Giorgio Galli, ‘Paesaggi pasoliniani’

Nuova critica
a cura di Luigia Sorrentino


Vi invito a leggere i Paesaggi pasoliniani di Giorgio Galli, saggista e studioso di letteratura italiana. Sono infallibili e colpiscono per la lucidità dell’interpretazione. Giorgio Galli, che è nato negli anni Ottanta, nella sua analisi illumina il fallimento (o il tramonto) di una generazione all’interno della quale inscrive l’intera opera di Pier Paolo Pasolini. Galli infatti scrive: “L’avvento del consumismo ha segnato, per la sua etica e la sua ideologia, la definitiva irruzione della Storia e del tempo desacralizzato. Alla dinamica realtà dell’oro-decadenza, tipica dell’escatologia alla rovescia del pensiero europeo più conservatore, Pasolini arriva in seguito allo scacco della sua escatologia positiva, del suo millenarismo di cattolico marxista.”

A voi, nei commenti.


Paesaggi pasoliniani
di Giorgio Galli

Un grandioso fallimento – Citati ha sintetizzato così il senso dell’opera di Pasolini. Non credo avrebbe potuto dire meglio: la grandezza di Pasolini è soprattutto nella passionale coerenza con cui è riuscito a vivisezionare con la scrittura le sue lacerazioni (marxista e borghese, marxista e innamorato del Sacro, progressista per il motivo conservatore di salvaguardare la tradizione dall’avanzata dell’industrialesiamo e che poi torna conservatore -ma per motivi progressisti- perché la piega presa dal progresso non gli piace; intellettuale coltissimo che scrive testi accessibili solo agli specialisti su giornali e riviste destinati alla diffusione popolare, e che applica la sua capziosa competenza tecnica, con amore commovente, agli aspetti più umili della lingua -la prosodia, le “calate” locali. Perfino i suoi dissidi privati, le coppie omosessualità-omofobia, vitalità e amor mortis, aggressività e tenerezza, sono vissute e raccontate a fior di pelle, facendo violenza a quello che lui chiamava il suo “selvaggio pudore”. La sua opera sembra la dimostrazione più drammatica -una dimostrazione “sulla carne viva”, d’una concretezza scottante- dell’assunto di Mario Soldati secondo cui l’artista è qualcuno che si sforza d’esser chiaro, ma il velo dell’ambiguità gli sfugge comunque dalle mani e “fa” l’opera d’arte. Iperrazionalista, Pasolini si sforza di spiegare con minuzia le proprie disarmonie, e così facendo le accentua, getta una luce così chiara, così tagliente su ogni singolo aspetto della propria personalità da renderne solare l’incompatibilità con i restanti.


Cosa resta di lui, oggi? Se proviamo a far piazza pulita del Pasolini personaggio con la relativa mitologia, e guardiamo alla sua opera come se fosse stata scritta da un grande sconosciuto, da un Omero di cui non si sa nulla, ci accorgiamo che l’operazione non riesce. Pasolini è troppo immerso nella cronaca, troppo “sporco” di attualità. E noi siamo ancora immersi in un mondo troppo pasoliniano, in una società in cui le sue analisi e le sue provocazioni, comunque le si giudichi, sono ancora troppo presenti e troppo vive, e da cui non sono emerse problematiche che il pensiero pasoliniano non abbia perlomeno sfiorato. Forse saremo più liberi da Pasolini quando vivremo in una società che non ha più i problemi toccati da Pasolini. Di sicuro, fra le cose che di lui sono invecchiate spiccano non solo la sua ideologia, ma i lampi d’intolleranza ideologica che qua e là feriscono la nitidezza del suo pensiero, lasciando nel lettore di oggi un senso di fastidio per quell’angustia, per quell’improvviso chiudersi d’una mente aperta. Il ricorso all’invettiva, all’epiteto volgare, se avevano un senso nell’Italia bigotta di quegli anni, oggi si allineano a una volgarità e a un’esasperazione dei toni che ci hanno stufati. Certe cadute di gusto oggi risultano per quello che sono: cadute di gusto punto e basta. Ma, se il discorso pasoliniano pecca qua e là di intolleranza e fanatismo, colpisce tuttavia la qualità di questo fanatismo: Pasolini non odia mail il nemico, ma ciò che, nel nemico, rivede di se stesso. Odia la destra perché è, basilarmente, uomo di destra; alcune sue posizioni appartengono a una sorta di retroguardia profetica; altre, come quelle sull’aborto, costituiscono delle semplici chiusure di un intellettuale ambiguo, il cui comunismo è sempre stato -più di quello berlingueriano- un comunismo conservatore.
Sarà difficile, per i lettori del domani, capire la sua poesia: esperienza senza eredi perché troppo legata al suo creatore: troppo privata nelle sue motivazioni e troppo poco culturale, malgrado l’erudizione. Un’esperienza che si allaccia come antecedenti all’antimodernismo e all’enciclopedismo di Dante e di Pound, rivelando la totale frattura di Pasolini dal proprio tempo, ma che non ha né la saldezza strutturale di Dante, né la misticheggiante invasata unitarietà di Pound. Una poesia che “scorre fangosa”, come diceva Orazio di Lucilio, e che vive di momenti potentissimi o atrocemente delicatissimi in un continuum stilisticamente, tematicamente, oratorialmente dispersivo, discontinuo, vagabondo. Non si può guardare ai singoli testi con la lente d’ingrandimento, ma non c’è neanche un “insieme” così compatto per struttura e per coerenza espressiva da poter essere di referenza. Anche i singoli testi più commoventi, toccanti o esaltanti non possiedono quella folgorante evidenza, quella proprietà della grande poesia di essere un fatto, di avere la spietata purezza di ciò che non dice e di cui non si dice, ma è. Non si trova, nella produzione di Pasolini, una poesia come I mari del Sud di Pavese, per intenderci. Gli mancava forse, del vero poeta, la capacità di sintesi. Eppure, singoli versi, singole “visioni”, singole associazioni di parole si levano potentissimi sulla poesia italiana del Dopoguerra: poesia italiana che, secondo me, anche se non saprà esattamente dove collocare la mina vagante di Pasolini nella sua storia degli stili, non ne potrà fare a meno perché troppo disturbante è il vigore con cui un uomo vi ha espresso il proprio odio per se stesso e per come ha cercato -grandiosamente fallendo- di superare i limiti stessi della letteratura.

Poesie come musiche di Ligeti – La mia esperienza di lettore pasoliniano è iniziata, come quella di molti, con gli Scritti corsari e le Lettere luterane. Poi ho incontrato la folgorante forza critica delle Descrizioni di descrizioni (con tutti i suoi errori, ad esempio su Joseph Roth e sul personaggio dostoevskiano di Alesa Karamazov). Mi sono imbattuto nella radiografia della prosa gramsciana ne Le belle bandiere, in tutto il discorso sulla lingua che occupa la prima parte di Empirismo eretico, col magnifico studio sulla pronuncia italiana di Saba e d’altri letterati. Il poeta m’era risultato di difficile lettura, e sporco, lutulento. Poi ho letto La religione del mio tempo. E allora ho capito. Comprendere la poesia di Pasolini significa comprenderne l’aspetto visivo. Il suo verso ha pochissimo di musicale. Il suo incedere è lento e corposo, il suo ritmo inesistente. Se alla musica dobbiamo pensare, dobbiamo pensare alla musica di Ligeti, al suo procedere per accumuli. In quest’accumulo, d’una densità sconvolgente, si trovano fra la sporcizia preziosissime intuizioni poetiche, combinazioni verbali sferzanti nel loro manierismo, come quella delle “sfuriate di sole”.
Meno discontinua di altre sue raccolte poetiche, pur con tutti gli “errori” pasoliniani più tipici (ad esempio, l’errore del descrittivismo), La religione del mio tempo dà il meglio di sé nel poemetto eponimo e nella sua bellissima Appendice dedicata alla madre, nel poemetto dedicato Ad un ragazzo (in cui è adombrata la morte del fratello Guido), e nelle Poesie incivili dell’ultima sezione, che, a dispetto del titolo, contiene testi d’una meditatività quasi leopardiana. La ricchezza tocca il suo vertice con la Riapparizione poetica di Roma; poi inizia a perder colpi, per risollevarsi, delicatamente, verso la fine, con la seconda rievocazione (stavolta pudica, quasi mascherata) della morte del fratello. C’è tutto il Pasolini ribelle e struggente, ferito dal contrasto fra ragione e passione, fra senso d’aridità, sconforto, esclusione dal mondo, rifiuto addirittura del mondo (con conseguente attesa e assaporamento della morte) e un amore cocente per le creature. Per quanto ne so, mai le contraddizioni di Pasolini avevano dato un risultato così alto in poesia, né mai lo ridaranno: il successivo Poesia in forma di rosa alterna pagine stupende ad altre ridondanti o decisamente di maniera, e Trasumanar e organizzar inaugura un modo “sperimentale” di far poesia ch’era poco congeniale alla corda essenzialmente lirica, mistica, pascoliana del Pasolini più vero). Sono l’opera di un essere traumatizzato dal suo dissidio con la realtà. Risentono, quindi, del volontarismo con cui egli gettò sale sulle proprie ferite. Come negli ultimi films, in cui egli scelse di essere oscuro per dare corpo alla propria condizione di “diverso”, di “non capito” -compiendo dunque quell”operazione volontaristica e, a dirla tutta, vittimistica che rende inautentica tutta la sua tarda produzione.

La lettura di Gassman – La poesia pasoliniana ha un colore speciale, intimo, tenero e caldo, d’una carnalità innamorata e da mattatoio, quand’è recitata dall’autore. Ma mentre Pasolini, con la sua voce timida, porta alla luce soprattutto l’umana ferita, la crepa dell’animo entro cui s’inscrive la sua poesia (e dunque ne sottolinea il carattere privato), Gassman entra in Alla mia nazione e Ballata delle madri con gli stessi accenti con cui entra nelle terzine dantesche, con la stessa solennità ma con una partecipazione emotiva molto più calda. Indignato e sconsolato, Gassman ricollega questo Pasolini al Dante “civile”, e la sua lettura restituisce i suoi versi alla grande tradizione italiana. Quando, sul finire di Alla mia nazione, il grande attore lancia il su ferino “Va, sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo”, allora le due anime inconciliabili di Pasolini, l’uomo ferito e il lucido scrittore, sembrano per un attimo ricomporsi.
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Il tempo minerale – C’è una chiara continuità d’atmosfera fra Ragazzi di vita e i primi film di Pasolini, Accattone e Mamma Roma. L’uso della parola romana nella sua prosa letteraria incorniciata dai versi di Dante fa lo stesso effetto del corpo moribondo del poveraccio Ettore (in Mamma Roma) inquadrato e chiaroscurato come nei dipinti tardorinascimentali. O del manierismo in virtù del quale Pasolini dispone poverissimi elementi, baracche, fango, gente di borgata, in un insieme che arieggia ai quadri rinascimentali. Il suo narrare ellittico, fatto di momenti cruciali, ricorda la tecnica di montaggio dei suoi film, suddivisi non in sequenze, ma in brevissimi piani che frantumano l’azione in una serie di momenti intensamente espressivi ma di per sé statici. Se il cinema è movimento, il cinema di Pasolini è immobilità nel movimento.
Le immagini a cui più spesso associo la sua prosa sono quella di un grande, giallissimo e caldo sole che tramonta, e di una roccia vulcanica, appena condensata, ancora calda, col magma ancora ribollente sotto la crosta. Ma in nessun altro luogo della sua opera quest’elemento “minerale” aggetta con la stessa evidenza che in Mamma Roma, dove la musica di Vivaldi si sovrappone a un paesaggio fatto di sassi, di prati, di catacombe, su cui brulicano e s’agitano i ragazzini. Quella musica, così estranea alle immagini, così lontana dal tempo dell’azione, rivela che quei ragazzi fan parte, con le loro passioni, del paesaggio allo stesso modo delle catacombe e dei sassi: sono esseri millenari. In modo simile, in Accattone, la Passione secondo Matteo di Bach, stendendo sulla misera vita dei protagonisti il velo del Sacro, vi stendeva  anche un’aura di morte: quei personaggi erano già morti, già polvere, e il racconto filmico si rivelava, pur senza flashback né narratori che parlassero al passato, come un racconto “a posteriori”.
Seguendo gli insegnamenti di Mircea Eliade nel Mito dell’eterno ritorno e nel Sacro e profano, potremmo azzardare che per Pasolini, il quale aveva per sua stessa ammissione una visione miracolistica, sacrale, non laica della vita, il tempo sacro, custodito nell’immobilismo della civiltà contadina e del sottoproletariato urbano, sia rimasto intatto fino al secondo dopoguerra. L’avvento del consumismo ha segnato, per la sua etica e la sua ideologia, la definitiva irruzione della Storia e del tempo desacralizzato. Alla dinamica età dell’oro-decadenza, tipica dell’escatologia alla rovescia del pensiero europeo più conservatore, Pasolini arriva in seguito allo scacco della sua escatologia positiva, del suo millenarismo di cattolico marxista.

Dichiarazione d’amore all’Italia Comizi d’amore è il più intelligente e spensierato tra i film di Pasolini. E forse è il più sottovalutato. Non è solo un’inchiesta su sesso amore e coppia in Italia, ma è un ritratto dell’Italia, delle diverse Italie che non si conoscono, non si parlano e non si comprendono non solo da una regione all’altra, ma anche da un gruppo sociale all’altro all’interno della stessa regione. Con straordinaria delicatezza, il documentarista Pasolini non giudica e si rivolge sempre con cordiale simpatia, tutt’al più con garbata ironia anche di fronte alle risposte più aberranti degli interlocutori. Non gli viene mai meno il profondo rispetto umano per i singoli, l’amore per i singoli e per il popolo che in essi è rappresentato, anche quando essi esprimono tradizioni e mentalità inaccettabili. Fa piacere vedere così gaio e leggero un artista tormentato fino alla dissociazione come Pasolini. C’è molto di lui, in questo documentario: c’è la critica alla società del benessere che non produce né benessere né progresso spirituali; c’è l’amore con cui Pasolini accoglie e perdona sempre l’oggetto del suo sguardo, come nelle ultime scene in cui canta l’elogio degl’inconsapevoli, degl’innocenti e degl’ignari anche se ha capito che non si ha più il diritto di essere inconsapevoli, innocenti ed ignari. Questo documentario è per Pasolini ciò che la Quarta sinfonia è per Mahler: uno sguardo dall’alto sul proprio universo espressivo, con lepidezza e ironia, con una serenità inclusiva in cui nulla va perduto. All’epoca in cui fu girato (1965) la parte più aspra del pensiero di Pasolini doveva ancora venire. Come la Quarta di Mahler, Comizi d’amore si colloca nel felice momento di passaggio fra i tormenti giovanili e quelli, irreversibili, della maturità.

La spiritualità dei corpi – Prendiamo un libro come Teorema. E’ un libro profondamente sbagliato. Perché è sbagliato? Perché in una buona narrazione si racconta cosa avviene e si lascia il più possibile libero il lettore di costruirsi da sé la propria interpretazione: che non potrà che essere sfuggente, ambigua, complessa. I conti non devono tornare mai. Anche quei romanzi in cui l’interpretazione è suggerita (Doktor Faustus) lasciano sempre almeno una finestra da cui scappare. Il Don Chisciotte si presenta addirittura dando di sé l’interpretazione più banale e inattendibile, quella di satira dei romanzi cavallereschi: e il bello è che Cervantes la credeva l’interpretazione giusta, e se non l’avesse creduto non gli sarebbe sfuggito dalle mani il Don Chisciotte.
Pasolini si comporta al contrario: dice poco di concreto e interpreta copiosamente, cadendo ad ogni piè sospinto in una categoria marxista. Se il racconto risulta lo stesso misterioso, è soprattutto perché è confuso, o forse semplicemente perché Pasolini è artista: e l’artista, diceva Soldati, cerca costantemente d’esser chiaro, ma il velo dell’ambiguità gli scappa comunque dalle mani. Dunque Teorema ha un suo fascino. Anche se non racconta molto, interpreta troppo, e in compenso descrive, descrive, descrive. Tutta l’opera di Pasolini è molto visiva; ma Teorema fa l’effetto di un film non riuscito di Antonioni, dove la parte drammaturgia non funziona e quella estetizzante non è abbastanza poetica. La prosa, pur passionale e calda, governata dalla pietosa ferocia delle antitesi, ha un retrogusto di giornalismo, di macchina da scrivere, che in quest’autore di solito non dispiace e che qui è troppo scoperto. Il cap. 27 della prima parte è appesantito dalla banalità delle frasi ad effetto e delle figure retoriche impiegate, e a pag. 89 dell’ultima edizione vi trovo perfino un errore grammaticale: “…tanta oscurità e tanta luce entrati dentro di loro”.
Dov’è che Pasolini, anche in questo romanzo non riuscito, è sublime? Quando evoca la spiritualità attraverso i corpi, il loro calore, il loro odore, la loro dolcezza, il loro calvario. Questa è stata la sua più duratura invenzione, più di quella della “poesia civile di sinistra” di cui parlava Moravia.

Giorgio Galli è nato a Pescara nel 1980 e si è laureato in Scienze della Comunicazione a Siena nel 2006. Ha pubblicato articoli, poesie e racconti sulle riviste Il Monitore e Nugae e in alcune antologie poetiche (antologia del concorso Città di Melegnano 2006, Agenda poetica 2010 dell’editore Nicola Calabria) . Al 2006 risale la pubblicazione della sua raccolta di poesie Improvvisi (edizioni Il Filo), che ha ricevuto la menzione speciale al premio Pannunzio nel 2007. Vive e lavora a Roma.

2 pensieri su “Giorgio Galli, ‘Paesaggi pasoliniani’

  1. Lo sai,caro Girogio, si desacralizza quando si capisce troppo bene e poi senza il sacro non ci si sente neanche profani e quel niente che appare angoscia. Il nostro percorso e’ una vita di tentativi, di ricerca continua…certi ritornano ad un passato delimitato e sicuro; altri a pieno vento affrontano l’avventura nuova, difficile e trovano un mondo rotondo che affascina con la sua ingiustizia, crudelta’, inegalita’… La vita e’ ancora meravigliosa ed incanta anche nelle sue manifestazioni piu’ orribili. Rousseau e’ morto!!! Anche lui e’ stato crudelissimo nell’abbandonare tutti i suoi figli appena nati. Pensa alla contraddizione con i suoi scritti sull’educazione ed al suo “Contratto Sociale”.
    Cerchero’ il tuo libro e ti consiglio di leggere le mie poesie della raccolta “Sulla terra tocco il cielo”, collana “Scrittori del mondo” Sciascia Editore. Il titolo di un mio pezzo di teatro e’ “Non desacralizziamo la mamma!” scritto nel 2002.
    Ciao!
    Adriana Feoli

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