Luca Ariano, “Ero altrove”

ariano

Luca Ariano (Mortara – PV 1979) vive e lavora a Parma. Di poesia ha pubblicato: Bagliori crepuscolari nel buio (1999), Bitume d’intorno (2005), Contratto a termine (2010) e Tracce nel fango (2011) oltre a testi presenti in antologia. Ha curato Vicino alle nubi sulla montagna crollata (Campanotto 2008) e Pro/Testo (Fara 2009). Nel 2012 per le Edizioni d’If è uscito il poemetto I Resistenti, scritto con Carmine De Falco, tra i vincitori del Premio Russo – Mazzacurati. Collabora a riviste e fa parte di Ultranovecento. Nel 2014 per Prospero Editore ha pubblicato l’e-book La Renault di Aldo Moro con una prefazione di Guido Mattia Gallerani. Nel 2015 per Dot.com.Press-Le Voci della Luna ha dato alle stampe Ero altrove dalla quale pubblichiamo alcune poesie.

Dalla sezione: Città perdute

“Se si insegnasse la bellezza alla gente
si fornirebbe un’arma contro la rassegnazione,
la paura e l’omertà.”

Peppino Impastato

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Un giorno di papaveri nei campi,
di pappi nell’aria di neve
e Anna – nome da partigiana Rosa –
non voleva essere una donna
della famiglia fascista:
balzando tra i castagni ha visto
montagne abbandonate e boschi
dimenticati anche dai funghi.
Non più cascine, solo agriturismi…
Buffalo Grill e Road House:
periferie come Togliattigrad
e puttane alle stazioni di servizio.
Fiulin s’è sporcato le scarpe di fango
senza un passo che consumi le suole
in un’epoca da Basso Evo
– senza esser stato Impero –
Teresa come in Georgia
e la nostalgia nei capelli:
l’odore delle margherite la domenica
si confonde tra crema e aroma.

***

Trivelle bucano la terra nel parco:
animali fuggiti dalle selve… api, farfalle…
Si raschia il barile tra sacchi di politene,
discariche di capibastone e la chiameranno
Petrol Valley… Business… Economy.
Non rimarrà nemmeno una goccia
per lavarsi dita luride: la rugiada scivolerà
nell’odore d’erba calpestata.
L’Enrico urlerà festante nel paese silente
dove contano le tasche tronfie, visi
ben truccati tra gru a squarciare travi.
Era un cimitero di campagna secoli fa:
si racconta di soldati francesi seppelliti
accanto ciminiere e tangenziali.
Le ragazze si abbrustoliscono al primo sole
di cosce e stivali all’aria e Teresa e Fiulin
tra scaffali Ikea e stanze d’arredare;
il sapore delle sere di maggio tra un the
in giardino e le campane domenicali
sfiorando il volto di luce.

***

L’Andrea quasi non dorme la notte
per una carezza saltata e amaro tra amici:
«A me il cinema a lui il sesso!»
Scendevano dalle valli a mostrare
nella fiera di primavera
formaggi, salumi, vacche e maiali pasciuti:
a volte trovavi un mago per bambini…
un alchimista di elisir;
Fiulin e Teresa in una locanda fine Ottocento
a menù fisso prima che il vento dei Balcani
scompigli le bancarelle.
Sono fuggiti per evitare rastrellamenti,
granai bruciati: tabernacoli per pregare
la fine della guerra.
L’Emilio lascerà la metropoli mentre spuntano
ciliegie e dal balcone non sente mai
rondini o il profumo di miele delle sere;
forse lo manderanno in una scuola di campagna
alle prime nebbie d’autunno.

***

Giovannino – Nino per gli amici,
ha cominciato cantando sdolcinato
in pizzerie di quartiere… matrimoni dei boss:
eletto al parlamento in un collegio blindato,
voti di scambio e spumante con Maria
Miss gambe lunghe depilate, col seno rigonfio
e una gabbia climatizzata per i canarini.
L’Emilio con le sue nevrosi da romanzo,
con la Pasionaria a carezzargli la testa.
Teresa e Fiulin tra le lapidi ai caduti immerdate
di piccioni e svastiche tra vie di condomìni,
palazzi neoclassici abbandonati… persiane marcite:
a pochi passi si sentivano le rane di sera,
un vento senza alberi sradica grondaie…
strade allagate di spiagge spianate da nuove stagioni.
***

Il dottor Saverio mai avrebbe fatto il medico:
uno studio avviato… il padre uno dei migliori…
l’hanno incastrato con una valigetta di soldi…
una Mercedes luccicante.
Era davvero bella – dicono – fino agli anni Settanta,
poi la droga… il terrorismo ma ancora perdersi
in banconi profumati di verdura,
pesce scaricato coi camion dalla costa.
Marceranno con la camicia cachi, saluti romani
pronti a bastonare all’occorrenza.
Guido – lo stesso nome del nonno partigiano,
suo padre vent’anni di galera per banda armata,
l’hanno intercettato con volantini a cinque punte
e un mitra da comunista combattente.
L’odore di temporale dalle campagne
prima che l’acqua tracimi fogne schiumanti
e Teresa nel volo d’un’altra stagione
che non tornerà in un fruscio di vento.

***

Chiese sconsacrate senza messa…
un parroco… si sgretoleranno
in un vento caldo tra nuovi minareti;
nelle alcove segrete si sussurra
d’un cardinale con la passione
per le ragazzine… di benedire soldi sporchi:
è morto nel suo letto ottuagenario
riverito fino all’ultimo.
Scendono i lupi a valle, ai bordi delle strade
si sente l’ululato che spaventa i bambini;
al passaggio delle truppe aragonesi
i contadini nascosero le forme nelle grotte
e ora è una prelibatezza DOP.
Teresa tra strade un tempo paese,
pasticcerie di quartiere con il profumo
ancora caldo, non lontano da un cimitero:
domani partirà mentre Fiulin
assapora pulenta pastissada
e pioggia velata che trasuda di stagione.

 

ero_altrove(postfazione)

di Salvatore Ritrovato

Un libro di poesia non dovrebbe chiedere un testo critico di accompagnamento o di presentazione, ma se un testo critico non può fare a meno di accompagnare un libro di poesia esso dovrebbe per educazione chiedere al lettore di essere saltato. “Ero altrove” di Luca Ariano merita l’attenzione di chi ha in mano questo libro senza che io o chicchessia si affatichi a dimostrarne il valore. Quando il lettore avrà sfogliato e letto la raccolta di Ariano, verrà con indulgenza a leggere questi appunti per comprenderne la ratio, di là dal cordiale invito dell’autore cui mi lega una stima profonda, consolidata da anni di sodalizio poetico e umano. Appunti, vorrei sottolineare, niente di più: che spero possano riuscire utili a chi si affezionerà a questo testo e ne vorrà cogliere il senso. Forse “senso” è una parola grossa, che però la poesia non può non esigere, e che Ariano ripone direttamente nella vita, nelle cose e nei fatti disparati che ne compongono un affresco unico e irripetibile, e che un poeta purtroppo poco noto in Italia, Salvador Espriu, ma caro ad Ariano (e a me, che grazie a lui l’ho conosciuto) definisce “il lento ricordo dei giorni / che sono passati per sempre”. Le poesie di Ariano mi hanno richiamato un certo ‘neorealismo’, in senso più cinematografico che letterario, nel quale cioè il senso della vita prendeva la forma delle vicende quotidiane, dei singoli destini degli italiani all’indomani della guerra: erano le storie di quell'”umile Italia” che da Virgilio a Dante a Parise ai nostri giorni ha ispirato scrittori e artisti, e che è stata frettolosamente dimenticata, o meglio rimossa, a partire dal boom. Ma Ariano non è un neorealista. Dietro questa etichetta che una certa educazione accademica mi spinge a usare, io sento il sentimento di una vita come azione, o meglio come libertà di azione, nella misura in cui
(per riprendere Gian Ruggero Manzoni, in epigrafe nella sezione “Morbi”) la lotta vale per la lotta, la vita per la vita, la morte per la morte, e il fare per il fare, e qui, appunto, si compie un incontro o uno scontro con l'”altro”. Non sarà facile incontrare Luca Ariano in queste poesie, e non perché egli non assuma il ruolo di soggetto poetico, ma semplicemente perché egli si pone come un regista dietro l’obiettivo della sua penna, la macchina da presa. Ma come nei migliori documentari, il regista non manca di far notare la sua ombra. Seguiamo, dunque, le vicende del professor Emilio e di Teresa, della nonna e del “fiulin” (nel quale Ariano proietta la sua infanzia), e fra l’altra ci si imbatte in Rosina, Andrea, Giggetto e in altri, e ci si chiede dove li abbiamo già incontrati, perché è evidente che sono vivi, e comunque hanno vissuto, non hanno niente di astratto o simbolico. L’autore mi ha assicurato che sono personaggi veri, in seguito romanzati, e occorre credergli; ma anche se non lo fossero sarebbero reali, prima che veri. Come nei migliori film neorealisti, dove gli attori, non professionisti, interpretavano personaggi reali, cioè se stessi. Quanto in quei film vi fosse di vero, o meglio di verosimile, si può discutere: quello che conta è la capacità del regista di cogliere i segni della storia nelle loro vicende, e di tradurli in un linguaggio artistico. Luca Ariano, con la sua telecamera in spalla, gira fra le vie, le piazze, i campi di una città italiana, fra gli argini di una pianura fluviale e i declivi collinari di un bel paese che non c’è più, e interroga i suoi personaggi, li segue, li pedina, li rincorre, li incalza, li interroga, e nei loro occhi legge il presente e coglie il passato, intravede a volte qualche indizio di futuro; e tuttavia non gli interessa nascondersi, ma lascia tracce della sua presenza in una scrittura sgranata, sporca, né cancella il suo respiro finito nel riverbero sonoro dell’audio che registra le voci dei personaggi. La nostra lettura è diventata un’operazione non neutra, ma in “situazione” dal momento che il poeta, che non viene meno alla sua missione intellettuale, non può fare a meno dell’uomo, del “primo uomo”. Pertanto, l’impressione è che Luca Ariano, come ogni buon documentarista, non ha paura di sbagliare immagine, gettando qualche verso imperfetto nella mischia di una realtà irriducibile a ogni teorema ideologico, scevra di qualsiasi secondo fine letterario, perché quel che gli interessa è il movimento complessivo dei destini ancora incompiuti dei suoi personaggi (che difatti nascono già dalla prima raccolta, “Contratto a termine”, 2010; e probabilmente continueranno a vivere dopo “Ero altrove”); ed è un’operazione autentica, la cui istanza, sostiene Ariano con parole del poeta catalano Gabriel Ferrater, risiede nel groviglio di angoscia che in fondo nutre o dovrebbe nutrire la letteratura (“Ben poca cosa è un poeta se non è in grado di comporre senza angosce…”), in coerente continuità con l’ultima convincente prova di poesia civile, in collaborazione con Carmine Defalco, “I resistenti” (2012). Per questo, e chiedo perdono al lettore, ho qualche difficoltà nel citare a pezzi, a brandelli una poesia di Ariano: non c’è un verso significativo su cui riflettere, che possa essere isolato da un contesto non o meno significativo. Ogni dettaglio è importante, e la poesia va letta dal primo all’ultimo verso, seguita passo passo come un corto (per continuare la metafora del cinema) che va visto dal primo all’ultimo fotogramma. A mo’ di esempio richiamo il primo testo, che, diversamente da un tipico esordio, sembra non aver nulla da svelare se non mettere in nuce, con modestia, nel suo breve orizzonte, il procedimento della scrittura poetica di Ariano. Leggiamolo:

Un giorno di papaveri nei campi,
di pappi nell’aria di neve
e Anna – nome da partigiana Rosa –
non voleva essere una donna
della famiglia fascista:
balzando tra i castagni ha visto
montagne abbandonate e boschi
dimenticati anche dai funghi.
Non più cascine, solo agriturismi…
Buffalo Grill e Road House:
periferie come Togliattigrad
e puttane alle stazioni di servizio.
Fiulin s’è sporcato le scarpe di fango
senza un passo che consumi le suole
in un’epoca da Basso Evo
– senza esser stato Impero –
Teresa come in Georgia
e la nostalgia nei capelli:
l’odore delle margherite la domenica
si confonde tra crema e aroma.

Non saprei dire se “Ero altrove” segna il passaggio a una maturità più consapevole, occorrerà vedere il prosieguo; senz’altro si può dire che essa guarda, come poche altre raccolte di così detti ‘giovani’ poeti che magari hanno maggiore risonanza, al Novecento pur avendo i piedi piantati saldamente nel nuovo millennio. Ammesso pure il valore ermeneutico di queste categorie meramente convenzionali della storia occidentale, io credo che la poesia di Ariano guardi in maniera effettuale, non ideologico, al presente, nel quale è inevitabile che coesistano, stratificandosi ed entrando spesso in confitto, più epoche della storia di una nazione che (da Stilicone ai Partigiani alla seconda repubblica) non ha mai cessato di chiamarsi Italia, prima ancora di esistere sul piano amministrativo. Guardare al presente è una delle operazioni più difficili, per un poeta, mi piace sottolinearlo: infatti, è alto il rischio di scivolare sulle parole, senza riuscire a mettere l’oggetto scrutato alla giusta distanza. Ma per fare questo Luca Ariano provvede ad alleggerire, per quanto possibile, il discorso, concentrandosi su nomi e verbi che, nella composizione delle diverse sequenze, ci restituiscono i fatti in una visione cruda, scabra, essenziale, ma non denaturata, né asettica. Non occorrono cornici per entrare nella prospettiva esistenziale del poeta, che anche quando sembra, almeno sulle soglie di qualche sezione (come “La Renault di Aldo Moro”), di portare il lettore su una pista precisa, verificabile, in verità non mira a interpretarne la dimensione politica, e a prendere posizione, ma a rilevarne i riflessi nella prospettiva etica dei suoi personaggi che vivono la storia dal margine, che se mai un giorno saranno famosi, lo dovranno non a una goffa esibizione mediatica, ma alla qualità intrinseca della loro vita. Luca Ariano non fa della poesia un portato del suo ‘impegno’, dietro il quale si scorge una dichiarazione politica, un manifesto, e così via; tutt’altro, Luca si dedica alla poesia come al solo linguaggio che può finalmente ribaltare i triti luoghi comuni sulla letteratura impegnata, ove non vi sia una lucida e strenua coscienza della nostra condizione esistenziale.

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