Carlo Bordini, riflessioni sul festival di Medellin

I colombiani “amano la poesia perché la confondono con la speranza”, questa sembra essere l’estrema sintesi della riflessione che fa del festival di Medellin il poeta Carlo Bordini (nella foto di Fulvio Pellegrini).

Ebbene, vi invito a leggere questa lettera. Si tratta di una lettera indirizzata  ‘convenzionalmente’ a me, nella realtà riguarda noi tutti. Leggetela. Pone interrogativi importanti sulla poesia, sullo scrivere o sul ‘performare’ poesia. Sull’ essere o non essere poeta.

Certo Carlo, forse non bisognerebbe confondere la poesia con la speranza.  Bisognerebbe pensarci, quantomeno parlarne… Non so come la pensino i nostri lettori. Lo scopriremo, nei commenti a questo post.

RIFLESSIONI SUL FESTIVAL INTERNAZIONALE DI POESIA DI MEDELLIN
di Carlo Bordini

Cara Luigia,

Volevamo fare una discussione a tre sul Festival Internazionale di Poesia di Medellin, Luigi Cinque, Francesco Pontorno e io. Luigi Cinque perché ha partecipato anche lui al festival, come me (lui nel 2010, io nel 2011), Francesco Pontorno perché molto interessato alla cosa. Volevamo registrarla e mandartela. Per una serie di ragioni, soprattutto di tempo e di lavoro, questo non si è potuto fare. Allora ti mando questa lettera io, poi loro magari interverranno più tardi, oppure si farà finalmente questa discussione a tre.
Te lo mando come lettera perché vorrei mischiare narrazione e considerazioni. Questo è una specie di racconto.

Dunque, per prima cosa, arrivo a Bogotà, a giugno. All’aeroporto il poliziotto della dogana mi chiede:

Cosa è venuto a fare in Colombia?
Devo fare una lettura alla Casa Silva e partecipare al Festival di poesia di Medellin.
Lei è un poeta?
Sì.
Scrive anche narrativa?
Qualche volta.
Benvenuto in Colombia.

Qualche mese dopo ho partecipato al festival di poesia di Trois-Rivières, nel Québec.

All’aeroporto il poliziotto mi chiede:

Che cosa è venuto a fare in Canada?
Devo partecipare al Festival di poesia di Trois-Rivières.
La pagano per questo?

Questi piccoli dialoghi per dare un’idea di una differenza di mentalità e di vita tra il nostro e l’altro mondo.

A Bogotà ho fatto una bellissima lettura alla Casa de Poesia Silva. Mi ha presentato Martha Canfield, che aveva fatto anche lei, il giorno prima, una lettura di poesie. Martha è una poetessa uruguaiana che insegna letteratura ispanoamericana all’università di Firenze. Tra gli ascoltatori c’era anche, con mia gioia, il figlio di Álvaro Mutis, il grande scrittore colombiano.

La Casa de poesia Silva è la casa dove visse e si suicidò il poeta José Asunción Silva, uno dei più grandi poeti colombiani. E’ monumento nazionale ed è, oggi, la casa di poesia più importante dell’America Latina. In Italia sarebbe inconcepibile che una casa in cui un poeta si è suicidato divenga monumento nazionale. Anche questo può dare un’idea della differenza di mentalità tra il nostro e il loro mondo.

A Bogotà ho anche rivisto, oltre ad altri amici, Marcela Salazar e suo fratello Rodrigo, che ha fatto la copertina per il mio piccolo libro sulla poesia in America Latina.

Poi con Pedro Gomez, direttore della Casa Silva, abbiamo preso l’aereo e siamo andati insieme a Medellin. La prima impressione che mi ha fatto Medellin, quando siamo entrati nella città col pullmino che ci trasportava dall’aeroporto, è stata che ci fosse in atto una rivoluzione. Poi mi sono accorto che quella che mi sembrava una rivoluzione era semplicemente una turba di gente, numerosissima, che attraversava un semaforo. La seconda impressione è stata vedere la povertà. E ho pensato: ecco, noi adesso andiamo in un albergo, dove siamo nutriti bene e protetti, a leggere poesie che magari parlano dei problemi del mondo, e qui la gente muore di fame. L’idea non mi è piaciuta affatto.

(Foto sotto:  di Luz Stella Martinez – Luces)

Sono venuto così in contatto col mitico festival di poesia di Medellin, il festival a cui tutti i poeti vorrebbero partecipare. Stavamo in un albergo anni ’50. C’era una grande organizzazione. Quell’anno partecipavano centouno poeti. Per ogni poeta c’erano tre o quattro persone che lavoravano: accompagnatori, traduttori, librai. Autisti. Conobbi il mitico Fernando Rendón, fondatore e direttore del festival, uomo di grande carisma e vitalità. Conoscevo già l’amore dei colombiani per la poesia, a a Medellin ho cominciato a conoscerlo meglio.

Il festival funzionava così: c’erano due sessioni, quella di apertura e quella di chiusura, che si svolgevano in un anfiteatro, e a cui partecipavano alcune migliaia di persone. Gli altri giorni (il festival durava una settimana) i poeti, in gruppi di quattro, la cui composizione variava continuamente, leggevano una o due volte al giorno in biblioteche, librerie, scuole, centri culturali, parchi, centri sportivi. Tutta Medellin era costellata di letture di poesie a cui partecipavano dalle trenta alle cento persone. Il festival coinvolgeva quindi migliaia di persone. Le letture erano sempre accompagnate da un banchetto coi libri dei poeti presenti.

All’interno dell’albergo, che era il centro del festival, nella hall, era sistemato un grandissimo banco che vendeva libri di poesia. E tra l’altro vendeva anche la rivista del festival, la rivista Prometeo. Per ogni poeta partecipante c’erano, all’interno della rivista, che era fatta benissimo, tre pagine di poesia, un curriculum e una foto. Questa rivista si vendeva in migliaia di copie. Molte persone giravano per l’albergo con la rivista e quando riconoscevano un poeta gli facevano fare una dedica, all’interno, nelle pagine che lo riguardavano.

Il poeta in Colombia è un personaggio, è l’emissario degli dei, quello che spiega agli altri il senso della vita, quello che dice la verità. Tra il pubblico che partecipava alla letture c’era un’enorme quantità di giovani. Io avevo stampato in Italia un libretto con delle poesie tradotte in spagnolo e lo regalavo, ed era accolto con avidità. C’era anche una sorta di feticismo in questo. Una volta feci un autografo a una ragazzina con l’apparecchio per i denti, e le chiesi: “quanti anni hai?” Mi rispose: “sedici”.

Al festival era abbinata, quest’anno, una riunione di tutti i direttori di festival di poesia del mondo; da questa riunione è nato un coordinamento mondiale dei festival di poesia.

Un aspetto non secondario che caratterizza il festival di Medellin è il suo recupero letterario delle lingue native che sono state schiacciate dallo spagnolo. C’erano molti poeti che leggevano le proprie poesie nella lingua nativa e in spagnolo, e diversi libri in entrambe le lingue.

Al festival ho conosciuto diversa gente. Ho rivisto Lello Voce, che già conoscevo; ho conosciuto Gabriel Impaglione (argentino) e Giovanna Mulas, che vivono in Sardegna. Attraverso Pedro ho conosciuto José María Memet, poeta cileno, che dirige il festival di poesia di Santiago, e due giovani insegnanti di Medellin, Diana Lucia Restrepo e Luz Stella Martinez (Luces).
Ho conosciuto anche un poeta cubano, Alex Pausides, che mi ha proposto di diffondere a Cuba la mio Poema a Trotsky. Mi ha detto che a Cuba, in questo momento di crisi, c’è un certo interesse per Trotsky.
Pedro, José, Luz, Diana e io facevamo gruppo, e stavamo spesso insieme.

Con Pedro abbiamo girato molto anche per Medellin, che è una città molto bella, e con gente meravigliosa dal punto di vista umano. Una cosa mi ha colpito: una volta siamo andati a visitare un acquario. Siamo stati accompagnati nella visita da una ragazza dell’organizzazione, di chiara origine india. Quando ce ne siamo andati, la ragazza ci ha abbracciato e ci ha baciato con affetto. Così. Perché eravamo forestieri. Come si accolgono degli ospiti.

Io chiedevo a tutta la gente che incontravo al festival: perché i colombiani amano la poesia? Ottenevo le risposte più diverse. “Perché la poesia ci rende umani”. “Perché il festival è stato una sfida al narcotraffico, ed è nato in un periodo in cui era pericoloso anche uscire di casa”. Un giovane mi disse: “Perché la poesia mi aiuta a vivere”. C’era sempre, nelle risposte, un legame strettissimo tra poesia e vita. La risposta più fulminante me l’ha data un poeta colombiano, Mario Ángel Quintero. Stavamo mangiando nella mensa dell’albergo, e io gli ho chiesto, come a tutti: “Perché i colombiani amano la poesia?”
Mi ha risposto: “Perché la confondono con la speranza”.

Luces mi raccontò una storia, anzi, me la fece vivere. La storia è questa; intorno a Medellin, sulle colline, ci sono i quartieri dei poveri, i desplazados, quelli che sono stati cacciati dalle loro terre dai grandi latifondisti. Questi poveri furono utilizzati in passato come killer dai signori della droga, dal tristemente famoso cartello di Medellin. Luces è nata in uno di questi quartieri, Santo Domingo. La sera non si usciva, e si sentivano da fuori i colpi di arma da fuoco, e si diceva: “ne è caduto un altro”. Luces la mattina andava a scuola camminando sui morti. Doveva passare in un vicolo in cui venivano buttati i cadaveri degli uccisi nella notte. Poi un giorno (te lo dico come lei me lo raccontò, Luigia) la maestra le fece leggere una poesia, e lei allora capì, mi disse, che la sua vita poteva diventare migliore.

Ma la storia non finisce qui. L’amministrazione comunale di Medellin gestì il rapporto con questo quartiere miserabile e assai pericoloso nel modo seguente: costruì una modernissima ovovia che collega il centro di Medellin col quartiere. Non lo isolò, ma lo collegò. E questo quartiere, che odiava la città, cominciò a cambiare. Anche dal punto di vista economico. In mezzo alle baracche nacquero dei piccoli negozi, delle attività commerciali.

Pedro (che, tra l’altro, è un poeta onirico di grande valore fantastico), Luces, il poeta olandese Cees Nooteboom ed io andammo un giorno con l’ovovia a Santo Domingo, e lì vedemmo la cosa più utopistica, più fantasmagorica, più fantastica, che fa capire come il futuro sia di questi paesi, perché sono capaci di investire in cultura, in speranza, in progetti, in utopie: lì visitammo la famosa Biblioteca España. Sì, perché in questo quartiere miserabile è stata costruita una gigantesca, avveniristica biblioteca. E’ una biblioteca architettonicamente splendida, costruita da un architetto italiano che vive in Colombia, è tutta nera e sembra una roccia, ed è costruita proprio su una roccia. Domina la città. In una rapida visita ho visto passando una nurserie per tenere i bambini, e ho visto una ragazza dai tratti somatici completamente indi, che avrà avuto quindici anni, o forse di più, che teneva in braccio un bambino piccolissimo e sfogliava un libro illustrato. Forse un atlante, o o un libro di viaggi, o un libro d’arte. Ogni volta che voltava pagina la ragazza si rivolgeva al bambino e gliela mostrava. Ho pensato che forse il bambino non capiva molto, ma che la ragazza, nata in quel quartiere, stava scoprendo per la prima volta il mondo attraverso un libro, e lo mostrava al figlio.
Poi ho parlato con un giovanissimo bibliotecario che mi fece vedere l’altro aspetto della biblioteca. Mi disse: io sono un buon lettore, mi faccia leggere le sue poesie, le darò un’opinione…

Al festival di Medellin ho conosciuto un tipo di poesia che non conoscevo, perché non la pratico e non la frequento: la poesia performativa. La poesia performativa che ho incontrato a Medellin è diversa da quella che noi conosciamo in Italia: è prevalentemente poesia civile. Ho apprezzato alcuni di questi poeti, in particolare la keniana Shailja Patel e il tedesco Julian Heun per il pathos che riuscivano a dare alla lettura delle loro poesie; ho anche apprezzato l’energia e la forza delle letture di José Maria Memet, del colombiano Fernando Linero, che avevo già conosciuto a Bogotà, e di Fredy Chicangana, colombiana della Nación Yanacona, che mi regalò un suo libro in runa shimi e in spagnolo.

Devo dire però, e questo è il problema più importante e intrigante che voglio affrontare, e che ho discusso con Francesco e con Luigi al mio ritorno, ed è il problema che pongo in questo scritto, e su cui non ho assolutamente le idee chiare, ma che voglio discutere, devo dire che il festival di poesia di Medellin, che per me è sempre stato un mito, mi ha parzialmente deluso. Mi ha in parte esaltato, per l’impatto sociale che ha la poesia in Colombia e nella città di Medellin, per il suo legame con la vita umana, per le ragazzine con l’apparecchio sui denti che chiedevano un libro di poesie, per la grande quantità di giovani che seguono le letture, per il silenzio intensissimo con cui le letture erano accolte, per la passione con cui tutto era organizzato e condotto, per l’utopia che incarna, ma mi ha deluso per altre ragioni. C’era una differenza di qualità e di intensità tra le piccole letture che venivano fatte tutti i giorni (a cui partecipavano comunque, nell’insieme, migliaia di persone) e le due grandi letture plenarie dell’inizio e della fine. Nelle prime c’era un’attenzione diversa, più selezionata, e nell’insieme un pubblico più colto; nelle sessioni plenarie c’era un pubblico da concerto rock, e i poeti che erano più applauditi e che suscitavano più entusiasmo erano, senza nessun dubbio, i poeti peggiori. Là ho visto l’aspetto negativo, volgarizzato, della poesia performativa. E questo fenomeno veniva accentuato dalla presenza di troppi “tromboni” tra i poeti, di una poesia “civile” scadente, di troppi elementi folkloristici sbandierati sotto il naso di un pubblico che in questo modo, mi duole dirlo, veniva più diseducato che educato alla fruizione della poesia, della poesia come modo critico e profondo di osservare e anche di sognare la vita. Questa non è stata solo una mia sensazione, ma quella di molti dei partecipanti al festival, e la sintesi migliore di questa sensazione sono le parole che ci disse, riferendosi alla sessione di chiusura, il poeta messicano Marco Antonio Campos, che incontrammo al ritorno, all’aeroporto di Medellin (devo dire che era piuttosto esasperato): “Legge un poeta performativo, e tutti applaudono; poi legge un grande poeta, e nessuno se ne accorge”.

Mi sono posto molti problemi al mio ritorno in Italia. La grande accoglienza che il pubblico fa alla poesia in Colombia e in generale in America Latina mi ha sempre entusiasmato. Ma a un certo punto ho cominciato a chiedermi: sì, certo, i colombiani amano la poesia, ma forse non sanno sempre distinguere tra la buona e la cattiva poesia. E le parole di Mario Ángel Quintero mi sono tornate alla mente con un significato più netto: “amano la poesia perché la confondono con la speranza”.

Sono certo che un certo populismo o una scarsa cura nel selezionare i poeti invitati siano una parte del problema. Uno dei direttori di festival presente a Medellin (c’era lì, come ho accennato, una riunione di tutti i direttori di festival di poesia del mondo) mi disse: “Io, al mio festival, i poeti li seleziono”. Ma il problema è anche più complesso. Tra i poeti che io personalmente non avrei invitato c’erano anche dei “grossi” nomi. In una discussione di pochi minuti Luigi Cinque mi disse: “Guarda, non dovrei dirlo, ma mi sono convinto che la poesia è un’arte esoterica. Sono stato a sentire in un posto le cazoni degli anni ’70 e mi sono accorto che erano terribilmente banali”.

Non so. Non so nulla. Ma bisognerebbe pensarci. Non mi piace la poesia che si diverte a non comunicare niente. Forse il problema non è risolvibile. Forse il problema lo risolve solo la grande poesia, che è rarissima, e che in fondo non ci riguarda… ma forse un esempio di poesia non retorica e non riservata a pochi eletti ce lo lascia una donna, un poeta recentemente scomparso, il cui nome era Wislawa Szymborska…

PS. Nell’intervallo tra la scrittura di questa lettera e il suo invio sono stato a Lima, al primo Festival Internacional di Poesia di quella città (ormai il mio destino è viaggiare). L’accoglienza alla poesia in quella città è stata pari a quella che hanno tributato alla poesia gli abitanti di Medellin: ma lì il livello della poesia era più uniforme, senza tromboni e personaggi folkloristici. Allora ho capito molte cose. Ho capito che è possibile. Ma che solo popoli con un gran cuore possono amare la poesia.
Un abbraccio.

Carlo

9 pensieri su “Carlo Bordini, riflessioni sul festival di Medellin

  1. Bello, bello, bello, Carlo. Un gran bel pezzo di prosa il tuo, una prosa da venerare per il suo andamento incerto che trova come per caso gesti e parole illuminanti. Il dubbio è la domanda, la fducia la risposta. Il dubbio è fiducia in cammino.

  2. Sì, Paolo Morelli, condivido. E’ proprio bello bello bello questo pezzo di prosa di Carlo Bordini. Carlo pone il dubbio, giustissimo… ma accoglie anche, accoglie la risposta che gli dà questo popolo, la poesia come “speranza”.

  3. Stefano Masetti, aspettiamo di sapere dal diretto interessato, Carlo Bordini, se a Medellin c’erano poeti locali che scrivono poesie per bambini…

  4. Grazie Luigia, grazie Paolo.
    Stefano, Diana Lucia restrepo (dianaluciarestrepo@hotmail.com) e Luz (Luces) Stella Martinez (ligeiadeabril@yahoo.com)dirigono a Medellin un festival di poesie di bambini e le scrivono anche. Puoi chiedere a loro a nome mio.

  5. bello
    una riflessione sulla poesia che dice cose vere e fa sentire amore forte per il verso e i suoi silenzi
    un caro saluto
    c.

  6. Caro Carlo,
    Finalmente he podido leer tu artículo gracias a mi amiga Lina Silva quien lo tradujo!! Me emocionó mucho todo lo que allí planteas, las anecdótas de nuestra contidianidad, tu sensibilidad a lo que somo como esencia en Colombia, el homenaje que nos haces… En cuanto a tus decepciones no sé si las comparto,creo que la poesía nos conecta con emociones, con el alma, con lo humano y también con lo trascendente.Y en Poesía claro que hay poetas extraordinarios, pero empezar a oir y disfrutar de la poesia, a escribirla (asi sea mala) o leerla (asi se de calidad discutible) es un paso a una sociedad mejor. Hace poco estuve en el Museo Magritte en Bruselas, y me interesó mucho el debate de Magritte con el P.C. reivindicando el derecho a la belleza y no solo al pan.Y por algo se comienza. En todo caso si la poesia es verdad nos trae esperanza en un país sumido en la violencia desde hace décadas, y esa esperanza permite que florezca algo contrario al cinismo, a lo desalmado, a la indiferencia.. Un fuerte abrazo, Marcela

  7. Bonito texto, que toca puntos neurálgicos. Gracias por él.
    Establecer conversaciones sobre lo que hacemos y sobre lo que nos pasa con quien ve de otra manera las cosas, eso es necesario.
    En medio de la fiesta -dionisíaca o macabra o ambas- surgen las preguntas. ¡Bueno es tomarlas!

  8. Querida Marcela,querida Maria,
    gracias por vuestras intevenciones. Yo comparto todo lo que ustedes scriben. Ef festival de Medellin es un acto heroico contra el mal. Yo amo mucho latinoamerica por muchas raziones, y una de esas raziones es el amor que en Latinoamerica hay para la poesia.
    Yo tengo un amigo en Paris que es tambien mi traductor en frances, y tiene un sito, dormirajamais, (consejo de visitarlo)adonde hay poemas en varias lenguas. Bueno, el me dijo que la mayoria de las personas que buscan poesia en su sito proceden de Latinoamerica.
    Es verdad que la poesia es necesaria y que si habrà una posibilidad de derrotar la barbarie, a l’interior de esa posibilidad habrà tambien la poesia, como parte importante de ella. Pero estoy de acuerdo con Magritte, que yo adoro, la poesia hay que respectarla. Hay que rechazar la poesia fea y retorica, porque lo que es feo y retorico es falso. Y la poesia es verdad. Y la retorica no es verdad, es solo retorica, es falsa. En el festival de Lima hubo una gran participacion de publico sin necesidad de personajes folkloristicos. Eso significa que la retorica no es necesaria ni indispensable para que la poesia sea aceptada, el publico que escucha la poesia es inteligente, no es estupido… un gran abrazo. Carlo

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