Umberto Piersanti, “Nel folto dei sentieri”

Nel-folto-dei-sentieri_prima-300x480UMBERTO PIERSANTI E LE SELVATICHE VISIONI
di Alessandro Moscè

 

“Tra i sassi bianchi / corrono i folletti, / solo chi è destinato / li può vedere / e poi li trova sempre / nella sua strada”. Sono questi alcuni versi contenuti nella raccolta poetica Nel folto dei sentieri (Marcos y Marcos 2015) di Umberto Piersanti. Un viaggio terreno, esistenziale, con punte di magia e visionarietà, contraddistingue l’ultima fatica editoriale dell’urbinate: oggi il maggior poeta naturalistico italiano. Piersanti ci ha abituati ad una dimensione immaginativa che richiama una matrice di colline e monti appenninici, una terra ben delimitata, un po’ fatata, sulla scia della migliore tradizione novecentesca dove tra ombre di ricordi, paesaggio e natura, si intravede ciò che Franco Loi definisce “la tradizione dell’Italia che è all’origine della nostra parlata nazionale”.


E’ perfino inevitabile un accostamento ad Attilio Bertolucci, ma se le foglie ingiallite, i bassi portici, il fiume dal letto largo e piatto sono alcuni dei tanti fils rouges e dei luoghi di elezione del parmense, le Cesane, gli altipiani a  sud di Urbino, le mura cittadine rinascimentali della città ducale del Montefeltro, i fossi, le erbe e il grano scheggiato dai colori dorati, confluiscono nella poetica di Piersanti, che include sempre un tempo remoto che domina la sua valle. Il mondo è animato da storie in cui non si distingue più, volontariamente, la realtà dal sogno, la dimensione per lo più domestica dalla memoria fenomenologica. Se la sintonia con Bertolucci è una simbiosi racchiusa nel gusto di raccontare, vanno però stabilite delle differenze. Bertolucci è sempre concreto, preciso, Piersanti introduce una dimensione fantastica che lo avvicina di più a Pascoli nel riempire la poesia di mistero. “evocare gli spiriti / è rischioso / dentro il vecchio setaccio / imprigionati, / il sangue che trasale, / quasi s’arresta, / le mani che si stringono / a difesa”. L’eredità che proviene dal luogo della nascita, della crescita fisica e spirituale, ha senz’altro rappresentato il mito, la tradizione umanistica di Piero della Francesca, Paolo Uccello e Raffaello. È la proiezione in una dimensione appunto memoriale che salva dalle dimenticanze, in una poesia ruvida come la terra che attinge alla “campagna piena e profonda” (di Pascoli) e ai luoghi persi (come intitola la prima raccolta della trilogia Einaudi di Piersanti). Sono evidenti le influenze della capitale della cultura europea, di quel Rinascimento che si è affacciato dai contrafforti in riti affabulatori del mito a partire da un “locale non localistico”. Luoghi che nel tempo assumono un rilievo antropomorfico nelle scene descritte, spesso notturne. Il microcosmo struggente non è mai appesantito da una pena, da una sopportazione. Se la vicina, “odiosamata” Recanati si muove intorno a soggetti e oggetti avviluppanti, Piersanti ama la memoria inviolata e ritrovata come spazio e risonanza. Opera su di sé un’aspra immedesimazione che brulica intorno, non solo raffigurata nella vegetazione, ma vagante nella nebbia di un alterno destino. Questa poetica si dipana dunque da una civiltà e dalla sua conservazione. Si tratta di una conservazione intessuta di un’epica familiare, in una cornice che riporta al centro le Cesane. “salgono per greppi / e sui costoni / mai così fitti / e alti e luminosi / i papaveri rossi, / t’entrano nella macchina / come lampi, / trapassano vetri / e specchi / s’intrecciano sugli occhi / e tra le mani, / ebbra la corsa / dentro quel rosso smisurato, / no, ancora non lo sai, / fugge l’ultimo anno / giovane e felice”. L’impronta culturale e antropologica rende sconfinato il mondo della campagna, perché in ogni altitudine potrebbe esserci la Cesana come una Langa qualsiasi, rifacendoci a Cesare Pavese, altro poeta al quale Piersanti si avvicina nella cadenza epica e nella folgorazione delle vicende, delle descrizioni contemplative. E il sogno del cavaliere aggiunge un elemento magico, un’apertura cosmica che proietta la  campagna in uno sfondo panico e verso la galassia impalpabile. Il viaggio è ancora una volta mitografico, perché inteso nel senso di un’insostituibile geografia personale dei luoghi. Umberto Piersanti, con Nel folto dei sentieri, si segnala, dicevamo, come il poeta di natura per eccellenza nel panorama contemporaneo sempre più frastagliato, impoverito da un’ondata di mode passeggere e di fatuo giovanilismo. Il filone seguito dalla nuova raccolta unisce idealmente il passato e il presente nel “diario di bordo” che si inoltra nello stradino bianco, nei campi e nelle radure del Montefeltro del Duca Federico, dove la genga è l’argilla delle colline intorno alla città. Nella nuova raccolta l’irrompere nell’adesso avviene attraverso ore e giorni (che è anche il titolo dell’ultima sezione), nonché con la centralità del figlio Jacopo (malato di autismo) che “abita una contrada”. La terra appenninica, Urbino, ma anche il mare Adriatico (l’acqua è un elemento primordiale che acquisisce varie tonalità) e il senso della pienezza del vivere in un luogo specifico si snodano lungo un “tempo nuovo” al fianco di Annie. “Jacopo sulla pista / cammina piano, / poi corre, si ferma, / barcolla un poco, / segue la brioche / che hai nella mano, è il suo vessillo unico e imperioso, / più del suo pianto / è il riso che t’inquieta, / stridulo e assurdo / nessuno lo decifra”. Il paesaggio che tanta importanza ha avuto nella tradizione poetica non solo delle Marche, consente di individuare un’area lirica che connota Umberto Piersanti prosecutore di quel genere argomentativo e meditativo che Leopardi stesso inquadrava come qualità dominante con le circostanze della vita. Il giro è sempre sui propri colli, consacrati dalla nonna Fenisa e dalla sua casa in fondo al fosso, in un mondo antico crepitante dentro le amatissime erbe. Il ritorno alle origini è totale. Ma non tragga in inganno questo senso del tornare indietro. Piersanti accelera nella conservazione del mondo vissuto prima della nascita e poi nella stagione che trascorre e ritorna. Il verso si allunga e si restringe nel tempo, accumula e conferma la volontà di metamorfosi notata anni fa da Carlo Bo, e si orienta verso quella classicità che dall’Appennino impervio arriva immediatamente alla fuga odierna dei giorni. Dalla poesia Natale nella casa nuova: “ad altri, remoti / anni, questo muschio / lucente ci riporta, / all’età dei padri, / delle teneri madri / tra gli addobbi azzurri / delle feste, / uno ad uno caduti / lungo gli anni, / ora sono ombre / così spesse e vere, / figure dentro il sangue / che trasale”.

DUE POESIE DI UMBERTO PIERSANTI TRATTE DAL LIBRO

Incontro

 

il crepuscolo lungo

che si spegne,

dall’erbe e dalle macchie

fitte più di formiche

in processione

le rane nella strada

e contro i vetri,

sul cofano aggrappate

con rauchi gridi

 

ma non c’era un torrente

tutt’intorno,

neanche un fosso

il più scavato e perso,

non era quel cammino

così assurdo e irreale

e senza meta?

 

ma tacevano i lunghi

campi e freddi,

ottobre li bagnava

con la sua brina,

solo un grillo tenace

nel trifoglio

lo stanco canto

oppone

al primo gelo

 

chi non sa dove andare

meglio cammina,

nel buio s’annuncia

conviene perdersi,

i sentieri tra i campi

sono infiniti,

la fonte sta dovunque

o in nessun luogo

 

scendono per i greppi

le rane a balzi,

forse non hanno meta

forse è smarrita,

tu le guardi,

pensi

quant’è dolce

perdere la strada

 

Maggio 2013

 

Sotto il Conero

 

passano figure trasognate

lente dentro il crepuscolo

d’ottobre,

autunno annebbia

gesti e passi,

li trascolora,

i gabbiani alti in cielo

come sospesi,

sospesi anche in cima

all’onde lievi,

la Montagna è là,

in fondo all’acqua grigie,

i suoi gironi debbono scalare,

il Purgatorio è altissimo

e sospeso,

pazienza e calma ci vuole

per salire

 

la verga d’oro al fianco

si distende,

per campi immensi

scende fino al mare,

un brandello d’estate

che resiste,

tenace

nella bruma che l’avvolge

 

Ottobre 2013

 

 

 

 

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