Parallelismi, di Giampaolo Lai

 

       lai                                   

            Il correlazionismo

Uno degli argomenti del libro d’esordio di Quentin Meillassoux, After Finitude,[1] è il correlazionalismo. Il principio del correlazionalismo stabilisce che noi  abbiamo accesso unicamente alla correlazione fra pensiero e cose ma non a uno solo dei due termini considerato separatamente dall’altro. Ciò che è all’esterno della correlazione fra pensiero e essere non è conoscibile (solo immaginabile). I correlati del correlazionalismo sono: il linguaggio, l’intenzionalità, l’embodiment, l’incarnazione. Il correlazionalismo è il nemico, il bersaglio di Meillassoux, che il filosofo francese cerca di eliminare nella sua object oriented philosophy, che poi è una filosofia materialistica orientata sull’oggetto, nella corrente dello speculative realism, realismo speculativo.

            Il panteismo

            In tutt’altro versante, alcuni poeti hanno cercato di risolvere il medesimo problema del correlazionalismo con l’accesso al panteismo, ovvero al modo di vedere che considera unica e vivente la totalità delle cose identificando la divinità con il mondo, e nel panismo, ovvero nella partecipazione dell’essere umano alla natura e al mondo concepiti panteisticamente. Prendiamo come due esempi Snow man[2] e La pioggia nel pineto[3].  

One must have a mind of winter

To regard the frost and the boughs

Of the pine-trees crusted

 with snow.

And have been cold a long time

To behold the junipers shagged with ice

The spruces rough in the distant glitter

Of the January sun; and not to think

Of any misery in the sound of the wind

In the sound of a few leaves,

Which is the sound of the land

Full of the same wind

That is blowing in the same bare place

For the listener, who listens in the snow

And, nothing himself, behold

Nothing that is not there and nothing that is.

 

            Uno dovrebbe avere un pensiero d’inverno 

            per guardare il ghiaccio e i rami 

            del pino coperti di neve 

            e aver avuto freddo per tanto tempo

            per guardare i ginepri penetrati dal ghiaccio  

            gli abeti scabri nel distante luccichio

            del sole di gennaio; e non pensare

            a nessuna miseria nel suono del vento

            nel suono di alcune foglie,

            che è il suono della terra

            piena dello stesso vento 

            che sta soffiando nel medesimo nudo luogo 

            per l’ascoltatore che ascolta nella neve,

            e, niente egli stesso, guarda

            niente che non sia là e niente che sia.

 

            Nel poema di Wallace Stevens, scritto nel 1921, potremmo distinguere tre momenti o passaggi di un itinerario quanto al rapporto del pensiero con gli oggetti del mondo, dal realismo di chi guarda e ascolta gli oggetti del mondo, alla fusione con gli stessi oggetti, alla perdita nel nulla del pensiero e dell’essere. Nel primo, seguiamo un personaggio anonimo, one, che si fa natura nella metamorfosi di sé stesso diventando frammenti della natura che guarda, inverno, ghiaccio, rami, alberi, vento, foglie, terra, neve. Nel secondo passo della metamorfosi, dopo aver rinunciato al suo pensiero e al ricordo delle sue passioni, rinuncia addirittura a sé stesso, diventando niente: nothing himself. Proprio in questo passaggio riesce a vedere, a intravedere, nient’altro che quello che c’è, nothing that is not there. Ma è un passaggio che dura un istante, perché dopo aver visto nient’altro che quello che c’è, vede il nulla, il niente che è, nothing that is. È lo scotto pagato allo spasimo di farsi pensiero d’inverno, di pensare con il pensiero delle cose, con un pensiero da inverno, un pensiero delle cose, della natura: One must have a mind of winter.

            Un tragitto simile, ma che arriva a una conclusione differente, è percorso da Gabriele D’Annunzio nel 1902, una ventina di anni prima di Stevens, con La pioggia nel pineto, dove però la fusione dell’oggetto umano con l’oggetto natura si ferma, e si perde, nella seconda fase, quella del diventare una sola entità da parte dell’oggetto umano, della “creatura terrestre”, con la terra, la natura, a formare un ibrido gioioso tra le creature terrestri e le creature silvestri, senza arrivare però al desolato niente, per via del pensiero che non vede altro che natura, essendosi fatto pensiero da inverno, di natura. 

            E immersi
            noi siam nello spirto
            silvestre,
            d’arborea vita viventi;
            e il tuo volto ebro
            è molle di pioggia
            come una foglia,
            e le tue chiome
            auliscono come
            le chiare ginestre,
            o creatura terrestre
            che hai nome
            Ermione.

            ****

            Piove su le tue ciglia nere

            Sì che par che tu pianga

            Ma di piacere; non bianca

            Ma quasi fatta virente,

            par da scorza tu esca.

            E tutta la vita è in noi fresca

            aulente,

            e il cuor nel petto è come pèsca

            intatta,

            tra le palpebre gli occhi

            son come polle tra l’erbe,

            i denti negli alveoli

            son come mandorle acerbe.

 

            L’ancestralità

            Un secondo argomento del libro di Meillassoux è quello di ancestralità, che sta a significare la condizione di antenati, di avere antenati, che ci sono antenati, agli esseri umani pensanti attuali nel mondo, con i loro fossili, ma anche di esseri non pensanti animali e minerali che nel mondo erano presenti, ancestri, antenati, ben da prima che le creature pensanti venissero a abitare il mondo. Nella sua critica a Meillassoux, Graham Harman [4] sostiene che, quando i cosmologi ci dicono che l’universo ha avuto origine 13.5 bilioni di anni fa, essi non vogliono dire  ‘13.5 bilioni di anni fa per noi’, ma proprio alla lettera ‘13.5 bilioni di anni fa’, molto prima che la vita cosciente esistesse, e quindi in un tempo in cui non c’era una cosa come un correlato. Meillassoux, che ha coniato il termine ‘ancestralità’ per indicare la realtà che anticipa il correlato, più tardi espande questo neologismo al termine di ‘dia-cronicità’, per riferirsi a eventi che esisteranno dopo l’estinzione degli esseri umani, non diversamente da quelli che si sono manifestati prima che noi esistessimo. Ma questa affermazione degli scienziati, che parlano di oggetti esistenti prima e dopo dell’avvento del pensiero, non aiuta il filosofo a risolvere il problema del correlazionalismo, cioè del fatto che non si riesce a separare pensiero e cose. Infatti quando un filosofo parla di un mondo prima e dopo gli esseri pensati, al momento stesso in cui lo pensa stabilisce una correlazione tra pensiero e cose: il mondo in questione al quale il filosofo pensa, per questo stesso fatto di essere pensato, è un oggetto di pensiero, non un oggetto alla lettera.

            Due poetesse contemporanee echeggiano nei loro versi i pensieri della ancestralità e del correlazionalismo, Jorie Graham [5], con il suo poema del 2008 Sea change [6], e Juliana Spahr [7], con il suo lungo poema Gentle now, Dont’ Add to Heartache[8], del 2005.

…the
great sands behind there, the pharaohs, the millennia of carefully prepared
and buried
bodies, the ceremony and the weeping for them, all
back there, lamentations, libations, earth full of bodies everywhere, our bodies,
some still full of incense, the sweet burnt
offerings, the still-rising festival out — cryings — we will
inherit
from it all
nothing — our ships will still go,
after the ritual killing to make the wind listen,
out to sea as if they were going to a new place,
forgetting they must come home yet again ashamed
no matter where they have been

 

… le

grandi sabbie là dietro, i faraoni, i millenni di preparati con cura

e bruciati

corpi, la cerimonia e il pianto per loro, tutti

là dietro, lamenti, libagioni, terra piena di corpi da ogni parte, nostri

corpi,

alcuni ancora pieni di incenso, le dolci bruciate

offerte, le risorgenti festività – pianti – noi

erediteremo

da tutto questo

niente – le nostre navi continueranno a andare

dopo l’omicidio rituale per obbligare i venti a ascoltare,

sul mare come se andassero verso un nuovo luogo,

dimenticando che torneranno a casa ancora con la vergogna

indipendentemente da dove sono stati.

 

                        Il titolo della raccolta di versi di Jorie Graham, Sea change, è stato preso da The Tempest di Shakespeare, là dove Ariel cerca a suo modo di confortare Ferdinando che ha perduto il padre in fondo al mare [9].

 

Full fathom five thy father lies.

Of his bones are coral made.

Those are pearls that were his eyes.

Nothing of him that doth fade,

But does suffer a sea-change

Into something rich and strange.

Sea-nymphs hourly ring his knell.

 

Tuo padre giace cinque buone braccia in fondo

Le sue ossa sono diventate corallo.

Quelli che erano i suoi occhi sono perle.

Niente di lui sbiadisce,

Ma patisce un cambiamento prodotto dal mare

In qualcosa di ricco e strano.

Le ninfe del mare suonano ogni ora i suoi rintocchi funebri.

 

La metamorfosi, di chi ascolta, in rami di pino, in ginepro, in ghiaccio, in neve, fino all’accesso dei pensieri che a modo suo ha l’inverno (The snow man), e del poeta e della creatura terrestre nelle foglie e nelle ginestre e nelle mandorle e nell’acqua (La pioggia nel pineto), si ritrovano in una sovrapponibile metamorfosi prodotta dal mare che trasforma le ossa in coralli e gli occhi in perle e tutto in qualcosa di più ricco, in una commistione strana dell’oggetto pensante e degli oggetti della natura, coralli, perle, mare, ninfe, che erano là ben prima che gli antenati umani dell’essere pensante arrivassero a abitare nella natura (The Tempest), mentre la medesima metamorfosi accompagna l’andare per mari e per millenni delle creature pensanti che diventano corpi bruciati dopo aver bruciato corpi, spinte dai venti che mescolano ceneri e sabbia senza eredità, ma colme di vergogna (Sea change). Più esplicitamente, Gentle now annoda il correlazionismo e l’ancestralità fin dai primi versi della I stanza. 

 

I stanza

We come into the world.

We come into the world and there it is.

The sun is there.

The brown of the river leading to the blue and the brown of the ocean is there.

Salmon and eels are there moving between the brown and the blue.

The green of the land is there.

Elders and youngers are there.

Fighting and possibility and love are there.

And we begin to breathe.

 

Veniamo al mondo.

Veniamo al mondo e il mondo c’è.

Il sole c’è.

Il nero del fiume che porta al blu e il nero

Dell’oceano è là.

Salmoni e anguille sono là che si muovono tra il nero e il blu.

Il verde della terra è là.

Quelli che sono arrivati prima e quelli che sono arrivati dopo sono là.

La lotta e la possibilità e l’amore sono là.

Cominciamo a respirare.

 

            All’inizio, nella Stanza I, c’è l’oggetto mondo che preesiste all’ingresso dell’oggetto pensante nel mondo: We come into the world and there it is. In questo verso si ritrova intero l’argomento della ancestralità di Meillassoux, (nato nel 1967, due anni prima di Juliana Spahr). Una volta entrato nel mondo, l’oggetto pensante comincia a muoversi e a respirare assieme a una moltitudine di altri oggetti colorati, che c’erano da prima, e che si muovono e respirano, assieme a lui, salmoni, anguille, fiumi, erbe, in una sorta di indifferenziazione (non di fusione) tra oggetto pensante e oggetti della natura. Nella Stanza II, l’oggetto pensante viene educato dall’oggetto natura: we put our heads together … And we began to learn the stream … We loved the stream …. And we were of the stream ... [‘Mettemmo le nostre teste assieme …, E cominciammo a imparare la corrente… Amammo la corrente… E facemmo parte della corrente…’] . Nella Stanza III, l’oggetto pensante racconta come l’apprendimento si sia svolto in aggregati di amore: This is where we learned love. E amano ogni minimo oggetto della natura. Imparano a amare le conchiglie di sabbia (sandshell), i frassini, the american bittern (‘tarabuso’, butor in francese, sorta di sparviero), la ventosa succhiatrice (harelip sucker), the yellow bullheaded (pesce-gatto, magnarone, testone), the beech (il faggio), il grande airone blu, the dobsonfly larva (le larve di un insetto mangereccio). E segue una lista di mezza pagina, con l’avvertenza: And this was just the beginning of the list”, fatta di nomi strani, non usuali, spesso doppi, accoppiati, con un senso non raramente pure doppio, come catfish, rabbitsfoot. Ma ormai abbiamo capito che la beatitudine condivisa durerà poco. Ecco infatti apparire nomi stridenti rispetto alle stanze precedenti: woody debris, muddy, fango, alluvioni, secchezza, e comincia l’implorazione della creatura pensante che prevede la catastrofe: Don’t add to heartache, non aggiungere dolori al mal di cuore, ripresa in una litania senza speranza. Arriva poi la Stanza IV a raccontare la metamorfosi dello stream, della corrente d’amore e di conoscenza e di condivisione, in una salmastra melma, fatta dei resti che gli oggetti pensanti vi hanno gettato dentro, sapendo e non sapendo ciò che facevano: And some of it unknowingly, Some of it knowingly: lattine di bevande, pacchetti di sigarette, applicatori rosa di assorbenti, contenitori di birra, plastica. We let in soda cans and we let in cigarette butts and we let in pink tampon applicators and we let in six pack of beer connectors and we let in various other pieces of plastic that would travel through the stream. We let chloride, magnesium, sulfate, manganese, iron, nitrite/nitrate, aluminium, suspended solids, zinc, phosphorus, fertilizers, animal wastes, oil, grease, dioxins, heavy metals. E alla fine hanno risolto il problema del correlazionalismo di Meillassoux annichilendo uno dei due poli su cui stava in piedi, l’oggetto natura, con il miraggio, forse non inconsapevole, della fine della natura[10]. Da qui scaturisce l’elegia[11], il lamento interminabile, il pianto, la disperazione per l’oggetto perduto per sempre, come nella Stanza V di Juliana Spahr.

I put my head together on a narrow pillow and talked with each
other all night long.

And I did not sing.

I did not sing otototoi; dark, all merged together, oi.

I did not sing groaning wounds.

I did not sing otototoi; dark, all merged together, oi.

I did not sing groaning wounds.

I did not sing o wo, wo, wo!

I did not sing I see, I see.

I did not sing wo, wo!

 

Misi la testa su uno stretto cuscino e parlammo assieme

per tutta la notte.

E non cantai.

Non cantai otototoi; nero, tutto confuso insieme, oi.

Non cantai lamentose ferite.

Non cantai otototoi; nero, tutto confuso insieme, oi.

Non cantai lamentose ferite.

Non cantai o wo, wo, wo!

Non cantai vedo, vedo.

Non cantai wo, wo!

 

            La vergogna e la colpa

 

                        I poeti che abbiamo messo in parallelo con il filosofo trattano tutti il medesimo problema, cioè il correlazionalismo, il legame tra il pensiero e le cose, tra l’oggetto pensante e l’oggetto natura, sullo sfondo della ancestralità, ovvero del passaggio da un prima a un poi, da chi arriva prima a chi sopravviene, che consente la metamorfosi dell’oggetto pensante e dell’oggetto natura in un superoggetto ibrido, un mostro ambiguo e contraddittorio, figlio dell’acqua e delle parole, delle mani e dei rami, degli occhi e delle sabbie. C’è un qualcosa, tuttavia, assente nei versi di Wallace Stevens e Gabriele D’Annunzio, che domina invece i versi di Jorie Graham e Juliana Spahr. È la vergogna e la colpa. Stevens dispiega tutto il proprio talento per avere accesso alla metamorfosi che trasformi il poeta, o l’ascoltatore che ascolta, in un pupazzo di neve. Si espone al gelo come un ginepro, alla neve come un pino, al vento come una foglia, e ascolta, ascolta, per cogliere da qualche parte i pensieri dell’inverno, finché diventa niente, annichilisce, in mezzo al niente che lo circonda. Così D’Annunzio, offre alle piogge[12], agli scrosci improvvisi, alle foglie gocciolanti della pineta, il volto e le ciglia della sua Ermione, e gli abiti di entrambi, e i malleoli, e i piedi bagnati alle erbe che li allacciano, nel tentativo mimetico di rendere i due amanti viventi di vita arborea, divenuti alberi, e bacche, e gocciole, senza perderci la vita, anzi, riuscendo gioiosamente nell’intento, sia pure soccorsi dalla finzione della favola bella. Ma sia in Stevens, sia in D’Annunzio, la loro vicenda si svolge e si esaurisce sulla superficie delle cose, osservate, ascoltate, toccate, nell’immediatezza degli oggetti sensoriali e degli oggetti pensanti in equilibrio senza prevaricazione tra di loro. Nei versi di Jorie Graham e di Juliana Spahr, c’è un eccesso di resto, il residuo ingombrante dell’oggetto pensante che con la sua colpa umana, con la sua vergogna umana, tinge di tanto umano il superoggetto ibrido, da far credere che veramente, dopo la fine della natura, ciò che resta è nothing but us[13], nient’altro che l’oggetto pensante che non riesce se non a piangere ululando su quanto ha contribuito a distruggere. La colpa e la vergogna si sono impossessate dell’elegia possibile, inaridendola, nei pochi decenni del secolo scorso, alimentate dalle disperate strida dell’esistenzialismo e delle religioni giudaica e cristiana, alle quali la psicoanalisi ha attinto a piene mani.

 

Epilogo o proemio

            Da tempo l’Accademia delle tecniche Conversazionali sta lavorando su un particolare oggetto, l’oggetto sensoriale di parola [14]. L’oggetto sensoriale di parola sta nello spazio che Jorie Graham, non senza ironia, ha chiamato[15] / gorgeous gap / between the mind and the world, ‘il sontuoso varco tra la mente e il mondo’, tra l’oggetto pensante e l’oggetto natura. Trovandosi in mezzo, viene tirato da una parte e dall’altra dalle intenzioni di oggetti pensanti adiacenti o dai campi gravitazionali degli oggetti di natura.  L’oggetto sensoriale di parola non è lo strumento psicologico o cognitivo che serve a conoscere il mondo o a esprimere la mente, ma un oggetto autonomo nel mondo. Non è un oggetto mentale, anche se gli accade di essere maneggiato come un utensile dagli oggetti mentali, né un correlato nelle vicende del correlazionismo, come pretende invece Meillassoux. È un oggetto sensoriale autonomo, per quanto gli sia possibile, che subisce spesso la metamorfosi in superoggetto sensoriale bizzarro. Il posto che gli hanno assegnato i poeti che abbiamo preso in considerazione dipende da come hanno cercato di risolvere il problema del correlazionalismo e della ancestralità. La soluzione proposta da Jorie Graham e da Juliana Spahr, un po’ sghemba sul modello della rivoluzione copernicana di Kant, pone l’oggetto sensoriale di parola a ridosso dell’oggetto pensante, e lo incarica di diffondere l’elegia della colpa e della vergogna accumulate nei millenni durante i quali gli oggetti pensanti hanno provato a impadronirsi del mondo, a dominarlo e a inquinarlo portandolo verso la distruzione e la fine. La soluzione di Gabriele D’Annunzio e di Wallace Stevens, e prima ancora di Ariel, ha portato l’oggetto di parola decisamente a ridosso dell’oggetto di natura, con le parole e le foglie che dicono parole mai udite prima, con le ossa che sono coralli e gli occhi perle, con l’ascoltatore umano che prova a pensare da inverno cercando di cogliere i sussulti dell’acqua mentre diventa ghiaccio o neve. Su questa strada abbiamo fatto alcuni passi seguendo l’idea che i pensieri pensati (o raccontati) da un oggetto pensante sono oggetti sensoriali tra gli altri oggetti sensoriali e tra altri oggetti di natura[16]. È più facile seguire, a volo d’uccello, questi nostri passi spesso maldestri, che tanto spesso inciampano su ostacoli prima mai visti, se li riferiamo per necessità di ragionamento allo scenario dei sogni. Allora, se diciamo che le immagini dei sogni sono il prodotto del’anima irrazionale o dell’inconscio, ripetiamo irrimediabilmente il corto circuito dell’oggetto pensante, avvolto nella solitudine del suo mondo sghembo nel quale, annichiliti gli oggetti di natura, veramente resta “nothing but us”, nient’altro che noi, che lui, astratti pensieri. Se invece diciamo che le immagini dei sogni sono oggetti sensoriali autonomi, arrivati nei sogni secondo modi e strade e ragioni loro congeniali, allora più facilmente riusciamo a lasciare spazio al superoggetto di parola, il quale, per essersi costruito ibrido nell’immediatezza del presente, meno facilmente si impiglia nella colpa e nella vergogna che hanno il loro seme nell’ancestralità.

 

*****


[1] Quentin Meillassoux, (2008), After Finitude. An Essay on the Necessity of Contingency, trans. Ray Brassier, London, Continuumm. [Quentin Meillassoux, (2006), Après la finitude. An Essai sur la Nécessité de la Contingence, Paris, Le Seuil, Coll. L’ordre philosophyque. Foreword by  Alain Badiou.]

[2] Wallace Stevens, (1921), “The Snow Man”, from The Collected Poems of Wallace Steven. Dalla sorgente originaria: Poetry magazin. http://www.poetryfoundation.org./poem/174502

[3] Gabriele D’Annunzio, (1902), La pioggia nel pineto, in Alcyone (1903), libro III delle ‘Laudi del Cielo – del Mare – della Terra e degli Eroi’. I Meridiani, Milano, Mondadori, 1984. 

[4] Graham Harman, ( 2011),  Meillassoux’s virtual future, Continent, 1.2: 78-91.

[5] Nata nel 1950.

[6] Jorie Graham, (2008), Sea Change, HarperCollin.

[7] Nata nel 1969.

[8] Pubblicato in origine su Tarpaulin Sky (http:www. Tarpaulinsky.com) vol. 3, Issue 2, summer 2005.

[9] William Shakespeare, The tempest, atto I, scena II.

[10] Bill McGibben, (1989), The End of Nature, New York, Random House. Nella medesima estate del 1989, che poi è l’anno della caduta del muro di Berlino, in qualche modo di un’altra fine, la fine del comunismo, appare un libro che sostiene una successiva fine, quella della storia, che non ci sarebbe più essendo venuta a mancare la tensione tra capitalismo e comunismo e l’ideologia della guerra fredda, come si narra in Francis Fukuyama (1989), The End of History?, The National Interest 6 (summer 1989).

[11] Margaret Ronda, (1913), Mourning and Melancholia in the Anthropocene, Post45, Peer Reviewed (06.10.13).

[12] Gabriele D’Annunzio (1902), La pioggia nel pineto,, op. cit. Nota dell’editore: Stando alle note dei taccuini piovve davvero spesso nell’estate del 1899. “Il cielo è ingombro; pioviggina … la pioggia discende su la verdura [2-8 luglio] … Su l’orizzonte marino pesano vapori color piombo … la pioggia scroscia d’improvviso [23-24 luglio] …”. “Ho composto alcune Laudi che sembrano veramente figlie delle acque … [7 luglio]”. “Molte Laudi ho composto imitando le acque e le foglie [13 agosto 1900]”. E nel poema, non c’è più l’analogia, l’imitazione, ma le parole sono pronunciate dall’oggetto di natura: / odo / parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane /.    

[13] Bill McGibben, (1989), The End of Nature,op. Cit.

[14] Giampaolo Lai, (1993), Conversazionalismo.Le straordinarie avventure del soggetto grammaticale, Torino, Bollati Boringhieri; Giampaolo Lai, (1995), La conversazione immateriale, Torino, Bollati Boringhieri . 

[15] Jorie Graham, (1999), “Pollock and Canvas”, from The End of Beauty, Ecco Press, ebook. <Standing there with her hand on her hip /gorgeous gap / between the mind and the world.>

[16] Giampaolo Lai, (2014a), Two Stains on the Ghost, E-Journal of Psychotherapy Research; Giampaolo Lai, (2014b), La Borda. Oggetti di paura e superoggetto dell’orrore, European Journal of Psychoanalysis, ISAP.

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