“Poeti da riscoprire”, Giuliano Goroni


goroniProgetto editoriale ideato e curato da
Fabrizio Fantoni
con la collaborazione di
Luigia Sorrentino

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di Claudio Damiani 

Dei poeti nuovi italiani forse Giuliano Goroni è il più novecentesco. Inevitabile, leggendolo, pensare a un neo-ermetismo, o neo-simbolismo, ma a uno sguardo più attento notiamo che non c’è nei suoi versi nessuna ideologia dell’indicibile, non ci sono astrazioni, indeterminazioni, ma tutto è specificato, dettagliato, tutto è dicibile e detto, e la parola non è anonima, piatta, parlata (come in tanti neo-ermetici di oggi), ma colorata, sonora, oltre che nitida e carica di senso, avvolta da una luce sacrale tutta interna, e legata a stretto giro con la lingua della tradizione. Ciò che viene detto sono concetti estremamente complessi e precisi, non astratti, ma quanto mai concreti e vissuti, fatti di sensazioni, impressioni, emozioni, anzi non sono concetti, ma impressioni complesse e articolate, “impressioni concettuali” potremmo chiamarle. Ecco perché il simbolismo: a Goroni è necessaria l’analogia, la sinestesia e gli avvicinamenti più ardui (e in ciò è vicino al ‘900), nella fede (nuova questa, neo-umanistica, non novecentesca) che la parola può dire tutto, che la poesia può catturare le pieghe più segrete e complesse della nostra anima, e riprodurre, nella sua concentrazione, quella misteriosa fusione di emozione, sensazione, intuizione, ragionamento, che nella vita, specialmente nell’infanzia, abbiamo provato, incontrato, poi nella vita adulta perennemente ritornante, e variamente rivisitata, continuamente variata. E vediamo qui il riferimento alla musica, che ricorre a più livelli e insistentemente in Goroni, in temi, immagini, e soprattutto nell’idea della poesia come una sorta di riesecuzione in trance, infinita, di qualcosa di già dato, di già vissuto.

E’ proprio la vitalità, la fedeltà alla vita che è nella sua parola, così carica dei suoi umori, colori, tremori, nella precisione e nitore delle immagini, delle loro minime sfumature, come avviene nei sogni, che ha avvicinato Goroni al gruppo di Braci e Prato Pagano, del quale è stato uno degli esponenti più importanti.

Multiplo di cosa ingombra, l’odore

ci lascia ammutoliti sugli stipiti

verso ponente, con zampe larghissime

di tartaruga. Pèndula dal ciglio

del tempo ormai questo giorno imbrunito

a foglia, a goccia, attento all’istante

che ci distacca e stilla trasparenti.

Un candore dall’alto, dopo il tuono

nero, svela in forma che blanda preme,

sulla pozzanghera molata al vento,

quell’unisono che ci fa più poveri.

Passano sul bianco dello stradone

le bocce, la festa, le biciclette

e un delicato terrore d’ognuno.

Qui l’impressione è un odore, e è lei che dà il la, il diapason. Poi si allarga in paesaggio con colore e suono: è una sera, un farsi sera, un imbrunire d’un giorno grigio, piovoso, forse sta spiovendo, e appare infine il paese con la solita strada, la festa, le biciclette, e in mezzo a queste cose semplici, quotidiane, banali, quasi tutt’uno con esse, “il delicato terrore d’ognuno”. Si parte da una percezione soggettiva ammutolente, immobilizzante, a un terrore, pur nella quotidiana quiete del paese, che è in tutti.

C’è la sensazione di un dopo-pioggia, di un dopo tempesta, cui non si associa una leopardiana quiete, né una pascoliana pace, ma un terrore “delicato” che è in tutti. E quest’ossimoro è il centro, il cuore, l’essenza. Come la sinestesia del “tuono nero”, e il contrasto totale, bianco/nero, tra il “tuono nero” e il “candore dall’alto”. Che è il contrasto totale tra l’inquietudine anzi il terrore interiore, e la quiete banale del paese. Scrive giustamente Flavia Giacomozzi : “è frequente [in Goroni] l’uso dell’ossimoro, figura retorica amata, che esprime quasi l’essenza dell’autore. Ci sono poi le sinestesie, che legano sensi lontani, le allitterazioni ossessive, che complicano la lettura, e l’uso di enjambement o di improvvisi e inusuali a capo, che spezzano il fiato e il senso. Il suono è evocato, ma non c’è rumore in questa poesia fatta di quiete, di ‘mutezze e esili estasi’, che danno nome a una sezione, ma pervadono la poesia intera. Sembra sia in estasi di fronte al mondo”. Alla quiete o comunque alla ricerca di un equilibrio allude anche Amelia Rosselli nella prefazione a Stanze della vita: “i versi più belli sono i più sereni, e credo che l’autore miri ad un suo privato equilibrio che escluda tragedia o dramma”. E il tema della quiete torna anche in una nota su Giuliano Goroni nell’antologia Una strana polvere, altre voci per i nostri anni (Campanotto editore, 1994), a cura di Paolo Lagazzi e Stefano Lecchini: “La meta cui intende l’anima (e il canto) di Giuliano Goroni è il cuore della quiete. (…) Ma la figura che regge l’anima (e il canto) di Giuliano Goroni è l’ossimoro. La domanda di quiete da cui sgorga questa poesia inumidisce e ammorbidisce ogni timbro e ogni forma. Così non vi è brano, forse, di Stanze della vita in cui la lampada non cucia la sua luce al fondo della tenebra: tutta la notte, la notte lupa, aleggia di angeli, rondini, stelle: tremule luci candiscono le fauci dei sobborghi: sciame di baci reca alle nostre labbra particelle di quiete: dentro ai suoi occhi è pace, letargo, dolce indugio: mentre ogni scompiglio, ogni tumulto, finisce per quietarsi in lieve, in breve tinnire di faccenda”.

Ed ecco ancora il paese marchigiano, dell’infanzia e dell’adolescenza, e dei ritorni nell’età adulta, sorta di “stanza” fissa della poesia di Goroni, tra “piccoli annunzi” e chiacchiere paesane, e in quegli “usci” (parola desueta e meravigliosa, come il “lume” di Salvia) che si aprono sembra di vedere una viuzza curva di Rosai con figurine chine in ascolto, e vedete come tutto subito si complica. Qui è una domenica (c’è sempre un tempo preciso, un’ora precisa nei paesaggi di Goroni) lenta e povera “come un portico abbagliato”:

Si aprono usci ad annunzi piccoli

come un dito, non so che sghemba

molestia di me voleva porto

alle pupille materne (quasi un

Aprile d’allora) e senza premura

c’incontra la domenica col giorno

suo, povero e lento come un portico

abbagliato; in alto campane,

le scarpette di biacca e una piazzetta

sotto, forte della chiacchiera senza

speranza. Un minuto si ferma alto

grande e non ha niente dentro, vola

con un più d’eco un trasumanato

motorino oltre le case che gonfiano

d’una sempre vigilia nel petto

e guardano chi va

con la pigra attenzione di chi resta.

Al centro immagini banali del borgo (campane, scarpette di biacca, piazzetta), ma già quel “senza speranza” sembra un allarme. Ed ecco che come un vuoto di tempo si forma e si ferma, la bolla di un minuto che “non ha niente dentro”, angoscia appena attraversata da un rumore di motorino, che la taglia come una sega, mentre le case anche loro si gonfiano di attesa e di immobilità, di “sempre vigilia” (“vigilia” come giorno che precede e attende il dì di festa, sabato del villaggio, ma anche vigile attenzione verso tutto quello che succede intorno), e quell’angoscia sembra stemperarsi nella loro “pigra attenzione” (riecco l’ossimoro), come i paesani seduti guardano te che vai e vieni. Quell’immobilità angosciosa, quel vuoto improvviso e incombente come un sasso appeso, una spada di Damocle, si scioglie (e, mentre si scioglie, anche, si irrigidisce) nel vuoto banale di una domenica paesana.

Ed eccolo, qui, ancora, il paese che ti viene incontro a te che ritorni, e “fin dai primi lampioni” sembra voler chieder scusa, a te che vieni dalla grande città (dove tante sono le cose che stupiscono), “dei suoi ricordi”:

Vive di ascolti, il paese tra le case,

quasi un firmamento cui nessuno

più concede il proprio stupore

e fin dai primi lampioni mi viene

chiedendo scusa dei suoi ricordi,

vuole essere capita ogni apparenza

e un alveare di chimere vere

dietro il dispettoso sangue, intimo

e lontano del doppio filare

delle finestre accese. In quel poco

tinnire di faccenda, nell’agile

dovizia verde del maggio, del tiglio,

che più uno fa, quel solo presente e

più ombra, i muri, donano ai muri.

Ma dietro la semplicità di quelle finestre accese, lì è lo stupore vero, lì sono le vere chimere, e in quel “poco tinnire di faccenda”, in quei suoni deboli e cadenzati, quotidiani e umili, quasi trauditi e senza tempo, come un rumore di fondo, lì è il mistero della vita, l’esplosione del verde, del maggio, l’irrompere inaspettato e il farsi presente, come dal nulla, dell’essere. E quel che sembrerebbe tutto chiaro e semplice è nell’ombra più fitta, nell’infittirsi dell’ombra, nell’assieparsi, nel paese, dei muri, e farsi più ombra a vicenda.

Il ritorno al paese è anche ritorno ai genitori, alla loro “quiete” senile, e in particolare alla madre, che occupa l’ultima poesia della nostra scelta.

Qui dal paesaggio serale con cieli e rondini, movimento e quiete “alla grondaia”, entriamo nella casa dove il poeta e la madre sono seduti accanto, mentre l’aria scurisce e brilla una luce fra loro, una lampada che “cuce il giorno alla notte”, concilia gli estremi, e “tutto pare possibile”:

Ròndina nel rame fra cieli lunghi

oggi, oblique fughe alla grondaia

e soste d’amore sulla mano d’una

vita che non conclude; la lampada cuce

il giorno alla notte e seduti

vicini proviamo un bene lontano,

una stupìta obbedienza regge

l’arco oscuro della porta e tutto

pare possibile un poco, attorno:

nel vano dove scivola un respiro

di cielo fra due linee di tégoli.

Sghembi rimbalzi gialli di fari

dalla via rigano i muri rugosi,

la stanza ch’è ora, solo finestra.

Attraversa i geranei una taciturna

fragranza che fa di me un figlio,

di te, mia madre.

Dal fuori delle rondini, trasfigurate in verbo (“rondina”), che hanno nei loro voli breve quiete nei nidi, alla gronda, e poi dentro la casa, verso altra breve quiete. E’ sera, nel punto in cui il giorno e la notte sembrano congiungersi, tu e tua madre siete seduti accanto, e una lampada accesa è tra di voi, tu forse leggi o pensi, o semplicemente guardi, ascolti, lei forse cuce, e ecco “la lampada cuce / il giorno alla notte”. E come un tempo nuovo si apre, “e tutto / pare possibile un poco”, l’arco della porta (e la casa, e il mondo) è retto da una “stupita obbedienza”. Un’obbedienza, a un ordine, che provoca stupore, e è stupita essa stessa di sé. Un’obbedienza che è essa stessa stupore. Vengono in mente i versi di una poesia di Umberto Fiori, di cui dirò tra poco, dove le case restano in piedi non per le leggi della fisica, ma “come per miracolo, per pura educazione”.

E ecco che torniamo fuori, al cielo ai tetti ai fari della via, la stanza è tutta finestra, e là, fuori, come in un giardino di paradiso, sono il figlio e la madre.

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