Carmen Gallo, “Paura degli occhi”


CARMEN_GalloPost-fazione
di
Domenico Arturo Ingenito

Paura degli occhi: o della composta gloria dell’accecamento

La poesia di Carmen Gallo si muove attraverso l’esperienza disarmante dello sguardo: “come svegliarsi nella luce intera” giunge alla fine di un percorso fatto di sensi troppo acuti perché la ricerca di senso non provochi ansia, danno e crollo. Il corpo, in quanto partecipe di questa capitolazione, è disarmato legno e testimonianza evanescente di quella caduta che “è rivendicazione silenziosa / di ogni cosa al di qua della visione”. Da qui l’anatomia dell’assenza e delle sue tracce nelle articolazioni degli organi di percezione. Perché l’assenza non è semplice condizione disforica, ma vero e proprio differimento dell’incomprensione.

L’ossessione della visione deriva da quell’aver troppo guardato che ha tramutato il mondo in oggetto senza referente, proiettato su una inconciliabile volontà metafisica; come l’oro delle icone che rimanda all’occhio null’altro che sé stesso e che nei testi di Carmen Gallo emerge inizialmente come “tu”, nel desiderio insistente di rappresentazione precisa. L’avvento del Tu è però promessa tradita sin dall’origine: come riflesso di eccessiva luce, esso sfuma lasciando l’io lirico nella camera iperbarica dell’attesa e della cecità, e poi nel buio di una fantasmagoria che lampeggia per pochi attimi prima di svanire. Questi versi sono solcati da un ritmo sincopato e cadenzato, una nenia ipnotica intercalata da una strozzatura che lascia pochissimo respiro alle sillabe finali, come retaggio vocalico di una malformazione cardiaca, un soffio al cuore. Un istmo sottile che, sebbene sia consapevole della “armonia delle sfere”, non può che aggrapparsi “al ricordo / dell’Orsa, cancellare sguardi / ammutolire salive”.

pauradegliocchi_cop.jpjSiamo nelle regioni della disarmonia, dove tutto è discorde, disatteso, disincontrato nelle membra che procedono come per ragionamenti a spanne “e a tendersi a raccogliere / solo i tempi imprecisi delle cose”. Teatro anatomico che lascia vibrare la sua dimensione organica per articolare, recuperare in immagine, una qualche forma dispersa di senso. Se è vero che

“l’ordine del giorno / resta quello di guardare”, a ciò si arriva dopo aver attraversato la durissima e lucida riflessione sulla paura stessa degli occhi e della loro condizione di eterno presente posto a testimoniare lo scarto tra le cose e i loro nomi, i volti e l’identità. La costellazione trasparente dell’orizzonte di questa raccolta, vero e proprio trattato sui circuiti dello sguardo, dispiega la composta gloria di un accecamento che si rifiuta di guardare alla realtà eppure, nelle conseguenze alienate di quel rifiuto, interroga e illumina le ragioni più profonde dell’esperire e del dire: “una domanda che scende dagli occhi / e non si riempie e non si svuota”.

 

Da “Paura degli occhi” di Carmen Gallo, Ed. L’Arcolaio, 2015

 

Come avere paura degli occhi
come sapere che tutte le bocche
professeranno il falso
e per prima la tua
dirà cose che non vuole
vedrà cose che non sa
ma il vero più del falso
resta nelle parole che non riconosco
perché non hanno la tua forma
la calce bianca dei tuoi sensi
deformati per l’occasione
parole annerite, scartavetrate
cercano rifugio tra le mie
ma non trovano
che una pace fatta di spilli
di mura che non tengono
di soldati che non parlano la tua lingua

*

Come abitare in un paese straniero
ogni notizia che giunga da te
abbatte aerei, rovina raccolti
costruisce mura intorno
a un cielo bucato

 

*

 

Ancora e di nuovo
trattenere a stento la pelle
tra pareti che cadono dall’alto
poi le linee scure, trame che non ricordo
avevano maglie troppo larghe
per ricucire le finestre
e giocare a battaglia navale fra le nuvole
perdevi sempre tu –
come ora, nella casa in disparte
dove non sono più giochi
i nostri finti suicidi
ci siamo finiti davvero
tra le luci di un altro

*

Camminare sull’acqua
senza mai guardare
i passi falsi, le foglie usate
l’orizzonte appena steso
salutare la folla che acclama
e distinguere tra due rive identiche
vene vertebre e vocali
sembrano tutte al loro posto
come prima, prima di cosa
prima che le separazioni
fossero festa nazionale
prima che fosse di moda
lasciare spazi tra i punti
e passeggiarci sopra
senza i tuoi occhi

*

Accumulare mani negli angoli
riempire lo spazio inospitale
pausa prima e dopo
per disperdere i pensieri
perché tutti insieme
avrebbero troppi denti

 

*

Barcollare sulle tue facce distese
inciampare nella tua fronte
farsi largo tra le voci
e chinarsi a raccogliere solo le mani più mature
lasciare le acerbe a macerare sugli occhi
chiusi, sempre chiusi
avanzare tra ciglia nere
aggrappandosi al ricordo
dell’Orsa, cancellare sguardi
ammutolire salive
e rimettere al loro posto le labbra cadute
gli zigomi divelti

 

*

 

Individuare uno ad uno
ogni grado di necessità
assegnare come un nome
una mappa affidabile di ogni tua
minuscola escoriazione

 

*

 

Chiamarsi in disparte a parlare
mettersi a contare gli anni
con gli occhi nascosti
nella curva di un braccio
aggrappato – uno spazio
non troppo verticale
per trovarsi e tenersi
le mani pronte al lancio
e sdraiarsi, l’uno accanto all’altro
e lasciare
solchi di calore nella terra

 

 

*

 

Per quanti passi
segue il carro
il peso di chi resta
tornare a capo spesso
a ridisegnare col gesso la strada

 

*

 

 

Quanto basta a specchiarsi e riaversi
senza più attendere il nome delle cose
legare al letto ciò che non ci sopravvive
con la bocca sulla bocca difendere
ciò che non detto pure esiste
ma poi arriva
l’elenco necessario delle cose che hai
e non t’importa più di perdere
ciò che muto non ti somiglia

 

 

*

 

Lo stretto e il necessario
attraversa lo spazio
tra l’impero e il suo contrario
l’insonnia gira intorno agli occhi
e si respira il sale
delle ferite da cicatrizzare
inclinare il piano del sacrificio
e in silenzio chiedere aiuto
nel varco delle braccia
nel vuoto delle braccia
farsi mare, e cancellare l’acqua

 

*

 

È arrivato il dono, il fuoco
il rosso
è arrivata la terra, la città
che non conosco
e dovrebbe essere facile
a questo punto
sistemarvi al centro
la trama visibile dei polsi
la schiena curva delle parole
e lasciare che gli occhi sentano
che la pelle infine veda
ma qualcosa ancora trema
e io resto immobile
a guardare la trama
che hai scelto per me
la sollevo e penso
scegli me
scegli me

___

 

Carmen Gallo vive a Napoli, dove insegna Letteratura inglese. Collabora con riviste letterarie e organizza incontri di poesia. Ha scritto articoli su John Donne, e traduce dall’inglese. Paura degli occhi è il suo primo libro di poesia.

 

 

 

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