Sloterdiijk, “Stato di morte apparente”

Nello scaffale Peter Sloterdiijk
“Stato di morte apparente”
Raffaello Cortina Editore 2011 (euro 10,00)
a cura di Luigia Sorrentino

“L’ascesi 2.0 di Sloterdijk: salviamoci da questo brodo socialtecnologico con una sana epoché”

di Laura Cervellione

Paragonare agli idola di baconiana memoria le chiassose tribù e sottotribù telematiche che pullulano nella nostra modernità 2.0 potrebbe suonare scontato, se non addirittura reazionario. Eppure, se presa con il grano salis che ci vuole, è quasi liberatoria l’ultima provocazione di Peter Sloterdijk, il filosofo teutonico di Karlsruhe. Erede “clandestino” della Teoria Critica, protagonista, con Habermas, di una querelle attorno alle biotecnologie, da sempre avvezzo ai controcorrentismi, irridente verso certa cultura universitaria autoreferenziale, uno dei filosofi meno ingessati e più sfrontatamente mediatici degli ultimi tempi (tanto da arrivare a condurre un programma tv filosofico su ZDF), ecco che adesso se ne esce proponendoci un anacronistico riflusso in un cantuccio di pacato stoicismo.

Forse è incoerenza, ma parliamo pur sempre del filosofo che, nell’era del posthistoire e della fine delle grandi narrazioni, si è imbarcato nella poderosa trilogia Sphären, oltre duemilacinquecento pagine di sintomatologia dell’ossessione del sapiens d’essere protetto da pareti fisiche e metafisiche.
Ebbene, ora è anche quello che, nell’era dell’sms e del tweet, in barba ai webfanatici, fregandosene di mode intellettuali e trend topics, decide che è arrivato il momento, in questo brodino cibernetico senza capo né coda, di guadagnarsi qualche spazio di sacrosanto isolamento, un hortus conclusus ritagliato grazie a una fisiologica epoché. E in effetti non può non spiazzarci l’invito, sottilmente burlone, alla “disattivazione egotistica” contenuto nel suo ultimo libro Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio (Raffaello Cortina).

Da una parte va capito. Quando lo sbrodolamento collettivo di botta e risposta mette a dura prova la concentrazione, quando l’ubriacatura da up to date e stay-connected permanenti crea un sovraccarico di stress, quando si realizza che è l’eccesso di tutto la vera prigione, quando “les autres” diventano effettivamente un inferno, specie se amplificati da pc, televisori, social network, telefonini, videofonini, allora sì che urge lavorare a un’exit strategy dal dibattito del momento, dal tag su “Facebook”, dai caricamenti tramite “Instagram”, trovare una valida scusa per sfilarsi dall’ambaradan di commenti e controcommenti, per pascersi finalmente di un attimo di beata solitudine dello spirito. La soluzione la trova così: il miglior alibi da rifilare alla community è sembrare morti, proprio come Biancaneve nella bara di cristallo in mezzo al bosco o l’anacoreta nel deserto.

Però oggi, in assenza di deserti a portata di mano e dei solerti sette nani, come si sfugge a questo monologo tecnocratico superinvasivo? Ovviamente con una tecnica (e che pensavate). Più precisamente, con un’antropotecnica, per riprendere un suo vecchio cavallo di battaglia, sistematizzato nel suo saggio-mammut Devi cambiare la tua vita. Il termine, lungi da denotare un proclama di biopolitica aggressiva (cosa di cui l’autore è stato accusato), spiega invece un semplice teorema dell’antropologia storica, secondo cui l’ego è da capo a piedi un prodotto.

Vista dal lato teoretico, il fuoriclasse nelle produzioni tramite messe tra parentesi è il filosofo tedesco Edmund Husserl. Con lui la posizione dell’epoché fenomenologica è depurata da tutto. Niente empirismi immondi, niente cedimenti a gretti psicologismi, niente nefande passioni, solo l’immacolato spirito che si riflette in uno specchio d’acqua clara et distincta. Facile denunciare il solito cliché, poco dem e molto snob, dell’estraniato cronico che si erge sul trespolo dell’altezzosità intellettuale. Eppure questo addio al mondo, se preso nel suo valore tecnico-pragmatico, è un tic da riabilitare, la tanto stigmatizzata incurvatio in te ipsum è solo una naturale e sana rigenerazione delle proprie prestazioni sistemiche.

L’apparato concettuale di Husserl diventa così per Sloterdijk perfettamente funzionale al discorso. Basta una potatina con le cesoie della teoria dei sistemi di Niklas Luhmann, ed ecco che le spremute di meningi di Husserl, come del resto gli arrovellamenti di tutta una tradizione di ascesi teoretiche da Platone agli idealisti, diventano in un baleno nient’altro che l’immenso sforzo di imitare quella furbetta di Biancaneve, la grande stratega dell’immunizzazione.

Il saggio stoico è l’antenato del single contemporaneo proprio in questa tentata immersione in una cellula di auto-contenimento. Del resto anche Nietzsche, maestro di psicologia dinamica, usava il vocabolario medico per elaborarne una regola di vita, da organizzare nelle forme di una reazione immunitaria integrale. Quest’ultima la si ottiene di volta in volta accettando o respingendo la massa di segnali esterni, sottoponendoli a un test di commestibilità psichica tramite il principio della vaccinazione “quel che non mi uccide mi rafforza”.

La costellazione delle “antropotecniche applicate”, o se si preferisce Foucault, delle “tecnologie del sé”, se non cade nei soliti cortocircuiti narcisistici o peggio autistici, è in effetti un campo poco battuto. Questo se si escludono i discorsi in vesti più sacrali che si ritrovano ad esempio nelle Regulae eremitiche, che però postulano sostegni extraumani e lussi come Poteri Superiori che un pensatore moderno rivolto a un’audience multiculturale non si può permettere. Ma resta lo stesso nella tradizione tutta una serie di armamentari che sarebbe divertente rispolverare (e che poi potrebbe democraticamente tornare a vantaggio di tutti, atei, spirituali, agnostici e altrimenti credenti).

Se si riesce in quest’opera di fortificazione della cittadella interiore, l’utopia sottesa è che se ne conseguano vittorie evolutive in termini di lucidità di spirito e dominio di sé. Ma c’è di più. Con l’attitudine ascetico-sacrificale del “non sporcarsi le mani” si varca la soglia delle cosiddette “verità incondizionate”, prive del contagio delle altrui aspettative, pressioni, provincialismi. Si mira insomma a una luce di universalismo cosmopolitico. Alte Cognizioni che ai giorni nostri si palesano solo nella mente di qualche visiting professor.
Per lo Sloterdijk antropologo, questo bozzolo è l’incubatore dell’evento “educazione”, la cui origine è dovuta alla funzione sedativa dello stare seduti: «Ciò che chiamiamo cultura è in buona parte un “sedativo” non chimico», che è poi la traduzione dell’ideale stoico dell’apátheia. In realtà, dai monaci ai santoni indiani c’è una fenomenologia vastissima di eroi della continenza, come dimostra un altro suo testo non ancora tradotto in Italia, Weltfremdheit (1993).

Ma andando a concretizzare: uno che volesse risparmiarsi il Tavor e invece si fosse persuaso dell’utilità di questa ginnastica culturale, come s’attrezza? Un punto di partenza lo si trova in un trattatello di amministrazione dell’esistenza scritto nel 1939 dal francese André Maurois, “Un’arte di vivere”: il libro ospita finezze che rendono Maurois un ottimo candidato personal trainer. Vi si trovano ricette su come predisporre l’atmosfera per un lavoro intellettuale, leggere un libro comme il faut, allontanare i vari “cronofagi”, quei divoratori di tempo che attentano alla concentrazione necessaria per qualsiasi opera. C’è persino il consiglio di non farsi distrarre da eventuali “civette” e, a complemento, un’imprescindibile arte di riposarsi.
Qualche dubbio però rimane. In questi multiformi regimi d’astinenza si respirano le solite arie dell’apocalittico, il goffo albatros inadatto alla vita che dall’alto condanna. Un trucchetto narcisistico, insomma, che fa leva su chissà quale cultura per rovesciare una capitolazione sociale in una rivincita teoretica. Eternamente ritorna il dubbio che sulla leopardiana “vetta della torre antica” da cui torreggia il filosofo “passero solitario” che “in disparte” il tutto mira, spunti il poco simpatetico implicito che l’intellettuale sia per costituzione una spanna sopra. La melanconia (conseguente all’astinenza) pone al di fuori (leggi: “al di sopra”) della società, ovviamente con immensi vantaggi epistemici, perché senza il congelamento della Bildung nel sanatorio di Davos, quello della Montagna incantata di Thomas Mann, non c’è cultura alta o intuizione superiore o Settembrini o Naphta che tenga.

A onor del vero, che tramite un’apátheia si arrivi magicamente a un’alétheia e poi anche a un’autàrkeia sarebbe ancora da dimostrare. In attesa di una compiuta critica della ragion dietetica, va osservato che il più pragmatico (e sincero) Leopardi, capofila lui malgrado di tutti gli outsider, realizzava benissimo che, mentre indugiava “in altro tempo”, “il giorno sereno/ cadendo si dilegua, e par che dica / che la beata gioventù vien meno”. Constatazione cui faceva seguire l’inequivocabile suggello emotivo: “Ahi pentiromi”.

(Articolo di Laura Cervellione scritto per “Il Riformista”, e pubblicato il 12 febbraio 2012)

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