Monica Martinelli, “L’abitudine degli occhi”

monica_martinellDalla Prefazione di Davide Rondoni

(…)

Non ho un’altra possibilità,
negato il desiderio di rigenerarmi.
Sazia di tempo e di forma
mi costringo a seguirti,
inutile calamita del cielo.

Sono tra i versi più duri e pieni di ottuso dolore che mi sia capitato di leggere. Monica Martinelli, creatura di modi gentili e di sorriso aperto, cela e custodisce in quella stanza anteriore in cui la poesia nasce mescolando tutto con tutto, qualcosa di duro, di fatale. È da là, da quella ferita o ramo di mandorlo amputato, che viene tale durezza di versi.

Nei quali il lettore che affronterà questo libro frenetico e violento, diseguale e sorprendente, può già cogliere anche altri aspetti dell’opera: la inclinazione a mettere in scena il proprio essere al mondo come teatro per tutti, e non per esibizionismo ma per stremata umiltà. Un po’ come capitava alla Amelia Rosselli o in altro modo e con esiti maggiori a Giovanna Sicari. Un “io” di donna apertissimo e affranto che diviene teatro del mondo. […] 

 

Fisica del quanto e del come

 

Apparenze di stelle si affacciano

su distese di galassie.

Mi specchio in loro,

infinitamente lontane

e in me, senza immensità.

Penso a Saturno,

ai suoi anelli di polvere e ghiaccio

cerchi inclinati fecondi

di vita e di tempo.

 

Costellazioni di pazienza,

nebulose si rincorrono nel tempo

e nello spazio dove la distanza

non è un percorso né un arrivo,

inesauribile andare senza reciprocità.

Ho la vertigine solo a pensarci,

brividi di stelle.

 

La luce penetra trasversale

e proietta l’ombra

obliqua del tuo corpo:

un dio greco di gesso – forse Saturno

a spezzare il desiderio

che è di questa terra.

 

Anni luce in ritardo

mi trovo addosso un’ansia di vivere

nel sapere che lassù c’è tutto quello

che non sapremo mai.

 

 

*

Pensieri in sommossa

si scuotono come ingredienti

in un tritatutto

 

e un tramonto di porpora e rame

si scioglie in scaglie di nuvole

 

un bambino distratto

calcia monetine

in angoli senza luce

 

così, tra distrazione e poca luce,

la vita è più facile

in caduta libera

 

 

*

un punto disposto in una retta

conquista spazio,

forma uno stupore.

Una riga che separa il vuoto

ci arresta.

 

Noi, infinitamente piccoli

e intanto soli.

Cellule amanti

in cui ha un senso l’arrivo

e non il riposo.

 

Note confuse in gesti di disordine.

E non ha nulla a che vedere coi ricordi.

 

 

 *

 

siamo impulsi elettrici

punti elettivi di gesti antichi

circuiti d’eccellenza

che a volte saltano

o s’interrompono.

Schiavi d’elettronica

di up e download in bella mostra

tra input d’occasione.

 

Non possiamo permetterci riposo

solo quando la macchina si spegne

i nervi perdono il posto:

da operai produttivi

a disoccupati,

il solito spreco di forza lavoro.

 

 *

 

 

dici che non faccio chiarezza

dentro di me.

Ma non è perché sono cattiva,

è solo che non ho chiaro quante sono

le sillabe del mio nome,

perché non ricordo mai i sogni

e quanto poco dura l’inverno

con le sue giornate brevi

di luce e di tempo.

 

Quante cose accadono

di cui non ho chiarezza

imprevedibili e necessarie

come la musica e il dolore.

 

Se i relè delle certezze non funzionano

e il passaggio di corrente si interrompe

posso sempre sperare che una porta

si spalanchi all’improvviso

a sorprendermi dal buio.

 

Ma non è perché sono buona,

è solo perché ho occhi che bevono

troppe inutili illusioni.

 

 

*

 

due corpi sferici si sfidano nel cielo

uno di fronte all’altro

ognuno per sé, così distanti

eppure nello stesso ciclo.

 

Quando uno sorge

l’altro sparisce

scoccate le sue ore

e così sempre.

 

Anche noi terrestri

seguiamo analogo destino,

chi nasce poi muore

però non risorge.

 

Mentre un pallone

fa piangere o gioire

un giorno della settimana.

Anch’esso è un corpo sferico

e rotola inutilmente sulla terra.

 

 

*

 

mi dicono che la mia massa è un bosone

particella di Dio

che accelerata

si carica d’energia,

se la fisica non è destino

a portar via

ma un esatto mestiere.

 

Non voglio accelerarmi

ma rallentare;

la massa mi fa paura

e pesa, cerca spazio

ma io vorrei ridurre le pene,

lo sgomento di esserci

e non partecipare a ciò

che non comprendo

perché nessuno sa cosa.

 

Le tracce del bosone

un assoluto quasi nulla

a spiegarci perché siamo così:

esperimenti incompiuti

ospiti di altre molecole.

 

 *

 

vorrei restare sospesa in questo silenzio

attraversato da un vento

che mi rende più quieta

e disposta a lasciare

quest’arco di dolore

afferrato a respiro corto

come un valore

di cui andare fieri

o una bandiera

in cui riconoscersi.

 

La terra sembra inghiottita

da se stessa

mentre il cielo non delude

e mi strappa un sorriso.

 

Penso che siano schegge di stelle

e petali di begonia

a colorare

la follia dell’universo.

 


 

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