Cesare Pavese, “Amor mortis”

L’antiletterario, Cesare Pavese
cura di Luigia Sorrentino

Giorgio Galli mi invia questo scritto su Cesare Pavese.   Lo pubblico così com’è, nella sua interezza.  
Grazie Giorgio, per questo omaggio….

Parlare di Pavese è perfino imbarazzante. Si è detto moltissimo di lui, e spesso per ragioni extraletterarie. La sua figura esercita un fascino che va al di là del valore delle sue pagine e ha a che vedere con le ragioni più profonde -e imperscrutabili- del male di vivere, dell’impossibilità di vivere, del conflitto vita-letteratura. Lui stesso si definiva “una delle voci più isolate” della letteratura novecentesca. E quest’isolamento è visibile anche nella mancanza d’eredi. Chi ha raccolto il testimone di Pavese? Franco Fortini ricordava che moltissimi scrittori italiani affermavano di non aver ricevuto nulla da Pavese. Moravia ostentò sempre disprezzo. Pasolini non lo amava -forse perché tutto diverso era il suo amor mortis: drammatico, plastico, fatto di lotta, attivo, mentre quello del piemontese era tetragono, senza dialettica, una disperazione senza suoni e senza sbocchi.


Anche il percorso di Pavese ha qualcosa d’immobile, che lascia stupiti. Pavese sembra nascere già maturo. Le poesie di Lavorare stanca, le lettere dal confino rivelano una scrittura sorprendentemente priva di acerbità, di slanci, d’ingenuità per un autore non ancora trentenne: è una scrittura matura, cui nulla manca se non proprio uno spiraglio d’imperfezione, una ridondanza, uno scatto, un uscir fuori dalle righe. Pavese ostenta un tono antiletterario, fatto di cose; ma sembra non dimenticarsi mai per un momento di essere uno scrittore, e si priva di quei momenti di fascino che vengono solo quando lo scrittore dimentica il suo mestiere e scopre la sua scrittura con stupore, quando le parole per lui sono affascinanti e nuove come se le usasse per la prima volta, come se ne apprendesse solo ora il significato. Lo scrittore ha in sé la gioia d’un bambino che non smette mai di scoprire il linguaggio, che gioca, manipola le parole con gusto quasi tattile,o ha l’amore scrupoloso d’un artigiano che lavora il suo legno. Pavese non è capace di questa gioia, di questo stupore. E’ come se per lui tutto avesse perso d’importanza prima ancora d’averlo toccato con mano. “L’alba s’alzava che il giorno era già vecchio”, dice il protagonista dei Mari del Sud.
Queste sono le ragioni del fascino di Pavese, e questi sono i suoi peccati capitali. Perché la figura di Pavese è tanto potente quanto chiusa in se stessa: il suo idioma è così idiomatico da non poter essere usato da altri.

Personalmente, trovo il miglior Pavese in alcune, poche poesie di Lavorare stanca, nei Dialoghi con Leucò, nelle poesie di La terra e la morte, nelle pagine di Fuoco grande e nel diario Il mestiere di vivere. La narrativa, ai miei occhi, appare viziata dal disinteresse di Pavese per i personaggi e le psicologie. In molte pagine critiche lo scrittore piemontese ha dichiarato il suo disprezzo per i personaggi. Lavorare sui personaggi, per lui, era un anacronismo dopo che il naturalismo e il realismo americano avevano insegnato ad osservare uomini e cose con lo stesso sguardo. In una pagina di diario, egli scrive che la modernità del Moby Dick è nel fatto che esso “è ritmo, non personaggi”. Ma il ritmo, di per sé, il movimento continuo delle pure forme, porta a uno svuotamento del racconto. Lo notò già Emilio Cecchi, che paragonò Pavese a Sherwood Anderson. Lo notò Calvino, che commentando Tra donne sole gli rimproverò certe inattendibilità narrative. Quando l’abilità costruttiva di Pavese si sostanzia di contenuti umani, come ne La casa in collina e in La luna e i falò, allora il racconto funziona; altrimenti, si riduce a una gesticolazione narrativa estetizzante, a poco più di un pretesto, come avviene secondo me nel Diavolo sulle colline.

La tendenza a ridurre l’essere umano ad astrazione è accentuata dall’influenza che, sulle sue concezioni, ha l’antropologia. Pavese è quasi disumanizzante nel suo continuo ricondur tutto agli archetipi. Se mai fa pensare a un altro autore, è a Nietzsche: entrambi immersi in un bagno mediterraneo, pagano, ancestrale, fatto di ripetizioni rituali e di feroce scavo sotto le apparenze della morale borghese; entrambi condannati a una durissima solitudine, entrambi nutriti d’una visione dell’umanità che attinge ai più scettici prosatori secenteschi (La Rochefoucault); entrambi, infine, protagonisti d’un dramma che li portò a identificarsi con la propria opera fino a morirne (Nietzsche, vessillifero del dionisismo, nei “biglietti della follia” si firmava Dioniso; Pavese, dopo aver insistito sull’archetipo amore-morte e sulla ripetizione rituale del ciclo vita-morte, si tolse la vita per una delusione d’amore).

Nel Mestiere di vivere Pavese sembra guardare al proprio suicidio come a un esito inevitabile, o meglio, per usare una parola a lui più consona, come a un fato. Nel 1938 scrive per la prima volta la frase “Quel ch’è stato, sarà”, che tornerà poi nel più bello dei Dialoghi con Leucò, L’inconsolabile. Questa frase sembra già il manifesto d’un suicida per la sua negazione d’ogni sbocco, d’ogni soluzione. La ciclicità ch’essa esprime, però, deve ancora rivelare il suo senso più profondo. A partire dal 1939, Pavese sviluppa una sua personale riflessione sul mito, luogo per eccellenza della ripetizione rituale e dell’immutabile, e luogo in cui i regni umano, animale, vegetale e minerale trascorrono l’uno nell’altro a significare l’eterno rinnovarsi del ciclo vita-morte. Nelle poesie di La terra e la morte è evidente il continuo reificarsi dei sentimenti in una natura carica di valenze simboliche: la vigna, la quaglia, la terra, il mare… si sente tutta l’aspirazione di Pavese a farsi cosa, a ritornare nel grembo della terra. E quest’aspirazione passa attraverso il rito e il simbolo.
Pavese, ormai, è prigioniero del meccanismo del suicidio: un meccanismo che lo porta a credere che darsi la morte sia un destino ineluttabile. Ogni ripetizione assume per lui l’aspetto d’un beffardo eterno ritorno. Nel 1938 progettava d’uccidersi per una delusione d’amore, e scriveva “Quel ch’è stato, sarà”; nel 1950 si toglie la vita per un’altra delusione d’amore. Non ha nemmeno provato a cambiare il suo destino. Nelle ultime pagine del diario, quelle in cui ha già stabilito d’uccidersi, Pavese non sembra combattuto fra morte e vita: guarda al proprio suicidio quasi come a un dovere, a un inevitabile di fronte al quale si deve almeno mantenere la dignità (la preoccupazione di “finire con stile”).

Ma Pavese non è solo cupezza e suicidio. E’ stato, nella sua generazione, il massimo sprovincializzatore della cultura italiana, inventore di una scrittura modernissima, di una limpidezza galileiana, depurata dei tecnicismi letterari, delle gergalità intellettualistiche e dei barocchismi cari alla prosa italiana anche dei decenni successivi. Il confronto con la scrittura di Pasolini è illuminante: la frase di Pasolini appartiene ancora alla tradizione letteraria, anche se la tormenta, la deforma con il suo carico di ribellione. Pavese, semplicemente, è al di là di quella tradizione. La sua scrittura è troppo distillata, quintessenziale, troppo interiorizzata per potersi concedere anche un solo indugio su ciò che non è se stessa. Questo è il suo grave limite, ma è anche la ragione del suo fascino e della sua forza eversiva.

Se confrontiamo l’America di Soldati con quella di Pavese, vediamo che per Soldati l’America è un’esperienza esistenziale, poiché egli c’è stato; per Pavese è un’esperienza puramente culturale. Soldati accetta la tradizione classica italiana e la sua lingua, ed è un narratore ottocentesco, che crede nei personaggi; il contatto con l’America lo porta a dare un taglio più cinematografico al racconto, ad adottare ritmi più incalzanti, a rendere più vivace, più sbrigliato, più colloquiale il suo frasario senza che la tradizione venga messa sostanzialmente in discussione. La scelta “americana” di Pavese invece intacca la sua opera a tutti i livelli: riduzione del ruolo dei personaggi, riduzione delle dimensioni del racconto, assorbimento degli aspetti descrittivo e psicologico in una macchina narrativa che accoglie la lezione di Hemingway e la piega ad esprimere una desolata visione del mito e dell’eterno ritorno; rifiuto della lingua della tradizione classica italiana; in poesia, preferenza per un timbro epico che informa persino i versi di La terra e la morte. Con I mari del Sud, Pavese s’è gioiosamente lanciato all’inseguimento di ritmi, climi, motivi della poesia di Whitman. L’America di Soldati è come la Polinesia di Gauguin, quella di Pavese come l’Africa e l’antica Iberia di Picasso.

Ma Pavese ha coltivato la sua straordinaria modernità nell’isolamento, quasi nella segregazione. La cultura italiana s’è potuta giovar poco di questa lezione. La sua opera, nata già molto matura, non ha potuto svilupparsi in pienezza e potenza per i limiti non dello scrittore, ma dell’uomo Pavese, per la sua mancanza di vitalità, per la sua reticenza a confrontarsi con l’umano, per il suo bisogno tutto privato di usare la letteratura come alibi, fuga, rifugio, terreno sicuro e arretrato. Il fascino che questo straordinario scrittore continua ad avere è inscindibile dal suo dramma umano, da tutto ciò che nella sua opera è rimasto potenzialità inespressa, e si nutre perfino dallo iato, rimasto aperto, tra il valore e la novità della sua concezione culturale e il valore effettivo della sua pagina letteraria.

Chi è Giorgio Galli
Giorgio Galli è nato a Pescara nel 1980 e si è laureato in Scienze della Comunicazione a Siena nel 2006. Ha pubblicato articoli, poesie e racconti sulle riviste Il Monitore e Nugae e in alcune antologie poetiche (antologia del concorso Città di Melegnano 2006, Agenda poetica 2010 dell’editore Nicola Calabria) . Al 2006 risale la pubblicazione della sua raccolta di poesie Improvvisi (edizioni Il Filo), che ha ricevuto la menzione speciale al premio Pannunzio nel 2007. Vive e lavora a Roma.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *