Stelvio Di Spigno, “Fermata del tempo”

Fermata-del-tempo CopertinaNota di Umberto Fiori

La musa di Di Spigno è – classicamente – figlia della memoria. Il suo sforzo è quello di frenare o addirittura di arrestare il flusso del tempo, di illuminarne una fermata, appunto, per chiarire un’identità che rischia di perdersi, travolta dal corso caotico e inconcludente dei giorni. L’io lirico non si astrae, non si sublima: è nell’ordinario della vita e degli affetti che cerca le proprie «radici sepolte». Ecco allora i nonni, le prozie, la madre, una Napoli intima, sobria, mai convenzionale, mai trasfigurata. Ambienti e personaggi si presterebbero a un gioco crepuscolare; ma qui non c’è gioco, non c’è ironia, non c’è compiacimento: c’è invece una dolentissima serietà, che fa pensare a volte allo Sbarbaro di Pianissimo, soprattutto alle poesie dedicate al padre e alla sorella. Come Sbarbaro, Di Spigno non bara, non ammanta di letterarietà il suo personale rovello; è capace di nominare le cose senza cercare di straniarle o di nobilitarle coi magheggi e coi fiocchi del “poetico”. Tutto il libro è percorso da una religiosità mai esibita, ma anche da una collera trattenuta: collera contro il mondo inautentico, la sciatta iniquità, la banalità, la falsità corrente (leggendo, pensavo che il cognome più appropriato per questo nuovo Stelvio sarebbe Di Sdegno). Ma la collera – per quanto sacrosanta – non riesce a prevalere: alla fine, la speranza si riaffaccia. Fermata del tempo è il racconto di un passaggio dall’adolescenza all’età matura, di una iniziazione al Vero (di Leopardi Di Spigno è stato ed è studioso) che schiva alla fine l’abisso del nichilismo. Il male di vivere è là, solido e trionfante, ma la poesia sa affrontarlo ad occhi asciutti, sa addirittura cantarlo.

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ESTRATTI

Da: “Fermata del tempo”, di Stelvio Di Spigno, Marcos y Marcos, 2015

 

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Contabilità infinita (Annum per annum)

 

Gli anni mi si siedono davanti.

Sui sandali, vestiti da padroni.

Parlano.

 

Ci hai portato a palazzo, ti abbiamo vaccinato,

come un pezzo d’avorio infarinato

di segale ferrigna e minestra di dolori,

e noi a farti da balia, perché non ti perdessi,

mentre tutto era contato, era meno di niente, e tu

squadernato di smanie, senza frutto, senza onore,

una scopa col manico di sale.

 

Hai vissuto in stratosfera, hai muggito

credendo a ogni fuoco castrato in desiderio,

e  il tuo tempo, smisurato, fu una fede

messa al dito per dispetto, l’hai pestato

nelle corse di notte, con le donne degli altri,

con le droghe e le toghe di cui si veste chi è doloso.

 

Ora vengono i treni pieni d’altri messi male:

l’odore di vergogna, il sudore del paesaggio,

cemento dentro e fuori, l’inferno incatenato

momento per momento. Dappertutto,

un diamante sfiorito nel suo osso.

 

Ecco cosa ripetono i miei anni.

 

Non posso rinfacciare. Non ringrazio, non ho vita

da opporre alla fatica. Solo che non duri

il silenzio di quanto mi ha scaldato. Che il teatro

non mi resti sulle spalle senza attori.

Che non debba mangiarla fino in fondo

l’ortica che ho piantato sui miei passi.

E che Dio, in eterno, mi perdoni.

***

 

Contagio

 

Grotte, spelonche, antri oscuri dove nascondersi

non è peccato né fa rumore. La città impetuosa,

la Napoli delle mille ore felici è lontana, perduta,

senza più sesso né bisogno. Nel luogo dove ora sono,

ancora serpeggia il vespro, il millantato

arpeggio di un’età senza angoscia. Ere geologiche

accelerano, l’uomo-anima non regge più e potrebbe

scoppiare, baccaneggiare, divampare,

con la dinamite dei pensieri e della felicità

facilmente consumata. Venite a me, fontane

dagli antichi chiarori, acque verdi di fosforo,

baccanali dei negozi chiusi all’alba. Fondiamoci

in questa immensità senza sorprese. Chissà

che domani non sia il nostro turno

di risorgere o lasciare per sempre

questo mondo a chi ha talento meno imberbe

per giorni capaci, sogni amici, fedeltà non

infrante, canzoni di risacca e solitudine

per sempre rimbeccate da una mano più lieve

di santità e d’amore,

nel mare abusato delle foglie morte, in novembre.

***

La bandiera di Vittorio

 

Da piccolo mi facevi vedere

la metà del cielo che è andata a riposare

nelle Americhe dei soldati partigiani,

quelli che vinsero la guerra per noi, poi

mi fischiettavi il silenzio militare, imparato

da giovane, e io mi addormentavo

come ogni bambino che si sente sicuro,

perché c’eri tu a fare da guardia; tenere lontano

gli incubi, poteva solo la tua grande mano,

che ha stretto 92 anni di vita e una sola morte,

arrivata nel tempo che a te più piaceva,

il 31 di luglio, quando si stava già da un mese

nell’adorata Gaeta. Ora io ti penso in mille

modi: il vuoto che hai lasciato è un oceano

di sangue e lacrime, e proprio non si asciuga,

e nemmeno potrebbe se anche lo volessi.

Cosa fa un morto accanto a un giovane?

Gli ricorda la strada da seguire, specie se come me

si perde, non fa testo, non riesce a vivere

di suo. E allora ecco che ricompari: ti metti

dentro, mi fai l’eco, ancora fischi motivetti cari,

giurandomi che sto vivendo, che ne vale la pena,

che oltretutto non c’è scelta, e io faccio ciò che vuoi,

mi stringo a te piangendo, scrivo una poesia,

prendo il cibo a cui tenevi tanto e lo riporto

più vicino alle mani, perché non si perda

neanche una parola, e il ricordo, anche se sacro,

mi faccia andare avanti con te come bandiera.

***

Elegia locale

 

La bella di Francia che scende

sul predellino del litorale celeste, incatenata

a questa scorza di Vindicio, che lo sguardo dei vecchi

vendica, con amara solitudine verbale in consultorio,

per la boria che hanno di mangiare, se potessero,

anche i cieli e i cherubini come a Sodoma,

a Napoli o a Kuala Lampur, nel fuoco di Indonesia.

Non passeggiate, non guarite

dallo sguardo materno, bambini-dèi sulla giostrina

di Caposele, sull’altalena dell’Olivella. Domani

toccherà a voi inanellarci a un altro predellino

dal quale scendere in preda a convulsioni

per il troppo sperare di essere presi al laccio

da tutta questa bellezza e farne parte, come il danaro

si fa presto a dire in banca, un faro scollinante

diventa subito giudizio, un’allodola

morta su una cabina non diventa che una tolda

da dove parte, in un tripudio di braccia e di campane,

il mio, il vostro, il di tutti un canto, il canto camminato,

sempre che non disdegni la nuvolaglia a raggiera

che il pomeriggio assale il golfo di Gaeta.

 

 ***

 

Galleria

 

Forse hai capito quale festa ti dà gioia,

se Ognissanti o Natale, mentre previeni

il vento ottuso del porto, con tutti

quei presepi di barche e budelli,

e fuori c’è l’aria secca dei palazzi, e sembra che il Vesuvio

bruci elettricità nell’atmosfera: un giorno

andammo con mio nonno a leggere le pietre

nella grande vasca della stazione,

e su di loro c’era un volto napoletano.

 

Città di fame immonda e solo da guardare: oggi

lavoro lontano, non posso vederti invecchiare,

hai un saluto per tutti nelle tue asole bollenti,

e passi in umiltà senza domandare

che i tuoi arrivi siano scaltri la sera, che si disfi

quella mole di infamia che ti fa nera, che una mano

infili nel fitto dei tuoi vicoli una riserva umana

di latte impiantato tra colli e caserme.

 

Ogni volta che hai pianto ti ho visto

perdere a dadi ogni verginità, e come

se fossi una madonna abbandonata

in una delle mille edicole di quartiere,

ho cercato la tua essenza da amare

dentro un barattolo di complimenti a ore,

sapresti regalarmi ancora un po’ di castità,

fermarti dove si passa dal diluvio alla sciagura,

essere in tempo per salvare ancora te

dalla tua storia e insieme prendermi e farmi

ancora tuo, come quando ero

uno dei tuoi fantasmi arroventati.

 

010Stelvio Di Spigno vive a Napoli dove è nato nel 1975. È laureato e addottorato in Letteratura Italiana presso l’Università “l’Orientale” di Napoli. Ha scritto articoli e saggi su Leopardi, Montale, Gadda, Pavese, Zanzotto, Claudia Ruggeri e sulla post-avanguardia poetica italiana, insieme alla monografia Le “Memorie della mia vita” di Giacomo Leopardi – Analisi psicologica cognitivo-comportamentale (L’Orientale Editrice, Napoli 2007). Ha collaborato all’annuario critico “I Limoni” con recensioni e note sotto la guida di Giuliano Manacorda. Per la poesia, ha pubblicato la silloge Il mattino della scelta in Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, Milano 2001), i volumi di versi Mattinale (Sometti, Mantova 2002, Premio Andes; 2a ed. accresciuta, Caramanica, Marina di Minturno 2006, Premio Calabria), Formazione del bianco, (Manni, Lecce 2007, finalista Premio Sandro Penna), La nudità (Pequod, Ancona 2010), Qualcosa di inabitato, con Carla Saracino (EDB, Milano 2013).

 
 

 

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