Alberto Cellotto, Pertiche

Letture

Si lascia scivolare in una unità di misura Alberto Cellotto, intitolando “Pertiche” (Edizioni La vita Felice, Milano, 2012) la sua ultima raccolta di versi con prefazione di Gian Mario Villlata. Le pertiche di Cellotto sono spazi limitati dentro i quali definire i movimenti di un corpo costretto in un limite. Marcando il proprio confine o il traguardo da raggiungere Cellotto ci mette di fronte a testi che partono da una visione rasoterra che rinvia alla lezione di un grande maestro: Andrea Zanzotto. E da lì si snoda, scantonando, il tempo denso di questa poesia. È come se l’autore volesse definire un recinto per la parola, ma leggendo il libro ci si rende conto che questo tentativo è inutile, perché le sua poesia trasborda, perde continuamente la misura, subisce uno scollamento dal presente e smette di porsi domande. 
(Luigia Sorrentino)

Tentativi di traguardare il proprio posto nel presente
                    di Gian Mario Villalta 

Pare non cercare evocazioni né suggerire avventurose ipotesi Alberto Cellotto, intitolando Pertiche la sua nuova e densa raccolta di poesie. Eppure, al di là del più immediato rinvio, quella pertica su cui si fa esercizio in palestra, salendo per arrivare da nessuna parte, ovvero a niente altro che dover poi lasciarsi scivolare giù, leggendo questi versi viene da pensare ad altro, ricordandoci che nei luoghi dove vive Cellotto la pertica è un’unità di misura geometrica che riguarda gli appezzamenti di terra. Misura orizzontale, quindi, rasoterrra, a cui si contrappone la verticalità di una pertica che invece sta infissa nella terra di quel tanto che occorre a sorreggersi e a reggere, a marcare un confine o stabilire un punto notevole dal quale traguardare altre distanze. Il sempre rinnovato punto di partenza di queste poesie credo sia proprio qui, e da qui detti il suo passo versuale e verbale: riconoscere, definire uno spazio, con questo singolare sistema di misurazione orizzontale/verticale, entro il quale catturare un tempo che moltiplica e confonde i suoi contorni.

La prima poesia costruisce a suo modo la “scena primaria” dell’intera raccolta: in alto le bandiere, le cime degli alberi, mentre l’aria arriva al suolo; e perché non guardare il tempo allora da questa prospettiva, da quell'”altezza dell’erba” già suggerita in passato da Andrea Zanzotto? Qui non c’è erba, però, c’è asfalto, e a questa prospettiva viene ironicamente tolto lo sguardo per lasciar “vedere” (e sapere) ai piedi, al corpo, al contatto elementare con il suolo. Il titolo della sezione, inoltre: Carbonio 14, rinvia a sua volta a una temporalità “smisurata” nei confronti della mente/coscienza, e con questa temporalità, inafferrabile rispetto alle misurazione compiute abitualmente dalla nostra mente e dalla nostra coscienza, fa i conti tutto il libro, nei temi, ma anche nello stile, nelle minime, calcolate slogature sintattiche, nelle scelte incongrue, sorprendenti e decisive di certe parole.

La seconda sezione, Lettere alle persone, una specie di Antologia di Spoon River dei viventi (ma dove viventi? E, soprattutto, presenti in quale tempo?) approfondisce le figure e le ragioni di un circuito che non si chiude tra il sé e gli altri, i luoghi, le cose. Scrivo con intenzione: il sé, e non: l’io, perché viene messo in gioco lo spessore della passività, della ricettività, rispetto alla quale ciò che ritorna a comporre il mondo del soggetto si caratterizza per la fugacità: come se il tempo che viene alla coscienza insieme con la realtà si potesse accogliere soltanto accettando cancellature, blank, fessurazioni che scompongono la realtà stessa. Prevale, anche nella successiva sezione, Spedale, il senso di una fatica, di una spossatezza, inoltre, nel costante sforzo di collocarsi, di indovinare una geometria di punti che, collegati, tengano insieme parole e cose, volti, alberi, animali. E quasi scompare la dimensione del passato, inteso come qualcosa di certo, che si possiede individualmente e si condivide con altri. Forse è proprio questo, anzi, il motivo più notevole di ciò che mette in opera questo libro: la privazione di quella dimensione del passato che era stata ereditata, che non si può neppure nominare, e la necessità spossante di ricostruire, inventare, per ogni lacerto significativo dell’esperienza un passato che la ricollochi nel presente.

Se queste riflessioni hanno un perché, allora non appare bizzarra la presenza del poemetto conclusivo, Nella demenza che non sa impazzire, che si propone come una impossibile/sofferta commemorazione della Grande Guerra, addirittura in vista del centenario ormai prossimo.

I luoghi dove Cellotto vive sono ancora oggi densi di memoria della Prima Guerra mondiale (e qua e là il libro ne è disseminato), ma il coraggio di un confronto tematico così diretto, a pochi passi di distanza dal Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto, pretendeva un punto di partena originale, che viene qui intessuto intorno al verbo cominciare. Da un’immagine, da un dato anagrafico, da una memoria famigliare, da un reperto-monumento, da che cosa e da dove? Da dove cominciare a parlare di qualcosa che è ancora presente ed è inafferrabile perché inafferrabile è diventato il presente? Anche qui, ciò che inequivocabilmente porta immagini e parole del passato, di quel passato tragico e doloroso, rinomina il presente, viene rinominato/perso a ogni passo nei luoghi in cui avvenne. E proprio nel respiro più ampio del poemetto, nel procedere delle concentratissime stanze di sei versi, si riassumono i tratti stilistici salienti della parola di Cellotto. Più vicino alla Rosselli, nelle illusioni/delusioni foniche, negli inciampi semantici, di quanto il tono possa veicolare, il dettato poetico di Alberto Cellotto trova qui un suo persuasivo pedale riequilibrante nel continuo precipitare del senso. Da qui, dal recupero di una voce che ha bisogno di corporeità vera e di vero silenzio, si può rileggere dall’inizio, cogliendo con maggiore intensità il dramma di una voce che sfugge nella mente, in quella dimensione pseudonoirica che sta sul limite del risveglio.

Cicatrici

La punta delle bandiere vicino
le fabbriche, la cima ferma dell’albero.
Il rosso sta scendendo, l’aria
rimane all’altezza delle formiche.
Chi se lo immagina un posto
così tra dieci anni, chi prova
a combaciare le diverse
epoche che scantonano dal passato.
Per una volta chiedere ai piedi
come stanno, se c’è una radice
che solleva l’asfalto navigando
nel bitume e pesca l’ossigeno.
Potrebbe essere come il tornare
al mondo, all’angelo
che mi guardava cadere sempre,
alle croste rimaste sulle ferite.
Dopo, lì una pelle sbiancata
poteva solamente spiegarci
che il sangue era quello
che ci tocca davanti,
agli occhi al naso alla bocca.

*

Pioggia oggi e domani

Adesso piove, è notte
o sera e penso una lamiera
che prende l’acqua, il pelo del fiume
al buio, il sottobosco dove
una goccia non arriva.
Piove solo
fuori, e non è notizia
che vengano giù i cartelli,
coi prezzi urlati, sempre più
bassi, la pioggia è solamente
ricordo di tante piogge in fila,
messe in ordine per sbaglio
nella testa che vuole questo rumore,
questo assaggio di limbo
che è pensare una nuvola, al buio,
e la luna nascosta dietro
che oggi illuminerebbe a stento
i volti, quelli ignoti. E se pioverà
domani, allora, sappiamo già
che viviamo nella terra e solo
in quella avremo la pace.

*

Parabole nuove

Una volta c’era, e ora ancora
accanto al campo c’è quella mura
sempre oltrepassata dai palloni
calciati male, sbucciati
che prendono un effetto
indifferente a qualsiasi vento.
Così, per quanto ne sanno
questi giocatori soli
di sera, si può chiedersi, ugualmente:
vero che è bello qui? Che stiamo
bene e manca solo quello che manca?
Accanto a quel campo posso
smettere di fare domande alla mia pianura
irata dai tetti delle case.

*
Conoide

Quel che conta è ogni piano
del mondo. Ogni missile
di storia, la vita delle sue cavalle
sporche pronte a scappare
sul terrazzamento. Ciò
che è proprio della terra
e dei suoi accumuli:
pensare un tuono, estate,
finire il temporale
al suono degli allarmi.

*
C., un uomo adulto

Quando C. ha voglia di ridere
alza il mento e scuote la testa
per un solo colpo. Vorrebbe dire
che si stava bene al caldo,
e forse che il suo mondo
si è fermato dieci anni fa.
Nessuno sa perché da allora continua
a graffiare un cielo matto
con le sue facce distratte,
con le bestemmie imparate,
e con strati e strati
di foglie che sfiorano
ad ogni raffica
il loro chiaro fruscio.

*
Dove M. si perde

M. mi mancava, da giorni:
non il suo riso isterico, ispirato
dalla timidezza, e nemmeno
la barba incolta del fine settimana.
Mancavano solo le sue
spalle da credere sodali alle mie,
per un fraterno istante, per un già
risolto affetto. Allora M. si perde,
nel punto in cui è lì per dirmi
quanto distante sono.
Qui io lo lascio per andare davvero
lontano, in una casa o in un prato
dove M. non è mai stato.

*
D. se fosse voi

Prova a mettersi negli altri
D., ma sa che non c’è dolore più
grande del provare a pensare
cosa vuol dire
essere B. o G.
Quando lo fa D. si mette le mani
davanti la bocca, come dopo aver
detto un’eresia. Che non ci sia
scelta più grandiosa di rimanere
continuamente in sé
oramai è chiaro, per questo D.
si ritrae e fa posto tra le braccia
al pensiero di un fratello
un sabato di tanti anni fa:
le patate che aspettavano sul piatto,
un pasto assieme, il gioco
sul pavimento e le nuvole
appena prima che piovesse.
Oggi, se fosse voi, D. vi
capirebbe nel sonno, se fosse te,
(sì ne sono certo)
non proverebbe nemmeno a camminare
con le tue scarpe
dentro una stanza,
in movimento di gambe, a intuirsi
sopra una piastrella o una fuga.

*
B. e il mare

B. e io non abbiamo
mai visto assieme
un mare. Ora quella
conchiglia capovolta e
ferma si guarda dalla
prossima onda che
la spazzerà. B. direbbe
che il mare è grande
e aspetta solamente
di riprendersi
tutto tutto
in un secondo momento.

*
Gioventù? Da A. a Z.

A trentatre anni non sono
mai stato giovane, quello che sto
per dire è un sole che porta
sopra l’erba una luce,
come sera tarda che potrebbe aspettare
un vento vecchio. Io, quelli
che hanno fatto un pezzo di storia
con me, non siamo mai stati giovani:
ci hanno fregato,
hanno bucato una generazione
intera, forse anche due. Siamo
chincaglieria, vecchi che camminano di corsa
rapidamente, gonfiati di cattiveria
per non portare neanche un po’
d’aria dentro un ospedale
di matti dimenticati dal fare
e dal sognare. Io ho un attimo
di fuoco, che sia
tutto il bene che voglio
a questo cerchio di mattine e sere,
a quello che tutti non abbiamo detto
per paura. Ma non dobbiamo avere
paura, abbiamo solo un mare
di balle
da bucare.

*
I pini di Roma
(7 novembre 2011)

                            Wie ergreift uns der Vogelschrei…
                            R.M. Rilke

Li afferro sui binari, assieme
a un grido d’uccello
che trapassa il finestrino.
Sorridi. Capisci per quanto

spazio vedrò le nuvole e
la luce sulle mura e il cielo,
segnali d’alberi, pini
punti dai forati cumuli,

pini che si credono sulla consolare,
pini che non sanno di consolare
altri alberi che stanno in oblio

e vivono e muoiono, per sempre
muoiono e amano
così: uno spazio divenuto respiro.


Alberto Cellotto è nato a Treviso nel 1978. Ha pubblicato i libri di poesia “Vicine scadenze” (Zona, 2004, prefazione di Antonio Turolo, premio APS 2004 di Pordenonelegge), “Grave” (Zona, 2008, prefazione di Fabio Franzin) e “Pertiche” (La Vita Felice, 2012, prefazione di Gian Mario Villalta). Dall’inglese ha tradotto i romanzi “Duluth” di Gore Vidal e “Canzoni per la scomparsa” di Stewart O’Nan (entrambi per Fazi) e il breve racconto “Una speculazione sul grano” di Frank Norris (Amos Edizioni). Una selezione di suoi testi è in uscita sulla rivista “Italian Poetry Review”. Cura il blog intitolato “Librobreve” (http://librobreve.blogspot.com).

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