Vivian Lamarque, “Madre d’inverno”

vivian_madredi Fabrizio Fantoni

Madre d’inverno” è stato considerato da più parti, il grande ritorno alla poesia di Vivian Lamarque. Sul punto non si può essere pienamente d’accordo, dal momento che anche la raccolta “Poesie per un gatto” (del 2007) ricopre un posto non secondario nella produzione poetica dell’autrice che non va disconosciuto.
Ma, al di là di tali considerazioni, non c’è dubbio che “Madre d’inverno” sia un’opera importante, un vero risultato, che conferma Vivian Lamarque come una delle voci più rilevanti della poesia contemporanea.

Il libro si segnala per la sua forte compattezza, tutto incentrato sul tema della “madre”, o meglio, della figura o idea di madre, che l’autrice affronta da diverse angolature ma sempre partendo da elementi concreti della quotidianità. Sin dai primi componimenti, infatti, Lamarque appare orientata dal dono di una naturale leggerezza del tocco che le consente di esprime il proprio legame con l’esperienza e con la concretezza dei dati – anche quelli meno rilevanti della realtà – che vengono sottratti all’opacità grazie ad un infallibile equilibrio linguistico che, nella sua plausibilità, non necessita di reticenze o astuzie letterarie.

Dopo una prima sezione, intitolata “Poesie ospedaliere” – in cui vengono ripercorsi gli ultimi istanti di vita della madre- seguono una serie di intensi componimenti in cui l’autrice, prendendo le mosse dal contatto vivo e diretto con le cose che la circondano ( i quadri, le fotografie e gli oggetti di tutti i giorni) o con elementi di un reale apparentemente inerte ed indifferente, instaura un postumo dialogo con la madre per riannodare il filo di un discorso interrotto e, soprattutto, per affidare quelle parole che non si è potuto o voluto pronunciare prima.

Da casa tua si usciva sempre tutti
a mani piene. È ancora così, scendo
le scale carica della tua casa da svuotare
un grumo di sangue alla volta, nodi
alla gola, come ti piaceva farti
saccheggiare.

P.S. e ancora mi dai: poesie su poesie
mi piovono dal tuo cielo, manna
di mamma.

Sono poesie contrassegnate da una commozione controllata, sempre smorzata da un’ironia amara che lascia il posto a improvvisi scarti e repentini cambiamenti di tono. Del resto, una vasta gamma di registri ha sempre caratterizzato la poesia di Lamarque sin dal suo libro di esordio, “Teresino” (1981), del quale Vittorio Sereni aveva sottolineato i “ repentini rovesciamenti di fronte per cui a volte due versi a chiusura di una cantilena quanto mai puerile arrivano imprevisti come una coltellata”.

Benedetta sia l’immensa burocrazia
che ancora dopo anni mi chiede dove
sei nata, compili qui, e io compilo lì
nata a Darfo Boario quello del fegato
centenario infatti il tuo era un fiore
un fegato bello come un fiore. Compili
nata il, nata l’uno dieci dodici
compilo il modello del gentile sportello
che mi chiede di te, e anche nel censimento
ti hanno riservata una casella mi chiedono
felicità, la tua nazionalità.

La perdita non è l’unica prospettiva dalla quale la figura materna viene affrontata.
Nella sezione “madre l’altra” l’autrice – partendo dal dato autobiografico della scoperta, compiuta all’età di diciannove anni, della sua adozione e dell’esistenza, quindi, di una madre naturale -si confronta con la differenza tra maternità e genitorialità. Otto componimenti che, per intensità e perfezione della lingua, possono essere considerati il vertice della poesia di Vivian Lamarque. In essi si ripercorre con ironia e pacificato distacco, il rapporto dell’autrice con la madre naturale improntato ad atteggiamenti formali ( “madre da visite in salotti” è definita in una poesai), freddezza e dolorose dimenticanze. Ma ciò che più interessa e sorprende è l’interrogativo che sottende a questi componimenti: Cos’è che rende una donna madre? Il solo atto di procreare? No di certo!

Madre – sembra suggerirci l’autrice – è colei che ci insegna a vivere, madre è colei che ci fa conoscere la differenza tra il bene e il male e, da ultimo, madre è colei che ci mostra come si abbandona la vita.

Comprendiamo, dunque, che il merito di questa raccolta poetica risiede nella capacità dell’autrice di riuscire, pur partendo da una verità autobiografica, a trasformare la figura materna in un’idea assoluta in grado di rappresentare il nostro entrare e uscire dalla vita e, insieme, l’intensità di ciò che scorre in mezzo a questi due momenti: la vita stessa, che Vivian Lamarque riesce a cogliere nelle sue pieghe più nascoste e inafferrabili.

Voglio concludere queste riflessioni con una poesia, tratta dalla sezione “Madre l’altra”, che può essere considerata come un manifesto della poesia dell’autrice:

Se vedete in un giardino le viole
divise in due per colore, tutte
le gialle di qua, e tutte le viola
di là, e se vedete una gialla una sola
finita per sbaglio di là, e se in tasca
avete per caso qualcosa
ripiantate nella sua giusta
aiuola quella spaesatissima viola,
si sta un po’ anzi tanto a disagio
di là.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *