Blanca Varela, “Crocifinzioni”

, 2013

crocifinzioni-d242Recensione di Tommaso di Dio

Non ho alcun strumento per poter classificare la poesia di Blanca Varela; non ho la cultura per inserirla in questa generazione o in quell’altra, in questa corrente letteraria o in un’altra. Non sono un ispanista, conosco appena qualche parola di quell’idioma così attraente e così prossimo al nostro da sembrarne il gemello più dolce e sfigurato; non conosco se non per pochissime, magre e folgoranti letture, il panorama vasto e frastagliato della poesia sudamericana. Per tutte queste mancanze vorrei chiedere preventivamente perdono al lettore e anzi soccorso; mi appello allo studioso più armato, più scaltro di me: che mi perdoni l’ingenuità. Eppure, non appena sono capitato con gli occhi e con la mente sulle pagine di questa poetessa, tradotta in italiano e pubblicata a cura di Stefano Bernardinelli per l’edizioni Nottetempo nel 2013, non ho saputo trattenermi: ho cercato subito di far conoscere, dapprima agli amici più prossimi ed ora ai lettori di Poesia, la voce di questa scrittrice peruviana, morta nel 2009, non ancora conosciuta come merita dal pubblico italiano. La poesia può essere molte cose; ma uno dei suoi più preziosi regali credo sia questo che ho ricevuto e che spero anche voi riceviate: la meraviglia incomparabile di ascoltare una voce straniera che chiama, dall’abisso più scuro di ogni conoscenza, di ogni geografia o storia, di ogni confine biografico e contestuale, una voce – dico – che chiama te, proprio ognuno di noi a confrontarsi col nocciolo più vero, più taciuto e arcano di noi stessi. Emily Dickinson la chiamava «polar privacy» quella solitudine lunare in cui «a soul is admitted to itself»; quella solitudine che la poesie richiede e pratica, mostra e continuamente trasfigura come se fosse un esercizio senza fine, in cui ogni poeta, come disse Baudelaire, è faro all’altro.

La scrittura di Varela è attorniata da questo silenzio, contornata dal bestiale respiro di un silenzio senza tregua, un respiro di cui si percepisce lo spessore, la gravità, il tanfo animale. In questo silenzio i suoi versi si muovono semplici e soli, come deposti sulla pagina, ognuno spaesato dall’essere lì; s’aggrappano uno all’altro in preda ad un terrore che è almeno pari al desiderio che hanno di rimanere in piedi: «Bisogna saper perdere con ordine», dice Varela e aggiunge che se vi è un premio in questa giostra, quello è «un’altra corsa» nell’ombra di se stessi. Per chi vuole chiamare «cielo il nulla» e sa bene che la migliore posizione per creare è «quella di un affogato mezzo sepolto nella sabbia», per chi ancora conosce la «detestabile perfezione/ dell’effimero» non c’è bisogno che la vita abbia un significato, abbia un contenuto: il vitello appena nato, tremante sulle ginocchia dinoccolate e ancora umide non chiede nulla, non sa nulla; basta che sia la vita stessa a muoversi, a descrivere un orizzonte, precario, tumefatto, sensuale, per poter andare avanti un attimo di più: «Puoi raccontarmi qualsiasi cosa/ credere non è importante/ ciò che importa è che l’aria muova le tue/ labbra». Non appena la vita si fa coscienza, Varela subito ne snuda la colpa e si traveste come un Dio «dai capelli tristi che si toglie il male a manciate e si lava mille volte» per scoprire soltanto che è «lei stessa la macchia indelebile sulla lama del coltello». «Poesia. Orina. Sangue.» La poesia di Varela rientra nel circuito dei fluidi organici e come essi scorre al battito, aderisce ai tessuti e sta esattamente dove il tessuto splende e palpita di un «balbettìo celeste», così come nel punto in cui si dimostra «più antica e oscura della morte», in un «mezzogiorno intollerabile», nella figura di una vitella «coronata di mosche».

Ma Blanca Varela è una poetessa che non rifiuta il pensiero; semmai lo trafigge (Crocifinzioni è il titolo della raccolta antologica e di una sua poesia) nella carne e lo snuda come malformazione, arto fantasma apposto alla vita che chiamiamo umana soltanto perché possa dire: «Ho lasciato la porta mezza aperta/ sono un animale che non si rassegna a morire». Benvenuta Varela, benvenuta nella nostra lingua: spero che altri, da te, traggano forza.

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BLANCA VARELA

 

 

Persona

 

l’amato animale

le cui ossa sono un ricordo

              un segnale nell’aria

non ebbe mai ombra né luogo

 

dalla capocchia di uno spillo

          pensavo

 

lui era il brillìo infimo

il granello di terra sul granello

                 di terra

l’autoeclisse

 

l’amato animale

non smette mai di passare

       mi gira intorno

*

Vitella oppressa dai tafani

 

potrei descriverla

aveva naso occhi bocca orecchie?

aveva piedi testa?

aveva gli arti?

 

ricordo solo l’animale più dolce

che si portava addosso

come un’altra pelle

quell’alone di luce sporca

 

voraci alate

assetate bestiole

ingiuriosi angeli ronzanti

la tormentavano

 

era la terra altrui e la carne di nessuno

 

dalle sue palpebre cispose

mi abbagliò il miracolo languente

la vigilia l’istinto lo sguardo

il sole non nato

 

era una bimba un animale un’idea?

 

ah signore

che orribile dolore agli occhi

che acqua amara alla bocca

di quel mezzogiorno intollerabile

quando più rapida più lenta

più antica e oscura della morte

accanto a me

coronata di mosche

passò la vita

*

 

l’animale che si rotola nel fango…

 

l’animale che si rotola nel fango

sta cantando

amore grugnisce nel suo petto

e avvolto in luce sporca

se ne va in festa

 

ne segue che il macello

sia l’arco trionfale

di questa avventura

e sotto miserabili apparenze

si occultino salute ed armonia

e la nera nocciola

sepolta nel gozzo

lanci raggi azzurrini ai quattro venti

 

incastonato nel sudiciume

diamante singolare astro in penombra

incontra e perde dio

nel suo pelame

connubio di strozzata melodia

e agonia gioiosa

 

c’è bisogno del dono

per entrare nella pozza

 

Strip tease

 

togliti il cappello

se ce l’hai

togli i capelli

che ti abbandonano

togliti la pelle

le viscere       gli occhi

e metti un’anima

se la trovi

(Traduzione di Stefano Bernardinelli)

 

BLANCA VARELA

 

 

Persona

 

el querido animal

cuyos huesos son un recuerdo

              una señal en el aire

jamás tuvo sombra ni lugar

 

desde la cabeza de un alfiler

          pensaba

 

él era el brillo ínfimo

el grano de tierra sobre el grano

                 de tierra

el autoeclipse

 

el querido animal

jamás cesa de pasar

       me da la vuelta

*

 

Ternera acosada por tábanos

 

podría describirla

¿tenía nariz ojos boca oídos?

¿tenía pies cabeza?

¿tenía extremidades?

 

sólo recuerdo al animal más tierno

llevando a cuestas

como otra piel

aquel halo de sucia luz

 

voraces aladas

sedientas bestezuelas

infamantes ángeles zumbadores

la perseguían

 

era la tierra ajena y la carne de nadie

 

tras la legaña

me deslumbró el milagro mortecino

la víspera el instinto la mirada

el sol nonato

 

¿era una niña un animal una idea?

 

ah señor

qué horrible dolor en los ojos

qué agua amarga en la boca

de aquel intolerable mediodía

en que más rápida más lenta

más antigua y oscura que la muerte

a mi lado

coronada de moscas

pasó la vida

*

 

el animal que se revuelca en barro…

 

el animal que se revuelca en barro

está cantando

amor gruñe en su pecho

y en sucia luz envuelto

se va de fiesta

 

de allí que el matadero

sea el arco triunfal

de esta aventura

y en astrosa apariencia

se oculten la salud y la armonía

y la negra avellana

sepulta en el gargüero

lance rayos azules a los vientos

 

engastado en la mugre

diamante singular astro en penumbra

encuentra y pierde a dios

en su pelambre

connubio de atragantada melodía

y agonía gozosa

 

se necesita el don

para entrar en la charca

*

 

Strip tease

 

quítate el sombrero

si lo tienes

quítate el pelo

que te abandona

quítate la piel

las tripas        los ojos

y ponte un alma

si la encuentras

 

 

Dall’introduzione di Stefano Bernardinelli

You Can Leave Your Hat On: così cantava Joe Cocker, interpretando un successo di Randy Newman, nella colonna sonora di uno dei più famosi spogliarelli cinematografici. Puoi tenerti il cappello. Blanca Varela non ci lascia questa possibilità. In Strip tease invita se stessa e i lettori a togliersi il cappello, a togliersi i capelli, la pelle, le viscere, gli occhi – occorre denudarsi, levarsi di dosso ogni orpello, ogni artificio, ma senza alcuna certezza di trovare un’anima, di poter raggiungere quel “luogo del canto” dal quale la poesia sgorgherebbe pura, autentica. È una sfida terribile, una scomessa che non si può vincere. Blanca sembra riconoscere fin dai titoli dei suoi libri il proprio fallimento, la falsità delle sue confessioni e del suo canto […]. Da qui la scelta di una parola poetica che dica il meno possibile, che si apparenti quanto più strettamente al silenzio. Da qui nascono poesie di un’intensità quasi insostenibile, come diceva Roberto Paoli, uno dei primi studiosi a riconoscerne la grandezza. […] La poesia di Blanca Varela è rimasta per lungo tempo patrimonio di pochi. Ma nel decennio che ne ha preceduto la scomparsa, avvenuta nel 2009, l’attenzione del mondo letterario di lingua spagnola è andata continuamente crescendo. Le sono stati assegnati i premi più prestigiosi, dal Premio Octavio Paz nel 2001, al Federico García Lorca-Ciudad de Granada nel 2006 al Reina Sofía nel 2007; diverse antologie sono uscite sia in Spagna che in America Latina; articoli e libri di critica hanno via via arricchito una bibliografia già cospicua. Un numero sempre maggiore di lettori e di giovani poeti si è così potuto avvicinare a un’autrice estremamente schiva, che ha sempre fuggito la popolarità, e a una scrittura poetica “contenuta, ritratta, racchiusa nel suo stesso segreto”, impossibile da comprendere senza considerare “la sua profonda relazione con il silenzio, con l’enorme peso che può arrivare ad avere il non detto” (Ana María Gazzolo).

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Blanca Varela, Crocifinzioni (traduzione e a cura di S. Bernardinelli), Nottetempo edizioni, 2013, è disponibile sia in ebook che in formato cartaceo sul sito dell’editore: www.edizioninottetempo.it

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