La poesia di Silvana Grasso

 
Silvana Grassoworld copyright Giovanni Giovannetti/effigieSilvana Grasso è nata a Macchia di Giarre nel 1952 e vive a Gela. È filologo classico: sue sono le traduzioni di Archestrato di Gela (I piaceri della mensa, 1987), Matrone di Pitane (Un banchetto attico, 1988), Eronda (Mimiambi, 1989) e Galeno (La dieta dimagrante, 1989). Nel 1993 per l’editore La Tartaruga pubblica i racconti Nebbie di Ddraunara e da qui segue una serie di romanzi di intenso significato letterario come Il bastardo di Mautàna (Anabasi, 1994), Ninna nanna del lupo (Einaudi, 1995), L’albero di Giuda (Einaudi, 1997), La pupa di zucchero (Rizzoli, 2001), Disìo (Rizzoli, 2005), L’incantesimo della buffa, (Marsilio, 2011). A questi romanzi vanno aggiunti i titoli di altre due raccolte di raconti: Pazza è la luna (Einaudi, 2007) e soprattutto Sette uomini sette. Peripezie di una vedova (Flaccovio, 2006). Quest’ultimo libro è un esempio importante di sperimentazione narrativa giacché i vari racconti possono essere considerati, in modo quasi filmico, gli episodi di un’unica storia. A questo si aggiunga che proprio in questa raccolta si ritrova il personaggio e la storia di Enrichetta che qui presentiamo in versione poetica. Questo libriccino risulta, dunque, essere un documento particolarmente importante perché Grasso esprime a chiare lettere il principio di una certa flessibilità riguardo ai generi letterari e alle loro categorizzazioni. Cioè, prosa (breve o romanzo) e poesia si ‘confondono’ proprio per affermare un principio di necessità espressiva, ananke, rispetto a un noioso adeguamento a delle strutture formali precostitutite. Ricordiam, a questo proposito, che anche Elsa Morante ha applicato una strategia simile quando, ad esempio, alcune poesie già incastonate in Menzogna e sortilegio (1948) avranno una nuova sede nel libro di liriche Alibi (1958).

Le poesie di Silvana Grasso che qui presentate sono una scelta dal volumetto Enrichetta sul corso già stampato nel 2001 dalla Obi edizioni d’arte di Catania in un’edizione pregiata e di limitatissima circolazione e di alcuni versi dalla plaquette inedita Catalettici in syllabam.
Nell’insieme il libro riprende le caratteristiche della scrittura grassiana, ossia una potente e coerente attuazione di un certo realismo di matrice meridionale – inteso come categoria stilistica e non storico-sociale, cioè non verghiano –. Si tratta, semmai, di una rappresentazione della verità nei modi virtualmente infiniti della poikilìa che, per ragioni squisitamente espressive, scardina il principio del conveniens (congruenza tra stile e soggetto) a vantaggio della contaminatio. Questa retorica in Grasso si esprime con pazienza nei continui cambi di registro, nel passaggio a volte anche repentino dal sermo humilis a quello gravis. Ciò avviene in modo sistematico nelle descrizioni naturali. Ma qual è il risultato di questa scelta? Direi, l’esaltazione del carattere psicologico del personaggio (e dell’autore) in modo quando mai raffinato. L’intento, però, non è quello di suscitare la meraviglia del lettore (com’era per Marino), ma pare piuttosto che l’autore partecipi della poetica pascoliana, perché è lei a sorprendersi di continuo alla grazia sgraziata del mondo. È questo stupore, difatti, innocente e fanciullesco che costringe all’uso della lingua sublime quando si tratteggia la fioritura di un albero o la vertigine di un «polpaccio amoroso». La calligrafia non è dunque voluta per titillare chi legge, ma appunto per adattare il travestimento all’incanto: ecco, questi sono la menzogna e il sortilegio di Silvano Grasso. L’estetica – e i valori di cui la disciplina è investita – diviene lo strumento etico e didascalico, come è già stato per altri nella linea del lirismo ‘concreto’, un segmento ininterrotto della nostra tradizione da San Francesco in poi, fino a Morante, Ortese, il Pasolini romano, Patroni Griffi. Questa intrinseca, e vivacissima, tensione morale è una motivazione seria per Grasso ed è il suo contributo pìu rilevante per farci intendere come sia la natura sia il corpo umano (che sono poi i temi fondanti della sua scrittura) vadano magnificati perché nella loro fenomenologia rappresentano, anzi sono, il ‘corpo-mondo’. Il suo incantevole decadimento – che si rivela soprattutto nella malattia, nella malformazione, o la distruzione del paesaggio diviene materia di elogio e di lode perché in questo movimento/cambiamento si nota l’essenza del genere umano, della sua fragilità che chiamiamo divenire e che conduce, liberandocene, alla morte.
Gandolfo Cascio
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Enrichetta sul Corso

Ricordi Enrichetta sul Corso?
lo stelo sottile dell’anca
la lunga pupilla lubrica sul rosso mattone del muro
l’annuncio di parvuli seni
la natica piccola mota
il jeans travestito di tulle
l’ascesa del timido pelo sul mento
sfuggito al rasoio recente.
Ricordi Enrichetta sul Corso?
le basole nere in salita
le luci sul mare a Riposto
il lento fringuello dell’onda
al pontile
il bronzeo currìo della torre
che nero letame d’uccelli e rondoni
ammansiva
la piazza in forma di croce
l’allegro morente rullare del tonno
in punta di spada
il banco del pesce sgargiato
col sangue dell’ostia
la croce e il martirio
la coscia innocente
l’abbrivo del tondo capezzolo
rubente occhiobruno alla foce
del cuore.
Ricordi Enrichetta sul Corso?
le macchine in coda al tramonto
lo sguardo feroce di pavidi maschi
fedeli soltanto al comando
del sesso
su clacson rabbiosi
il lungo geranio cespuglio fiorito
che strema l’appiglio
del muro
la malta imbruttita dal tempo
e dal lampo
l’affanno dell’ora accagliata
sul timido cielo di Giarre
il pavido ansante sussulto
del sesso di maschio
sul telo azzurretto del jeans comprato
al mercato
il lucidalabbra salmone infedele
già sgoccia e tramonta
nell’acque sedate dei seni
e piccoli rivi di luce e sudore
sull’inguine irto
che stenta a morire marcire putrire
nel magro consolo dell’ossa
leggiere
Ricordi Enrichetta sul Corso?
le spume da barba alle cosce
per farle mansuete
e soavi
all’umida lingua di maschi garzoni
affamati
la femmina furia del petto peluto
di maschio
di maschio – dicevan – di maschio
la natica piccola e piena
ingombra di nervi di vena
di boschi e lamponi
di gelsi e castagne
marroni acerbe e bagnate roventi
malate
il tonfo pesante d’un sesso straniero
nel buio segreto sentiero
di carne novella
Ricordi Enrichetta sul Corso?
il riso lo scherno
le moto impazzite
la lingua impaziente
d’umori
roncola armata
su tenere ancipiti membra
equivoco antico e fatale
squittisce all’amara lusinga
l’infante rondone
affanna con tremilo d’ala
poi strema nel nubilo cielo
tra liquida rissa di venti
Ricordi Enrichetta sul Corso?
i denti bianchissimi alati
la vagula lingua che passa e ripassa
le labbra
in segno d’intesa
la coscia che levita in biondi racemi
di muscoli effimeri e forti
l’alato destriero d’un riso
che chiede ai clienti consenso
e un compenso pudico
per l’errore del sesso
giù a valle.

La china è sopita
il rosso mattone costipa la furia
dei giorni
tra muri sgrangati e bianchi bocconi
di mammole sfatte
l’aria già vomita i sensi del giorno
finito/sfinito
la furia del mare è memoria
tra uova di riccio e magre conchiglie
infeconde.

La basola nera
che il vento rinfresca di teneri sputi
nell’umida notte
di Giarre
la lastra di marmo sottile
giallastra di piscio di cani
e custodi
nel buio di luna
RICORDA ENRICHETTA
sul Corso.

 

Seccura

Non più miele d’ulivo
alla foce
allatta l’avido pasto
di meste formiche
nell’orto.
Echi d’antiche novene
e bucce d’arancia
allegrano il vecchio scaldino
di rame
nei morti tizzoni di quercia
che il sidol lucenta.
Mani grandi e callose
allentano tendine di filo
col ricamo degli angioli
in vista
alla finestra
affrettando incauta la notte
impaziente
in precipite fuga
tra scarsa corona di stelle.

 

Fornicazione

Una linea d’orizzonte l’ombelico.
Alle tre del pomeriggio.
In punto.
In punta di zampe un granchio
contende il suo scoglio
nigrello
tra irta bambagia di pelo.
Il tuo.
Di scorcio tanta è la carne
tanta e sudata
tanto il torace
torrente di piccole nuche
nevastre.
Nei polsi cavalca
la giostra impaziente del sangue
che succo di pera ristora
l’inguine al sole rannicchia
tra ombre modeste
di pelo rossello
ammollito muccuso
una stizza d’infame budello
stufato
non più grande del piccolo granchio.
Brandello di carne
appassita
confusa
acefalo e manso
sul picco di lava
che flutto di mare ristora a fatica.
L’inetto fardello del corpo
tuo giovine e desto
affanna lo scoglio
e la corsa fatale del granchio.
Saltella zampetta sgrillando
conquista la coscia suprema
divina assolata
ed è fatta.
L’altura è di creta
la coscia vacilla in orbite
minime e vuote
la fronda del pelo rossello
è svenata e non svetta.
Di lato rimiro l’intonsa corolla
dell’inguine ignavo.
Scucirti la pelle un’idea!
Sgranarti le vene una a una
con rombo funesto di sangue
a fiumana
che netti l’immondo sudore del giorno.
Il granchio fa in fretta
più lesto del fianco mio
inerte
sgrillando per l’ultimo tratto
su in vetta.
L’assalto al fortino è compiuto
non manca che fulgida insegna
di chela
vessillo fatale sul tenero pene
ferito.
Trascorre una stizza di debile
sangue
l’infame sudore del giorno
su natiche bianche
indifese
tra cirri di spuma violetta.
Il lungo letargo è finito
e pure il veleno dell’Idra
consunto dall’onda mirtòa
Lo scoglio conteso
va al granchio – sicuro! –
che fero svetteggia
su pomice nera
con fulgida insegna di chela.

 
 

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