Seamus Heaney, “Lì fui, io nel luogo e il luogo in me”

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A Seamus Heaney
di Luigia Sorrentino

Il 16 maggio 2013 ho incontrato a Roma per un’intervista televisiva per Rai News 24 il poeta Nordirlandese Seamus Heaney, uno dei più grandi del mondo, premio Nobel per la Letteratura nel 1995, in residenza  all’American Academy.  

Nell’intervista che vi ripropongo integralmente, Heaney racconta la sua storia di poeta: durante gli anni Sessanta ha lavorato come insegnante e poi come Lettore alla Queen’s University di Belfast.  Heaney ha specificato che i suoi primi tre libri di poesie sono stati scritti durante quel periodo. Sorpendentemente nell’intervista Heaney ha precisato che nonostante quei suoi primi tre libri, egli non si sentiva ancora poeta, anche se altri gli dicevano che lo era.

Nel 1972 Seamus Heaney lascia Belfast e si trasferisce con la famiglia a County Wicklow, nella Repubblica d’Irlanda. Nella video-intervista il poeta racconta del periodo della guerra e dei Troubles (i disordini) nell’Uslter, l’Irlanda del Nord. Citando il suo predecessore,  William Bulter Yeats, Heaney  ha detto che il “compito del poeta è quello di condensare in un unico pensiero realtà e giustizia“, anche se l’ha definito “un’istruzione impossibile da seguire”.

 
Heaney ha poi fatto riferimento a un altro suo grande predecessore, il poeta polacco Czesław Miłosz, che in una delle sue poesie si chiede: “Qual è il compito della poesia se non riesce a salvare una nazione o un popolo?”

Una risposta diametralmente opposta ma altrettanto convincente secondo Heaney la da’ il poeta russo Joseph Brodsky che diceva: “Se l’arte ci insegna qualcosa è che la condizione umana è privata“.

Secondo Heaney la poesia deve trovare la sua dimensione tra questi due opposti: il porsi costantemente la domanda “qual è il compito della poesia?” e al tempo stesso esprimere la propria condizione umana – privata

E ancora: Heaney nell’intervista ha detto che “la lingua che si parla nell’isola di Smeraldo, in Irlanda, è storia che si è solidificata. Innanzitutto è la storia di una lingua perduta, il gaelico, divenuto dal XVII secolo in poi, l’inglese, ma non solo… anche lo scozzese, con l’arrivo dei coloni presbiteriani sempre nel secolo XVII”.

Il villaggio nativo di Seamus Heaney, in Irlanda del Nord, si chiama Anahorish, (ndr. titolo di una sua poesia contenuta in District & Circle) che in lingua gaelica significa “luogo delle acque limpide”. Ed Heaney era proprio come il suo luogo d’origine, limpido, semplice, disponibile, generoso.

E quando, quasi alla fine dell’intervista, gli ho chiesto se temeva la morte, egli ha risposto: “Penso di non aver più paura della morte. Ritengo che la letteratura mi abbia aiutato. La mitologia mi ha aiutato“.


Seamus Heaney: A Tribute by Karl Kirchwey

6 pensieri su “Seamus Heaney, “Lì fui, io nel luogo e il luogo in me”

  1. Nella poesia “Scavo”, in cui racconta il salto dalla “zappa” dei suoi antenati alla “penna” da lui usata, Seamus dimostra come ogni gesto, anche banale, nel senso di routinario, possa farsi poesia (e alta)se utilizzato con linguaggio incisivo e immagini forti, per cui quel gesto “privato” degli avi assume un significato universale di lotta per la vita e per la conoscenza, e in tal senso i due strumenti: zappa e penna si equivalgono.

  2. Mi sembra di aver lasciato un commento a questa interessante intervista quand’ e’ apparsa. Ora Luigia ci vuole ricordare che l’uomo non c’e’piu’, un bisbiglio, un sussurro senza parole…un’intervista ripresentata…una volonta’ di immortalita’… un certo timore, il rispetto per coloro che amiamo ci fa credere che non muoiano mai. Ti penso Luigia… e penso anche a Lui che tanto amava l’Italia e la nostra cultura.
    L’intervista rimane una testimonianza di cui ti saremo sempre grati.

  3. baricentro di sempre (a Seamus Heaney)

    I flutti dai vetri del treno
    sanno essere inutilmente azzurri
    in tutta quella libertà insapore
    baricentro di sempre,
    lo svago non è più obbligatorio.
    nessuno guarderà fuori
    adattandosi al verbo del giorno,
    ogni pagina sarà uno stige
    come quando pensi al buio.

    Poeticamente ho amato il suo Station Island come un figlio ama il padre. Perdita enorme.

  4. Che i computers tacciono per sempre il chiacchiericcio,
    le morte di un poeta è il benestare della parola,
    e se incroce balbetta un’afasia disumana
    e se in cenere i necrologi non hanno storia!
    Ebbene, io lo conobbi tra paludi e acquitrini,
    tra le vanghe azzoppate dalla roccia
    in quel letame d’antrace,in quell’asfalto dissestato
    da lamiere in fiamme, in quella torba che fu il cibo
    dei sui antenati che del diritto non avevano una idea
    razionale poi che i crani erano i loro vasellammi…
    e sei morto lasciandoci il peloso belato in bocca
    e da mangiare patate marce, che i tuoi padri mangiarono
    per non morire… vedi, ora sei parte delle leggende giovani
    e presto anche i miei versi ti seguiranno.
    antonio sagredo

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