Thomas Edward Lawrence, A S.A

Riletture
a cura di Luigia Sorrentino

Nota di lettura di Giorgio Galli

“Per oltre trentacinque anni le più accese controversie si sono disputate sul nome di T. E. Lawrence. Chi era veramente? Era un eroe? Era un ciarlatano?” Nei cinema di mezzo mondo, nel 1962, questa domanda annunciava l’uscita imminente del kolossal di David Lean Lawrence d’Arabia. La risposta l’aveva data molti anni prima lo stesso T. E. Lawrence, nelle pagine dei Sette pilastri della saggezza che descrivono il suo incontro col generale Allenby: “Non avrebbe mai potuto distinguere in me il ciarlatano dall’uomo d’azione”. Forse non li distingueva neanche lo stesso Lawrence.
Impareggiabile simulatore e dissimulatore, mitomane patologico, forse grande condottiero, di certo raffinato intellettuale, Lawrence incarnò meglio di chiunque altro la fine di un’epoca. Le critiche alla sua visione geopolitica sono antistoriche: nessun uomo occidentale del suo tempo poteva avere una visione del mondo arabo veramente lucida e obiettiva. Lawrence non uscì mai da una visione colonialista -sia pure d’un colonialismo filantropico e “benevolo”- perché non poteva. Inglese, figlio -va bene, illegittimo!- di un aristocratico, politicamente conservatore, convinto che a far la storia fossero gl’individui eccezionali, classe 1888, Lawrence era antropologicamente eurocentrico. Amava l’Arabia perché l’Arabia era la sua grande impresa, sognata e cullata fin dai giorni d’infanzia.

Un problema psichico -non sappiamo con precisione quale: forse traumi domestici, forse un’identità sessuale difficile da accettare per un uomo del suo tempo- rese Lawrence un essere autodistruttivo, estraneo a se stesso, bisognoso d’essere un altro. I pochi video catturano i gesti d’un uomo nervoso, insicuro, a disagio tanto nei panni inglesi che in quelli arabi. Le foto mostrano un viso strano, ragazzesco, con un’espressione ambigua e sfuggente, sovente romanticamente atteggiata, innaturale, impavesata da un sorriso furbo e da occhi che sembrano non avere un’anima da rispecchiare -occhi “d’una trasparenza animale”, è stato detto. Un uomo così era l’ideale per simboleggiare la crisi dell’imperialismo, e le complesse ragioni del colonialismo britannico dal desiderio predatorio a quello d’evasione. Non saprei dire se Lawrence soffrì del “mal d’Europa”, ma di certo ne divenne l’icona.

Il film di Lean è un po’ come lui: controverso. C’è chi lo trova un capolavoro e chi un falso storico. A voler guardar bene, a parte i molti errori cronologici e geografici, Lean non ha voluto dare una rappresentazione realistica della figura di Lawrence, ma piuttosto rendere l’atmosfera ch’emana dalle pagine dei Sette pilastri della saggezza. Il comportamento folle, egolatrico, affettato in cui gli amici e i parenti non hanno riconosciuto il vero Lawrence, è in realtà la rappresentazione in cinema dello stile barocco e narcisista della prosa lawrenciana.

Posta in apertura dei Sette pilastri della saggezza, questa poesia ne costituisce la dedica A S.A. Chi è S.A.? Lawrence non l’ha mai voluto dire. C’è chi crede si tratti d’un amico (forse amante, forse amato) arabo di gioventù, chi d’un’entità astratta (l’Arabia stessa, forse), chi d’un eteronimo di Lawrence medesimo: il quale ancora una volta simula, dissimula, miteggia.

E’ persin banale l’osservazione che, col mistero attorno a S.A., Lawrence abbia voluto creare un giallo letterario sulla scorta di quello che circonda il fair youth dei Sonetti shakespeariani. Più interessante è, forse, notare come nella poesia araba vi sia sovente una voluta ambiguità, per cui è difficile capire se il poeta si stia rivolgendo alla persona amata o a Dio. Troviamo tratti analoghi anche in certa poesia mistica cristiana, dove l’esperienza del divino è descritta in termini d’appassionata sensualità. Il coltissimo Lawrence sicuramente aveva a mente questa ambiguità e l’ebbe presente nello stendere la sua poesia. Se l’amore sotto la cui egida è narrata l’avventura dei Sette pilastri sia quello per il giovinetto Sheikh Ahmed o quello per il “sogno d’Arabia” che guidò tutta la vita di Lawrence, non lo sapremo mai. Ma c’interessa sapere che questa poesia, come tutto Lawrence, si pone fin dal titolo sotto il segno dell’artificio. E’ la poesia che dà il tono a un libro in cui tutto è incredibilmente alessandrino, eppure tutto incredibilmente intenso. E’ la traduzione stilistica di quei filmati che mostrano Lawrence a disagio tanto nei panni arabi che in quelli occidentali: Lawrence vi si traveste da arabo, ma il suo gusto, la sua lingua sono vittoriani, risentono l’influenza di certe atmosfere di Rossetti. E’ poesia su poesia, scrittura su scrittura, callimachismo imbevuto di grandeur. Eppure ha una sua forza. La forza delle regioni psichiche oscure, dove anche l’acqua s’impregna dell’ombra e il contatto con la realtà vissuta è quasi inesistente.

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A S.A.

Ti amavo: e ho attirato per ciò queste fiumane d’uomini
Nelle mie mani, ho scritto la mia volontà
Lungo tutto il cielo e le stelle,
Per darti la libertà
E per costruirti una casa dai sette pilastri,
Dove i tuoi occhi potessero risplendere per me
Quando arrivavo.
.
La morte pareva la mia serva
Sulla strada, fino al momento che fummo vicini
E t’avvistammo mentre aspettavi;
E tu mi sorridesti, e con dolente
Invidia lei mi superò
E ti prese con sé nella sua quiete.
.
L’amore, stanco della strada, palpeggiò il tuo corpo,
Nostro magro salario,
Nostro per un istante,
Prima che la morbida mano della terra esplorasse le tue forme
E i ciechi vermi s’ingrassassero della tua sostanza.
.
Gli uomini mi pregarono d’iniziare la nostra opera,
La casa inviolata
Che custodisse memoria di te.
Ma affinché fosse adeguata io la atterrai
Ancora incompiuta: e adesso
Quei piccoli esseri strusciano fuori
E vanno a costruirsi dei tuguri
All’ombra guasta
Del tuo dono.

(Traduzione di Giorgio Galli)

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