Video-Intervista a Robert Hass
di Luigia Sorrentino
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Robert Hass, il poeta che scoprirete in questa intervista, è una persona estremamente mite, dalla disarmante semplicità, eppure, è uno dei poeti più popolari degli Stati Uniti d’America (Poeta Laureato degli Stati Uniti e Premio Pulitzer per la Poesia nel 2008). Con sua moglie, Brenda Hillman, anch’essa poeta, è da sempre impegnato su tematiche di poesia civile e a difesa dell’ambiente. Hass, giovanissimo, ha conosciuto i poeti della Beat Generation, (che vedremo nell’intervista video) ma è anche stato il primo traduttore in inglese del grande poeta polacco, Czesław Miłosz (Premio Nobel per la Letteratura nel 1980).
Per Robert Hass ‘il principale potere dell’arte è quello di essere un agente attivo’. Nell’intervista a Luigia Sorrentino, Hass racconta ‘l’importanza dei piccoli’: “Quando un bambino disegna – dice il poeta – non gli interessa il prodotto finito, ma pensa semplicemente a ‘fare’ “. Non a caso la parola ‘poesia’ – in greco, ποίησις (poiesis) – indica l’attività creatrice dello spirito che si manifesta proprio nel ‘fare’ anima. Hass spiega dunque, che i bambini di oggi, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, hanno necessità di esprimere questa forma di arte perché – racconta – hanno paura di quanto sta accadendo nel mondo. E’ su questa consapevolezza che Hass ha avviato negli Stati Uniti il programma dell’Associazione degli Amici della Loira, che ha filiazioni anche in Francia, per dare ai bambini la possibilità di fare – produrre – arte. Un progetto che Hass ha lanciato per dare a se stesso e ai bambini, un po’ di speranza.
[flv]http://www.rainews24.rai.it/ran24/clips/poesia/hass_28092012.mp4[/flv]
Video-Intervista a Robert Hass
di Luigia Sorrentino
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Robert Hass, lei ha conosciuto Allan Ginsberg e molti altri poeti della cosiddetta Generazione Beat. Negli anni Sessanta lei era aveva poco più di vent’anni. Che cosa ricorda di quel periodo in cui negli Stati Uniti si manifestava per la libertà razziale, omosessuale, della donna?
“Per me quei primi anni Sessanta in realtà sono stati gli anni Cinquanta nel senso che una cosa è avvenuta dopo l’altra. Mi ricordo soprattutto il terribile movimento della caccia alle streghe, la grande crociata anti-comunista condotta dal Congresso americano. Ricordo anche il movimento per la libertà di espressione, che era in fondo una propaggine per il movimento dei diritti civili. E poi ricordo il movimento contro la guerra in Vietnam che era un movimento fatto da gente schietta, aperta, e c’erano anche un sacco di feste, in quel periodo. E quindi, che cosa ricordo? Ricordo quando la gente cominciò a portare quei buffi berrettini perché aveva ascoltato le canzoni di Bob Dylan, Joan Baez. Ricordo la prima esecuzione di ‘Light my fire’ di Jim Morrison e dei Doors. E ricordo che eravamo tutti animati dalla convinzione di essere nel giusto e di essere nei nostri diritti. Ballavamo tutta la notte al ritmo della musica dei Rolling Stones.”
La sua poesia all’inizio della sua carriera di poeta, si è molto avvicinata a quella dei Beatniks. Chi erano i Beatniks?
“In un certo senso ero vicino ai Beatniks e in un altro senso non lo ero. Ero un liceale all’epoca in cui Allen Ginsberg, Gregory Corso, Gary Snyder e altri hanno cominciato a leggere le loro poesie in giro. Ho impiegato molto tempo a capire la loro poesia, ma fin dall’inizio ho capito, ho sentito, la loro energia e l’euforia di essere con loro. Chi erano? E’ una domanda molto interessante… Erano i giovani artisti ribelli del loro tempo.
Però c’erano sensibilità diverse… Allan Ginsberg era proprio un newyorkese e quindi si portava dietro quella sensibilità tipicamente urbana, mentre Gary Snyder era dell’ovest, era del western e quindi aveva un’altra sensibilità. Si sono incontrati anche sul terreno della poesia, delle influenze diverse, dei filoni diversi. Il pensiero più ambientalista di Snyder si è incontrato con il filone di poesia più surrealista, più fantastico, più tipicamente urbano, di un Ginsberg. La cosa interessante è che sia Allan Ginsberg sia Gary Snyder avevano una cosa in comune: erano figli di genitori che erano stati giovani negli anni Trenta e quindi si portavano dentro un retaggio politico di sinistra, erano dei rivoluzionari perché i loro genitori erano stati dei giovani rivoluzionari. Snyder, Ginsberg e gli altri avevano in un certo senso rinunciato a tutto questo, erano forse più interessati a una Rivoluzione Culturale, una rivoluzione che cambiasse veramente la vita delle persone. Questo fa parte dell’ ‘effervescenza’ di quel periodo.”
Lei è stato amico e traduttore del grande poeta polacco, Czesław Miłosz, premio Nobel per la Letteratura nel 1980. Che ricordi ha di Miłosz?
“Uno dei miei amici di infanzia aveva studiato e si era laureato in lingue slave e aveva cominciato a leggere Miłosz, del quale io avevo solo uno dei sui libri di prosa (ndr. ‘La mente prigioniera’). Un libro che tutti i miei compagni al college conoscevano, alla stregua di ‘Lo Straniero’ di Camus, oppure di quelli di Primo Levi. Sapevo di Miłosz, ma non lo avevo mai incontrato fino a quando ci siamo trovati vicini di casa a Berkley. Nei nostri incontri parlavamo di poesia. Lui una volta mi ha chiesto di tradurre dei suoi versi in inglese. Gli feci presente che io non conoscevo la sua lingua, e gli dissi che trovavo le mie traduzioni un po’ rigide, un po’ formali. Lui mi chiese: ‘Ma in che senso rigide e formali?’ Gli dissi: “Per esempio questo verso può sembrare ‘pomposo’ tradotto in questo modo, ma se lo traduci in quest’altra maniera è più naturale, ma non so come si dica in polacco”. Insomma abbiamo cominciato a parlare di poesia e abbiamo continuato per altri 25 anni. Il punto è che per me e per la mia generazione la seconda guerra mondiale era una sorta di pietra di paragone morale, un metro per misurare tutto il resto. E naturalmente mi affascinavano tutte le esperienze di Miłosz in Polonia, sotto l’occupazione nazista e poi a Parigi e poi il suo rifiuto del comunismo e il fatto di essere stato rifiutato da alcuni suoi amici perché era antistalinista. Volevo conoscere la storia della sua vita e quindi piano piano abbiamo cominciato a lavorare insieme sulle poesie tra il 1977 e il 1978. Poi all’improvviso, come uno sparo nel buio, nel 1980 ha ricevuto il Nobel per la letteratura. A quel punto tutti volevano leggere i versi di Miłosz, E così la nostra collaborazione si è intensificata, accelerando il lavoro sulle traduzioni. Era più interessato alle sue posie recenti rispetto a quelle un po’ più datate. A me interessava conoscere la vita delgli immigrati polacchi a Parigi negli anni Trenta. Allora erano trattati come sono trattati oggi i Turchi in Europa. Volevo sapere come fosse la vita in Polonia sotto l’occupazione nazista. Abbiamo tradotto quelle poesie. Raccontare questo mi riporta in mente un aneddoto molto bello di un poeta cinese, Du fu, che riceve le poesie del suo amico Li Bai e gli scrive una lettera il giorno dopo in cui dice: ‘caro amico leggere i tuoi versi è stato come essere vivo due volte’. E un po’ questo quello che provo se ripenso alla mia amicizia con Miłosz. Noi ci vedevamo la mattina del lunedì nella sua casa sulle colline di Berkley da cui si vedevano San Francisco, la baia e il Golden Gate Bridge. Ci sedevamo e leggevamo insieme le sue poesie, tra queste una su un fiume in Lituania, oppure un’altra, su Campo dei Fiori a Roma e di come lo aveva veduto lui negli anni Trenta. Insomma eravamo in un altro mondo e lì lavoravamo sulla traduzione delle sue poesie in inglese. Sono stato davvero fortunato a conoscere e a lavorare con Miłosz.”
La sua poesia tratta di temi ambientali. Lei è ‘poeta laureato degli Stati uniti’, è considerato campione dell’alfabetizzazione ecologica. Ci racconta questa sua esperienza di poesia civile? Ci parla del suo atto di cittadinanza verso la poesia?
“Un giovane poeta è una persona che segue ciecamente il suono che sente e va avanti seguendolo. Lei mi invita a guardare indietro a quello che ho fatto io. L’inizio di tutto per me è stato il periodo in cui i Beat e altri avevano cambiato l’arte poetica e il linguaggio della poesia, rendendoli più vivi che mai. Ma allora ci si chiede: ‘Che cosa significa esser vivi?’ Poter dire: ‘Sono stato qui… ma anche il sognare un mondo migliore era una possibilità di fronte a tutta quella violenza che c’era. E questo era molto più stimolante …
L’inizio della mia carriera ha coinciso con la guerra in Vietnam, un periodo dolorosissimo per noi. Il paese nel quale eravamo cresciuti, nel quale credevamo e che avevamo tanto idealizzato, stava commettendo cose inenarrabili nei confronti di un altro popolo. Da parte mia ho cercato di trovare il mio percorso di vita… Mi sono sposato giovanissimo, ho iniziato ad avere figli molto giovane. Ero molto felice, ero molto innamorato, adoravo I miei figli e mi piaceva l’ambiente naturale della California. I giovani di oggi, invece, vedono il loro amato mondo sparire a causa di questo o quel modello di sviluppo.
Le mie poesie in quegli anni volevano essere soprattutto un atto di resistenza contro un mondo governato dal denaro e dalla violenza. E questo sentivo che si poteva fare anche descrivendo gesti quotidiani, come il volo di un corvo fra gli alberi. Sentivo che qualsiasi gesto che descriveva la vita terrena era un gesto contro la violenza. La mia poesia descriveva sentimenti molto personali, e in questo modo sono arrivato a concepire la poesia come un gesto civile o politico.
Ricordo anche che avevo circa vent’anni… cercavo di imparare a scrivere versi. Allora frequentavo l’università a Standford, in California, e ricordo benissimo la lezione di uno dei nostri professori che ci parlò di Eugenio Montale, del grande poeta italiano che scrisse la poesia ‘L’anguilla’ e ci spiegò dettagliatamente in che modo, nella desolazione e devastazione dell’Italia del dopoguerra, completamente distrutta, lo scintillìo della pelle dell’anguilla nelle acque melmose che si illumina di una sorta di riflessi arcobaleno fa pensare all’occhio dell’innamorato… e questo rimanda a quello che è Beatrice per Dante. Durante la lezione esaminammo i vari livelli della poesia e alla fine il professore ci disse che Montale dalla terra così dilaniata ci aveva condotto allo scopo della poesia, ovvero la Resurrezione. Lì mi sono detto: ‘Ecco. E’ quello che voglio fare’.
Questo è un esempio di come la poesia per me sia una candela che accende altre candele. Montale l’ha presa dalla tradizione italiana e poi l’aveva passata a quel professore britannico ed era arrivata a me giovane ventiquattrenne californiano e mi ha cambiato la vita. Questa sera nel pubblico ci sarà un ragazzo o una ragazza che ascolterà leggere le poesie di Sanguineti e questa candela sarà accesa perché questo fa la poesia.”
Lei negli Stati Uniti tiene dei corsi di poesia per i bambini. Perché crede la poesia sia così importante per i bambini?
“C’è un bellissimo libro sull’arte dei bambini scritto da una psicologa svedese dell’arte di cui al momento non ricordo il nome, ma ricordo la prima frase ‘il primo potere dell’arte è essere un agente attivo’. Se lei ci fa caso, quando un bambino disegna o dipinge non gli interessa per niente il prodotto finito, gli interessa fare. I bambini di oggi, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, penso crescano in maniera diversa rispetto a noi; hanno paura di quanto sta accadendo nel mondo, alla natura, all’ambiente naturale e allora, ho capito quanto poteva essere incredibilmente importante cercare di dare a questi bambini la sensazione di avere un potere fra le mani e credo che il modo migliore sia aiutarli a scoprire il potere della loro lingua, della loro capacità di disegnare e di scrivere. Quindi con altri miei amici ho avviato questo programma negli Stati Uniti che adesso ha delle filiazioni anche in Francia. L’associazione degli amici della Loira ha intrapreso un progetto per dare ai bambini la possibilità di fare arte e scrivere poesie sul loro ‘mondo naturale’, soprattutto ‘i corsi d’acqua’ attorno ai quali sono cresciuti. Questo è un mio progetto, che ho lanciato per darmi una speranza. Ho cercato di dare a me e a loro un po’ di speranza.”
Il 9 novembre 2011 lei ha partecipato ad una manifestazione a Berkley, in California, ed è stato colpito e aggredito da un poliziotto. Come è potuto accadere? Cosa stava facendo di così terribile?
“Sì, è successo a Berkley. Avevo sentito dire che i poliziotti stavano cacciando gli studenti dal campus universitario a manganellate e non potevo crederci. Sono voluto andare a vedere con i miei occhi che cosa stesse combinando la polizia e quindi mi sono beccato anche io un po’ di botte. Non è stata una cosa così grave, ho avuto diversi lividi per un po’ di giorni, mi facevano male quando ridevo. Pero dobbiamo porci delle domande: ‘Perche? In quale altro modo può rispondere l’autorità a gesti di resistenza se non con la violenza?’ Tutto qua. Le cose sono complicate perché, sa, questi poliziotti sono figli della classe lavoratrice. Giovani uomini e donne. Ci sono anche alcune giovani donne immigrate. Ho parlato con una donna poliziotto filippina, un’altra era vietnamita e molti dei poliziotti maschi erano neri. Sono giovani della classe operaia. E molti studenti intonavano i loro slogan e cantavano le loro canzoni. Sa, gli studenti di Berkley sono ragazzi molto privilegiati. Vengono dal ceto medio. Non sono come quelli di Harvard che sono molto agiati ma stanno molto bene e stavano prendendo in giro questi figli della classe lavoratrice. I poliziotti erano convinti di fare la cosa giusta cacciandoli e facendo valere l’ordine pubblico. Insomma, siamo alle solite: è la dinamica di forze diverse che si muovono dentro a una società rendendola ingiusta. Gli studenti stavano imparando che l’autorità sta sulla punta di un fucile, di un’arma. Questo è quanto veniva insegnato loro. Non lo so che cosa stessero imparando i poliziotti. Pero’ devo dire una cosa: io ho visto nei loro occhi lo spavento.
Sua moglie, Brenda Hillman, anche lei poeta, è impegnata in campagne per la difesa dell’ambiente negli Stati Uniti…
Mia moglie, Brenda Hillman, che è più militante di me, ma pratica una militanza non violenta… Si era inventata di andare alla manifestazione con dei libri per bambini per darli ai poliziotti e per fargli capire che piuttosto che stare li forse avrebbero dovuto essere a casa a leggere dei libri ai loro figli. È Brenda che si inventa tutti gli stratagemmi per trascinarmi in queste situazione, forse io non ci sarei stato a farmi menare se non fosse stata lei ad insistere sul fatto che anche noi dovevamo andarci.”
Traduzione di Domenico Molina
Massenzio FestivaLetterature di Roma
(19 luglio 2012)
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Robert Hass, nato a San Francisco nel 1941, è autore di raccolte tra le quali Field Guide (1973), Praise (1979) e Human Wishes (1989): Nel 1984 ha ricevuto il National Book Critics Award per la critica, e nel 1995 è stato eletto Poeta Laureato d’America. Insegna presso l’Università della California a Berkeley. Nel 2008 gli è stato conferito il premio Pulitzer per la Poesia.
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Robert L. Hass (born March 1, 1941, San Francisco) is an American poet. He served as Poet Laureate of the United States from 1995 to 1997. He won the 2007 National Book Award and shared the 2008 Pulitzer Prize for the collection Time and Materials: Poems 1997-2005.
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The Feast
The lovers loitered on the deck talking,
the men who were with men and the men who were with new
women,
a little shrill and electric, and the wifely women
who had repose and beautifully lined faces
and coppery skin. She had taken the turkey from the oven
and her friends were talking on the deck
in the steady sunshine. She imagined them
drifting toward the food, in small groups, finishing
sentences, lifting a pickle or a sliver of turkey,
nibbling a little with unconscious pleasure. And
she imagined setting it out artfully, the white meat,
the breads, antipasto, the mushrooms and salad
arranged down the oak counter cleanly, and how they all came
as in a dance when she called them. She carved the meat
and then she was crying. Then she was in the darkness
crying. She didn’t know what she wanted.
From Praice, 1979
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La cena
Gli amanti si attardavano in terrazza a parlare,
gli uomini che erano con uomini e gli uomini che erano con donne
nuove,
un po’ stridule ed elettriche, e le amanti ufficiali
che avevano modi composti e volti graziosamente segnati
e pelle di rame. Lei aveva tolto il tacchino dal forno
e gli amici chiacchieravano in terrazza
sotto il sole fermo. Lei se li immaginò
che si muovevano adagio verso il cibo, a piccoli gruppi, finendo
una frase, prendendo un sottaceto o un pezzetto di tacchino,
mangiucchiando un poco con piacere inconsapevole. E
immaginò di apparecchiare con arte, la carne bianca,
i pani, l’antipasto, i funghi e l’insalata,
disposti in buon ordine sulla credenza di rovere, e che sarebbero
venuti
come un balletto al suo richiamo. Tagliava la carne
e s’accorse di piangere. Poi si trovò al buio
in lacrime. Non sapeva cosa voleva.
(Traduzione di Damiano Abeni)
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ROBERT HASS
Poesie per Massenzio 2012
MEDITAZIONE A LAGUNITAS
Tutto il nuovo pensiero è sul lutto.
In ciò somiglia al pensiero antico.
L’idea, ad esempio, che ogni particolare cancelli
la chiarezza luminosa di un’idea generale. Che il picchio
delle ghiande che sonda il tronco morto scolpito
della betula nigra sia, con la sua presenza,
una sorta di tragica caduta da un mondo primigenio
di luce indivisa. Oppure l’altro concetto per cui,
dato che a questo mondo non esiste alcuna cosa
a cui il rovo della mora corrisponda,
una parola sia l’elegia dedicata a ciò che significa.
Ne abbiamo parlato fino a tardi ieri sera e nella voce
dell’amico c’era un filo sottile di pena, un tono
quasi querulo. Dopo un po’ ho capito che,
se si parla così, tutto si dissolve: giustizia,
pino, chioma, donna, tu e io. C’era una donna
con cui facevo l’amore e mi sono ricordato come,
stringendole talvolta le spalle minute con le mani,
provavo un veemente stupore per la sua presenza
come una sete di sale, del fiume della mia infanzia
con i salici sull’isola, musica frivola dai motoscafi,
recessi fangosi dove catturavamo persici argento-arancione
detti semidizucca. Non aveva quasi nulla a che fare con lei.
A lungo bramato, si dice, perché il desiderio è pieno
di distanze infinite. Io, per lei, devo essere stato la stessa cosa.
Ma mi ricordo così tanto, come le sue mani sbriciolavano il pane,
la cosa detta da suo padre che l’aveva tanto ferita, quello
che sognava. Ci sono momenti in cui il corpo è numinoso
come le parole, giorni che sono la carne buona che continua.
Una tale tenerezza, quei pomeriggi e quelle sere,
nel dire mora, mora, mora.
***
IL BANCHETTO
Gli amanti indugiavano in terrazza a parlare,
gli uomini che stavano con gli uomini e gli uomini che stavano con donne nuove,
un po’ stridule ed elettriche, e le amanti ufficiali
dai modi composti e dai volti graziosamente segnati
e pelle di rame. Lei aveva tolto il tacchino dal forno
e gli amici chiacchieravano in terrazza
sotto il sole costante. Lei se li immaginò
che si muovevano piano verso il cibo, alla spicciolata, finendo
una frase, assaggiando un sottaceto o un boccone di tacchino,
mangiucchiando qualcosa con piacere inconsapevole. E
immaginò di apparecchiare con arte, la carne bianca,
i pani, l’antipasto, i funghi e l’insalata,
disposti sulla credenza di rovere, e che sarebbero venuti
come in una danza al suo richiamo. Tagliava la carne
e s’accorse di piangere. Poi si trovò al buio
in lacrime. Non sapeva cosa voleva.
***
UN RACCONTO SUL CORPO
Il giovane compositore, che quell’estate lavorava in una residenza per artisti, l’aveva osservata tutta la settimana. Lei era giapponese, pittrice, vicina ai sessant’anni, e lui credeva di essersene innamorato. Gli piacevano quei quadri, e i quadri ricordavano il modo in cui lei muoveva il corpo, usava le mani, lo guardava dritto quando dava risposte divertite e ponderate alle sue domande. Una sera, passeggiando di ritorno da un concerto, arrivati alla porta di casa, lei gli si rivolse dicendo: “Penso che ti piacerebbe avermi. Piacerebbe anche a me, ma mi sento in dovere di dirti che ho subito una mastectomia doppia,” e vedendo che lui non aveva capito: “ho perso entrambi i seni”. La radiosità che si era portato nella pancia e nel cavo del petto – come musica – avvizzì all’istante, e si sforzò di guardarla mentre le diceva: “Mi dispiace. Non credo di riuscirci”. Si incamminò verso la propria baita tra i pini, e al mattino trovò una piccola ciotola azzurra sulla veranda davanti alla porta. Sembrava piena di petali, ma quando la raccolse si accorse che i petali stavano solo in superficie; il resto della ciotola – doveva averle spazzate dagli angoli del proprio studio – era pieno di api morte.
***
MUSICA SOMMESSA
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Forse dovresti scrivere una poesia sulla grazia.
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Quando ogni cosa rotta è rotta,
e ogni cosa morta è morta,
e l’eroe si è specchiato con assoluto disprezzo,
e l’eroina ha esaminato il proprio volto e i suoi difetti
in modo spietato, e il dolore che pensavano potesse,
come pegno della loro sincerità, liberarli da se stessi
non è più una novità e non li ha liberati,
e hanno cominciato a pensare, con dolcezza e distacco,
osservando gli altri andare per i fatti loro-
simpatie e antipatie, ragioni, abitudini, paure-
che l’amore di sé è l’unico debole stelo
di ogni sbocciare umano, e hanno capito,
quindi, perché erano stati pervasi, tutta la vita,
da una tale furia per difenderlo, e che nessuno-
se non un santo quasi inconcepibile nel suo bagno
di povertà e silenzio-può sottrarsi a questo violento, automatico
compagno di una vita, forse allora, una luce normale,
una musica sommessa sotto le cose, un che di incombente come la grazia appare.
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Come quando un amico mi raccontò della volta
che aveva tentato di uccidersi. La donna l’aveva lasciato.
Api nel cuore, poi scorpioni, larve, e poi cenere.
Era salito sulle travature del ponte,
verso la baia, un pomeriggio terso, celeste.
E nell’aria salmastra gli era venuto in mente, sull’espressione
“frutti di mare”, che aveva un che di vagamente ridicolo. Nessuno
diceva “frutti di terra”. Pensava che era umiliante per la perca iridescente
che aveva tirato a riva lucente dalla scogliera, per il boccapersico nero,
scaglie come carbonio levigato, su banchi di laminaria
lungo la costa-e si era reso conto che l’espressione era legata
ai granchi, alle cozze, alle vongole. Altrimenti
sarebbe bastato che i ristoranti mettessero “pesce” sulle insegne,
e quando si svegliò -aveva dormito per ore, rannicchiato
su una trave come un bambino-il sole calava
e lui s’era sentito un po’ meglio, ma impaurito. Si era messo la giacca
che gli aveva fatto da cuscino, aveva scavalcato il parapetto
con cautela, ed era tornato in macchina alla casa vuota.
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C’erano delle mutandine giallo limone
appese a una maniglia. Le esaminò. Troppo lavate.
Una sfumatura ruggine sull’inguine l’aveva fatto star male
di rabbia e di dolore. Più o meno sapeva
dov’era lei. Un appartamento su Russian Hill.
Si immaginava che quei due avessero appena fatto l’amore. Lei con le lacrime
agli occhi gli carezzava il mento, grata. “Dio”,
diceva lei, “mi fai stare così bene”. Luci baluginanti,
un panorama nebbioso in baso verso il porto e la baia.
“Sei triste”, notava lui. “Sì”. “Pensi a Nick?”
“Sì”, rispondeva lei, e piangeva. “Ce l’ho messa tutta”, adesso singhiozzava,
“ce l’ho messa davvero tutta”. E allora lui l’abbracciava per un po’-
alle pareti arazzi guatemaltechi collezionati nei viaggi di lavoro-
e poi avrebbero scopato di nuovo, e lei pianto ancora un po’,
prima di addormentarsi.
Quanto a lui, si sarebbe rappresentato quella scena
una volta sola, una volta e mezza, e si sarebbe detto
che l’avrebbe portata dentro di sé per chissà quanto tempo
e che non poteva fare altro
che portarla in sé. Uscì in veranda, e ascoltò
la foresta nell’oscurità dell’estate, la corteccia del corbezzolo
spaccarsi e arricciarsi con l’arrivo del freddo.
.
Non è il racconto, però, né l’amico
che si china verso di te e dice: “E poi mi sono reso conto…”,
che è la parte di una storia cui non si crede fino in fondo.
Avevo l’impressione che il mondo fosse così pieno di dolore
che a volte deve emettere una specie di canto.
E che la sequenza consola, quanto anche l’ordine consola-
Prima un ego, e poi il dolore, e poi il canto.
***
OSCURITÀ ACIDA E ALATA
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Una frase che contenga “ombra screziata”.
Un che di non dicibile
che sgorga dal silenzio del mattino
recondito come il tordo.
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L’altro, l’ufficiale, che portava cipolle
e vino e sacchi di farina,
il maggiore con il ginocchio gonfio,
pretendeva una conversazione intelligente, dopo.
Non avendo scelta, lei gli forniva anche quella.
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Potsdamerplatz, maggio 1945.
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Quando il primo ebbe finito le aprì a forza la bocca.
Bashō aveva consigliato a Rensetsu di evitare argomenti a sensazione.
Se l’orrore del mondo fosse la verità del mondo,
aveva detto, non ci sarebbe nessuno a raccontarlo
e nessuno a cui raccontarlo.
Pendo che raccomandasse di descrivere il vagamente frenetico
sciamare degli insetti vicino a una cascata.
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Le aprì a forza la bocca e ci sputò dentro.
Tramandiamo cose del genere,
probabilmente, perché siamo ciò che possiamo immaginare.
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Un che di non dicibile nel silenzio del mattino.
La mente alla spasmodica ricerca di somiglianza. “Tenero cielo”, ecc.,
curve che le rondini tracciano nell’aria.
di Robert Hass
(Traduzione di Moira Egan e Damiano Abeni)
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Un grazie particolare all’American Academy of Rome, a Damiano Abeni, Carmen Baez, Moira Egan e Domenico Molina.—
http://en.wikipedia.org/wiki/Robert_Hass
http://www.poetryfoundation.org/bio/robert-hass
http://www.festivaldelleletterature.it/it/artisti/102/robert-hass.html
Grazie per avermi fatto conoscere in modo più approfondito un poeta.filosofo(secondo me) di cui avevo sentito parlare e di cui non comprendevo completamente le poesie.
Rosa, che piacere sentirle dire “un poeta-filosofo”. Ma si riferisce ad Hass? o al suo amico Czesław Miłosz di cui Hass parla a lungo nell’intervista? Non vorrei sbagliarmi, ma Hass non ha pubblicazioni individuali in Italia. E’ stato parzialmente tradotto da Abeni e Egan in occasione di suoi viaggi qui in Italia, naturalmente legati alla poesia.