Giuseppe Piccoli, “Fratello poeta”

Nello scaffale, Giuseppe Piccoli
a cura di Luigia Sorrentino

“Mi ricordo un giovane timido e gentile che mi aveva portato da Guanda, in diversi faldoni colorati, una grande quantità di suoi versi. La quantità mi aveva un po’ sorpreso e un po’, inizialmente, anche scoraggiato … Poi, però, avevo affrontato quelle poesie, rimanendone spesso decisamente colpito, molto colpito, come raramente accade. Sto parlando del giovane Giuseppe Piccoli, di oltre trent’anni fa, del tempo in cui collaboravo con Giovanni Raboni alla Guanda che allora dirigeva Diego Paolini.
Avevo allora mostrato una parte di quei versi proprio a Raboni, che a sua volta era rimasto impressionato dall’originalità, dall’energia insolita, dalle improvvise accensioni e lacerazioni interne che rivelavano una personalità poetica di prim’ordine. …. Giuseppe Piccoli era nato nel 1949, in quel periodo i giovani poeti erano, tra gli altri, Dario Bellezza, Milo De Angelis, Cesare Viviani, Giuseppe Conte, Vivian Lamarque, Patrizia Cavalli e si affacciava Valerio Magrelli. Ho pensato da subito che Piccoli, di quella generazione (la mia, generazione) fosse una delle figure di più sicura consistenza, e oggi, quell’idea si è in me rafforzata.
Mi è capitato, in seguito, di curare la pubblicazione delle poesie di Piccoli in almanacchi e antologie, di recensirlo, sempre evidenziandone la forza naturale, il turbamento profondo che si incideva nel cuore della sua parola. Non vorrei, qui, ripetere ciò che ho già avuto modo di esprimere. Ma questo nuovo libro vuole essere essenzialmente un invito a riconsiderare l’importanza della poesia di Piccoli nel percorso variegato di un secondo Novecento al quale egli è appartenuto in modo del tutto autonomo e inconfondibile.
Dopo quel primo incontro, avevo avuto modo di sentirlo solo qualche altra volta al telefono, sempre bene impressionato dalla sua malinconica urbanità, dalla sua inquieta cortesia, dalla sua naturale discrezione. Ogni tanto ci ripenso, sconcertato e con dolore al ricordo delle tragiche vicende della sua breve esistenza. Ma la sua poesia è destinata a durare, ne sono fermamente convinto.”

Maurizio Cucchi


                                                     Di certe presenze di tensione

 

 

Baci. Ma nell’aria c’è una
malattia dell’Essere: la chiami
noia per ripetermi e quindi
evadere ogni possibilità di offesa.
La chiamo «mondo» e, rinnovandomi,
c’è questa splendida facoltà di intesa.

 


Il figlio e il dio sono sospetti:
l’ateo del sentimento naturale
scopre errori di cifra: si confida
l’amico penitente, chiede un aureo consiglio.
Ma il viaggiatore conclusivo che l’ascolta,
non l’attende, e si muta nell’anonima gente.

 

Sinché resista questa scorza
d’uomo, sin che la polpa
non s’asciughi, apri
la finestra sul mondo:
perché di te sia inconsumabile
il vero vento e la reale rosa
bianca, dell’uno e dell’altro
bimbo, di quelli che reggono
il velo di Ecce Homo.

 

 

Verrà il colore dell’ombra
a darci pace e giustizia d’anima:
lo sento che verrà, e sarà
più che una biga con tanti cavalli.
Né io vile sarò: sarà un segno
trovato nel libro tre volte aperto,
per tre volte chiuso, quando al Signore
tocca d’ungere d’olio il capo:
e la grazia d’un baleno su di noi,
sulle nostre parole temendo dette
sulle impaurite parole che non si fanno.

Questa fonte che lava la mia veste
ora tu la conosci, la devi consacrare:
e la fede tenuta alla massa della roccia rupestre
tu la devi svuotare nell’abisso:
in quel frastuono dell’acqua che non s’imbriglia
tu saprai di te stessa, mi ricoglierai
quando avvertendo il passo sino al punto,
al primo attimo io colga una fossile conchiglia.
Tu traversando lo spazio che ti allegra
saprai di me, della natura umana.
Ed io che allora uscirò di terra
mi farò la mia tana e la mia vela.

 

 


Separàti da un muro, l’idiota
e l’angelo scrivono lo stesso poema,
per venticinque anni, con grazia
di arguzie e senno squisitamente
demoniaco. E la stessa farfalla
entra ed esce, per ricapitolare
la storia dei suoi voli: ma quelle
folte rase sopracciglia dell’idiota…
e quel verso di gufo
che gli angeli atterrisce…

 


Rimane questo celeste, questo azzurro
e questo rumore del cobalto: di noi
andanti per le vie segrete, grazie
e di nuovo ci saremo: per una luna
che sale la rocca a interpretare
chiaramente il destino e il ritorno,
come animali metafisici che fiutano
l’assenza di un bianco gatto.

 

Il viario e il viatico tra la sorgente
e la casa, non è strada gemella:
con due sole ali si sorprende allo sbocco
del tenue viale immaginario, il segno
e la risposta del cherubino incredibile
traverso tanti diversi assunti dell’opera,
sino all’albero matematico di Mondrian
che elargisce i suoi specchi nel minuto della ragione.

 

Poiché essi ci hanno indicato
i turbamenti della distruzione,
torniamo ai padri poeti, Eliot
Brecht, che ci hanno predetto
che il futuro è leggibile
soltanto se la mano impugna
una zolla di terra. E di questo,
in verità, non saremo troppo prodighi,
né avari in malafede;
perché il figlio avvisato in verità
in verità risponde.

Tu m’inganni, lo so che m’inganni:
e per ingannare me stesso ti credo.
La veste è nuda come il corpo, e la luna
miete dolore per chi non la raggiunge.
Ma il sacrificio è presto detto:
sarò navigante della più tenera acqua
per recarti e portarmi il fiore dell’onda.
E per chi resta al dubbio che non spera
ci sarà quella vita come un mare di seta.

 

Poesie tratte da: “Fratello poeta” di Giuseppe Piccoli, LietoColle 2012, (euro 13,00)
Collana I Giardini della Minerva a cura di Maurizio Cucchi.

L’opera di Giuseppe Piccoli ha in sé molteplici elementi di interesse: stilistico, metrico, tematico, semantico; non ultimo, anche quello filologico si rivela fondamentale nel tracciare un percorso di biografia letteraria che permetta di ricostruire una storia poetica.

Raramente ci si trova di fronte a una produzione così ampia, quasi del tutto inedita, formata da un centinaio di raccolte, ciascuna contenente dalle dieci alle venti composizioni, per la maggior parte datate, ma da analizzare e raccogliere in modo sistematico; pertanto il lavoro da compiere sull’opera e la poetica del Piccoli si preannuncia imponente. Refrattaria a sistemazione è anche la sua opera edita, sparsa in vari luoghi, pubblicata a volte sotto pseudonimo, oppure, nel caso degli articoli per «L’Arena» di Verona, non sempre firmata, stampata non solo da illustri editori ma anche da piccole case editrici locali, oppure diffusa dagli amici dopo la sua morte.

Le raccolte edite sono dieci, di cui cinque postume, le quali, però, spesso contengono poesie già uscite in precedenza. Per quanto siamo in grado di ricostruire, il primo libro di poesie ad essere pubblicato si intitola Il padre pazzo, ed è uscito a Padova nel 1971 per i tipi di Rebellato, sotto lo pseudonimo di Francesco Maria Ebreo. Francesco Giuseppe Maria è il nome del fratello minore, morto in giovane età per malattia, mentre l’aggettivo «ebreo», per altro ricorrente nell’opera del Piccoli, se non direttamente, almeno per allusione a figure ebraico-bibliche, rimanda con ogni probabilità al suo sentirsi errante, quasi in esilio, alla ricerca di una terra – sia essa un luogo fisico, una persona o uno stato mentale – in cui fermarsi, in cui trovare pace.

Nel 1973, su Poeti e poesie, AAE, Roma, viene pubblicata una sua composizione dal titolo Fiaba, breve lirica che nuovamente affronta il tema del desiderio – sempre minacciato, se non frustrato – di posarsi in una terra stabile. La seconda raccolta, che ha avuto scarsissima diffusione, tanto da non comparire neppure nei cataloghi delle Biblioteche centrali italiane, porta il titolo Tre tempi, ed è uscita per l’editore Giancarlo Fai di Verona. Il libro non è datato ma, considerata la dedica alla moglie, si può affermare con certezza che sia stato pubblicato dopo il 1977, anno del suo matrimonio.
Contemporaneamente, alla produzione poetica si affianca quella prosastica, quasi del tutto inedita, se si escludono alcuni brevi racconti pubblicati sul «Nuovo Adige», supplemento culturale del lunedì dell’«Arena di Verona»; il testo più noto in questo ambito s’intitola Orecchi come cammei, uscito il 24 aprile 1976. Non si tratta di prosa poetica, ma di vere e proprie narrazioni, con dialoghi, trame, fabula, intreccio. È abbondante anche la produzione saggistica, declinata sia negli articoli culturali usciti sull’«Arena» di Verona, sia nelle prefazioni a raccolte poetiche altrui. Infatti, nei tardi anni Settanta, soprattutto dopo la separazione dalla moglie, avvenuta poco dopo il matrimonio, Giuseppe Piccoli inizia a crearsi una cerchia di amici e poeti che lo sostengono e lo aiutano; fondamentali in questo periodo – ma non solo, la loro influenza e devozione proseguiranno anche dopo la sua morte – sono le figure di Arnaldo Ederle prima, e di Maurizio Cucchi poi. Grazie all’interessamento di Cucchi, nel 1981 Piccoli compare su «Poesia tre» con una breve antologia, Di certe presenze di tensione, e sull’Almanacco dello specchio del 1983 con Foglie. Dodici poesie, estratto da una raccolta più ampia, ancora inedita, formata da ventiquattro testi. Nel 1984 esce un’altra serie di inediti sull’«Ozio letterario», rivista dell’Accademia Montelliana di Montebelluna.
Dopo la sua morte, avvenuta nel 1987, si deve ad Arnaldo Ederle il tentativo di mantenere vivo il nome del poeta: nel 1987 Ederle pubblica per Bertani Chiusa poesia della chiusa porta (recensita su «Panorama», 1 novembre 1987, da Maurizio Cucchi); nel gennaio 1988, nel marzo 1989 e nel febbraio 2007, sempre a cura di Ederle, escono alcuni inediti nei numeri 3, 103 e 213 di «Poesia. Mensile di cultura poetica», edita da Crocetti.
Grazie a Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, che inseriscono il Piccoli nell’antologia Poeti italiani del secondo Novecento, pubblicata nei “Meridiani” Mondadori nel 1990, si afferma la statura letteraria del Piccoli, e ne vengono ulteriormente sancite l’autorevolezza e la novità stilistico-tematica.
Pochi sono i contributi critici dedicati alla figura poetica di Giuseppe Piccoli e, tra quelli pubblicati, molti si soffermano su singoli particolari; in questo senso urge un approfondimento della sua opera, che la analizzi non solo sotto specifici aspetti, quanto nella sua globalità e peculiarità.

 

Oltre all’Introduzione a cura di Maurizio Cucchi in «Poesia Tre», rielaborata dallo stesso in apertura di Foglie, si ha una prefazione di Ederle a Chiusa poesia della chiusa porta, riproposta scorciata anche in calce a «Poesia. Mensile di cultura poetica», 3, (1989); sempre a cura di Ederle sono il breve saggio critico intitolato Giuseppe Piccoli. Del corpo e dell’anima. Nel decennale della morte, pubblicato in «Poesia 103» nel 1997, e un contributo privo di titolo in «Poesia 213» del 2007.
I saggi critici editi separatamente dalla pubblicazione delle poesie del Piccoli – saggi quindi che non hanno intento né prefatorio né glossatorio – sono, a quanto mi risulta, solo due: uno a cura di Giulio Galetto nel «Bollettino della Società letteraria di Verona», dedicato alla figura di Orfeo nell’opera del poeta e l’altro firmato da Maurizio Cucchi e uscito presso la stessa sede, nel quale si tenta una sistemazione critica dell’opera. Infine Viviana Scarinci, scrittrice romana, nel suo blog http://vivianascarinci.wordpress.com, analizza dettagliatamente e acutamente la poesia Lettera per una domanda di perdono, in un saggio intitolato L’amore senza persona. Intorno a una poesia di Giuseppe Piccoli.
Alla sua memoria sono stati dedicati tre premi di poesia “Giuseppe Piccoli” tenutisi a Verona negli anni 2003 – 2005 con il patrocinio dell’associazione culturale universitaria «Antonio Rosmini» e la rivista letteraria «Spartito».

Le poesie raccolte in questo volume sono di varia provenienza; difficile è trovarne un filo conduttore. Centrale è il tema degli occhi, dello specchio e soprattutto del tempo che passa, che sfugge, lasciando il poeta spossato e incapace di parlare.
Fondamentale è anche l’idea di essere errante, “ebreo” (etimologicamente: ivri, “colui che attraversa il fiume per andare sulla riva opposta”), schiacciato da una sensazione di solitudine, che non riesce a colmarsi e calmarsi nemmeno in presenza di una donna, della donna amata e/o desiderata. Donna che, proprio in quanto inafferrabile, è sempre diversa, in mutazione. C’è Ofelia, la donna ragazzina, forse suicida, ma che sempre risorge (cf. Amo le acque solitarie, i divieti), donna incapace di prendersi cura del poeta, perché “pulzella”, “fanciulletta”, “giovane vita”, chiara eco dell’Ofelia shakesperiana e figura-chiave della poetica del circolo Veronese
veronese (cfr. la raccolta di Arnaldo Ederle intitolata Il fiore di Ofelia e altre tenerezze [1984], in cui un lungo poema è dedicato proprio ad Ofelia, in esplicito omaggio al Piccoli). C’è poi “la donna-rosellina” di Senza tabacco non vivo, donna-fiore e donna-uccello («capinera», v. 56) che si nega al poeta, che attende una sua chiamata fumando una sigaretta dopo l’altra, perché ancora immersa nelle coltri del letto, addormentata di un sonno fanciullo. C’è infine Sonia, nome paronomastico usato forse per eufonia («Sonia sogni», v. 9), adolescente silvestre, quasi una ninfa, cui il poeta si inchina, adorandola, in attesa che sbocci.
Sembra che la cifra dominante del rapporto di Giuseppe Piccoli con le donne poetiche (reali o meno, non interessa) sia il continuo senso dell’attesa, sempre frustrato da uno scioglimento che mai arriva. L’incontro non può essere vissuto pienamente, assaporato: al massimo è colto per barlumi, per lampi di felicità, non nel tempo presente, quanto rievocato, ri-creato da un passato sfuocato (ad es. Etiam nunc). Troppa e troppo lunga è l’attesa del poeta: a un certo punto, egli si adombra (Che vuol dire pazienza?), perde “speranza e desiderio”, diventa muto.
E proprio il confronto (mancato, forse, mai risolto) con la donna, porta il poeta a vedersi egli stesso «fanciulletto invecchiato», angosciato dallo scorrere del tempo e dalla perdita dell’innocenza.
Ci sono pertanto due polarità nella poetica di Piccoli: da un lato il poeta errante per la città, amareggiato dalla sofferenza, invecchiato prematuramente, i cui sensi, a tratti, perdono capacità di percepire le cose, dall’altro la donna-fanciulla, simbolo della vita, della speranza, della gioia innocente. Unico mezzo per risolvere questa dialettica è la poesia, ponte per eccellenza che permette al poeta, almeno per un istante, per la durata di un carme, appunto, di fermare il tempo, di cristallizzarlo, di tornare egli stesso bambino, di camminare per il mondo finalmente «snebbiato» a «giocare con l’etere e con l’acqua».
Ma, a volte, anche la poesia rappresenta un fallimento, o comunque non è sufficiente a «suscitare una fede, svegliare una speranza»; nei gesti della donna amata colti quasi di nascosto, come un «ladro di fuoco» (e non è il caso di ricordare quanta e quale influenza abbia avuto Rimbaud sull’opera di Piccoli: basti leggere, a titolo titolo di esempio, Inanellano gli anelli del tempo), il poeta si scopre vecchio, e muto, e incupito, perché tutto è oramai «saputo» («Ora tutto è saputo e io m’adombro»); egli non è più in grado di sorprendersi, addirittura di vedere, ma è capace solo di ascoltare, e di aspettare la sera.
La sconfitta, però, non è mai totale: si «farà luce», il mattino apparirà, perché eccelsa e immensa è la missione del poeta, tale che anche gli angeli la festeggiano (Amo le acque solitarie, i divieti), quasi a creare un parallelismo tra il poeta e l’angelo (come questi è il messaggero di Dio, così il poeta è il messaggero degli uomini). “Poeta-angelo” che, con la sua voce, plasma e trasforma (πoιεíν) la realtà tutta, gli uomini, certo, ma anche le sue città di cemento, i suoi fiumi e foreste, e persino le stelle nel cielo. Perché, anche se «l’ariete è smarrito nei cieli», è pur sempre un ariete, e l’idiota e l’angelo «per venticinque anni scrivono lo stesso poema».

 

Maria Piccoli
Università degli Studi di Siena

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