglia è proprio il constatare, pur senza saperne realmente nulla, che tutta la vicenda ci ha portato qui, al presente che passa.
Luigia Sorrentino. Ritornando a Pryp’jat che però ci riporta a un tempo passato, dobbiamo dire che siamo in una città dove anche il ragazzo è un fantasma, metafora di un’esistenza spietata e irriducibile?

Maurizio Cucchi. Spietata e irriducibile, forse. Ma non solo e non tanto. Come dicevo, il valore che attraversa queste esistenze è nella quotidiana minuzia del resistere, del conquistare la propria sopravvivenza. E allora, paradossalmente forse, sopravvivere diventa di più che semplicemente vivere.

Luigia Sorrentino. L’incipit de Il penitente di Pryp’jat ci indica il luogo, ma anche la condizione esistenziale e terrena dell’io narrante: “Il campo era un immenso cortile di pietra”. E pietrificata e dura, sarà tutta esperienza che farà questo giovane protagonista. Il ragazzo gioca in un campo che però non è il luogo adatto a correre, a dribblare, a calciare la palla. Non è un campo di morbida erba, ma un cortile di dura pietra. Diverse e differenti le “partite”, le “partenze”, che si inscrivono in una o più esperienze crudeli vissute dal protagonista. In esse l’io si impantana e cade due volte: “Avevo nove anni”, scrive il poeta, “ma solo per poco” a sottolineare l’inizio di una condizione di vita difficile, di infanzia negata. Quale cammino farà questo giovane ragazzo? Quali partite si giocheranno?

Maurizio Cucchi. Non sappiamo quale cammino farà, e in fondo poco importa. I diversi svolgimenti dell’esistere contano molto meno delle singole situazioni in cui il soggetto vivente sarà immerso. Tanto, poi, il traguardo è sempre lo stesso. Il campo di quel ragazzo era quello, era di pietra, era improprio, ma era pur sempre un campo. Ma in un campo di pietra non ci si può impantanare. A meno che la logica onirica non ci venga incontro con i suoi meccanismi abnormi.

Luigia Sorrentino. In quel campo l’adolescente è già “contaminato” dalla poesia e dall’assenza di Dio, e, attraverso le preghiere dei Salesiani, ricostruisce, da “abile solfeggiatore” e da neofita, il senso di precarietà, dell’ inadeguatezza, reale, partecipata dal ragazzo, fin dalla primissima infanzia: “Solo con l’udito si crede”, “con le mani nel mondo”, a contatto con una materia abrasiva, che si tocca, il mondo degli oggetti, che sopravvivono alla nostra stessa vita… E’ così?

maurizio-cucchi-1-jpg-img-dettaglioMaurizio Cucchi. Anche qui prosegue il bizzarro cammino di una logica onirica. Scriverò una poesia sul privilegio del neofita, perché il neofita gode anche del conforto di un futuro in cui credere. Ho citato quei pezzi della liturgia latina perché mi sembrano poesia bellissima, e insieme possibilità di comunicare in un modo diverso. Non sono credente, ma da quando, bambino, ho sentito parole come se dat suis manibus mi è sempre parsa un’immagine bellissima. Un’immagine che ci rende orgogliosi di esserci occupati di poesia.

Luigia Sorrentino. A Pryp’jat, come ne “La maschera ritratto”, già citata, il protagonista si rintraccia su un territorio di confine: “Pryp’jat” è infatti la città fantasma, ridotta in macerie, dalla quale vorrebbe, istintivamente, fuggire spostandosi “altrove”, alla ricerca di una nuova condizione esistenziale: “Chissà se la via per Ovruch è libera”, si chiede, iterando il trauma, il terrore, l’inibizione cronica che spinge il protagonista sempre in un’altra direzione.

Maurizio Cucchi. Ma anche qui torna l’immagine del lontanissimo grand’uomo dal quale mi sento protetto, e che da Ovruch prese la via del sud, dell’Italia, di Roma e Catania, per compiere ciò che aveva in animo di compiere. E il Pryp’jat è anche un fiume che va, eppure ci sono le paludi di Pryp’jat, proprio a nord di Ovruch. Per me sono ancora terre misteriose, che consentono l’idea dell’inoltrarsi. Ci dovrò andare…

Luigia Sorrentino. E ancora, “Pryp’jat” la città più vicina a Chernobyl, offre al lettore il particolare: un fatto di cronaca coincide con la “contaminazione” del bambino con la poesia. Ecco dunque che il disastro provocato dall’esplosione del reattore della centrale nucleare, si trasforma in un sedimento antico, in una memoria genetica, che spinge l’autore più indietro nel tempo, fino a raggiungere le tracce di un antenato del Settecento, Stefano Ittar, architetto famoso anche in Italia, che muore a Malta. Chi è Stefano Ittar? Come entra nella sua poesia?

Maurizio Cucchi. Ferma restando la distanza tra storia personale e scritto letterario, il personaggio, come il figlio Sebastiano (che realizzò la prima pianta della città di Catania), è entrata nella mia vita quando, dopo alcune ricerche, ho saputo che era antenato di mia madre (suo padre aggiungeva Ittar al proprio cognome, quando si firmava). La quale non lo ha mai saputo (appunto: restando all’oscuro di tutto). Di qui, il passo è stato naturale e breve.

Da: IL PENITENTE DI PRYP’JAT
di Maurizio Cucchi

Il campo era un immenso cortile di pietra.
Su quello stesso campo, insieme, si giocavano cento partite diverse, ma per tutti, ormai, era cosa normale.
Dell’Acqua, però, giocatore di un’altra partita, calciò con un ghigno vile lontano il mio pallone e io cadevo vicino alle colonne dov’erano i portieri.
Mi trovai per la prima volta senza timore a dribblare coi grandi sulla spiaggia a Miramare. Avevo nove anni in quel momento. Ma fu solo per poco.
Mi rialzai, ancora stordito, sui bolognini dei salesiani, e cadendo una seconda volta, finivo chissà come in una specie di pozza fangosa.
Vedevo lì attorno, ormai corrosi e arrugginiti tra le foglie i cassoni dell’autoscontro, e più in là, su un cartello di legno issato in mezzo alla palude, la scritta Prypiat. Ma non capivo. Così, ho tirato fuori quel poco di latino, io, per farmi capire:

latens deitas,
quae sub his figuris, vere latitas

Visus, tactus, gustus, in te fállitur,
Sed audítu solo tuto créditur.
Et in mundo conversatus.
Se dat suis manibus.

Ho chiesto allora la via
per la città fantasma a un fantasma di prete
che mi ha detto “Ci sei!”, poi è scappato.
Chissà, pensavo, se la strada per Ovruch è già libera,
chissà se sono stati anche laggiù, contaminati
dalla nube micidiale del reattore scoperchiato.
Chissà se qualcuno ha memoria di lui, dell’architetto
che scese e vide il Borromini e fece, fece dopo il terremoto
fino a morire a Malta.
E mi sono ritrovato qui, seduto a solfeggiare,
la mano a ombrello con la gioia e la passione
ingenua del neofita.

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